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Il Seicento - Filosofia (52): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 53
Il Seicento - Filosofia (52): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 53
Il Seicento - Filosofia (52): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 53
E-book550 pagine6 ore

Il Seicento - Filosofia (52): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 53

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Se la filosofia medievale era fondata sulla certezza della fede, e se Umanesimo e Rinascimento avevano nutrito nuove certezze dalla riscoperta di antichi misteri, dal culto della classicità e dalla persuasione della dignità dell’uomo come centro dell’universo, il Seicento potrebbe essere invece definito come secolo dell’inquietudine, dello spaesamento, della ricerca di nuovi punti di riferimento, in cui l’uomo deve ridefinire la propria posizione nel Cosmo. Questo ebook presenta tutte le grandi questioni filosofiche che l’uomo del XVII secolo è chiamato più o meno direttamente ad affrontare: l’infinità dei mondi aperti dai sostenitori di Copernico e dalla conoscenza sempre maggiore delle popolazioni coloniali; la ricerca di un metodo universalmente valido e incontestabile condotta su diversi fronti da Cartesio, Spinoza, Leibniz, Bacon, Locke e Galileo; il metodo sperimentale e la ricerca cooperativa; la riflessione sul linguaggio; le utopie di Thomas More e di Campanella che fanno da contraltare al secolo della scienza; e il grande dibattito sul rapporto tra assolutismo e diritto naturale. Un secolo denso di spunti e di intuizioni, in cui la filosofia, in polemica contro la tradizione aristotelica, da un lato rilegge la tradizione platonica, dall’altro riscopre filosofi come Democrito ed Epicuro in chiave materialistica, da cui deriva l’idea di un mondo fatto di atomi, con tutte le implicazioni sulla visione del mondo e il rapporto con Dio. Ma è anche un secolo in cui il pensiero coinvolge anche il mondo femminile, e in cui la cultura, non più solo appannaggio del “chierico” o del filosofo di corte, dilaga tra i membri della borghesia agiata e dell’aristocrazia illuminata, stimolata dalla moda della conversazione colta ed erudita.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788897514848
Il Seicento - Filosofia (52): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 53

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    Anteprima del libro

    Il Seicento - Filosofia (52) - Umberto Eco

    copertina

    Il Seicento - Filosofia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Seicento

    Filosofia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla filosofia del Seicento

    Umberto Eco

    Il secolo dell’inquietudine

    La filosofia medievale era fondata sulla certezza della fede.

    Umanesimo e Rinascimento avevano nutrito nuove certezze provenienti dalla riscoperta di antichi misteri, dal culto della classicità e dalla persuasione della dignità dell’uomo come centro dell’universo. Il XVII secolo potrebbe essere invece definito come secolo dell’inquietudine, dello spaesamento, della ricerca di nuovi punti di riferimento, in cui l’uomo deve ridefinire la propria posizione nel cosmo. Per capire come questo sentimento si traduca nel pensiero filosofico, bisogna vedere la filosofia di questo secolo in riferimento alle nuove scoperte della scienza e ai rivolgimenti politici e religiosi dell’epoca.

    L’infinità dei mondi

    Il XVI secolo era già stato sconvolto dalla rivelazione di Copernico: la Terra non era, come voleva la teoria tolemaica, immobile al centro dell’universo. Essa si muoveva e si trovava in posizione periferica rispetto al Sole. Ma è all’inizio del secolo XVII, in particolare attraverso l’opera di Galileo, che questa idea si afferma e viene dimostrata attraverso prove sperimentali.

    Non solo: se nel sistema galileiano le orbite planetarie erano viste ancora come circolari (e per millenni il cerchio era stato considerato simbolo della perfezione divina), con le scoperte di Keplero le orbite dei pianeti si presentano come ellittiche.

    Da più di un secolo Magellano aveva compiuto la circumnavigazione del globo e i navigatori stavano scoprendo terre ignote, popolazioni dai costumi sconosciuti. Locke ricorderà che presso diversi popoli vi sono modi di pensare, di vivere, di considerare il bene e il male, diversi da quello che la cultura europea aveva considerato come universale.

    D’altra parte quando missionari gesuiti come Matteo Ricci arrivano in Cina, scoprono una morale e una religiosità che, per quanto diverse dal cristianesimo, paiono loro ispirate ai principi della ragione e dell’etica; anziché tentare di negarle e distruggerle (come i primi conquistatori avevano fatto nel secolo precedente con la religione e i costumi degli Indiani d’America), tentano di tradurre i principi del cristianesimo nei termini del pensiero e del costume cinese.

    Infine, proprio queste scoperte rivelano che le cronologie imperiali cinesi sono più antiche delle cronologie bibliche, e nasce addirittura, a opera del protestante La Peyrère, l’idea che il peccato di Adamo coinvolga solo, a un momento avanzato della storia, il popolo ebraico e il mondo cristiano, mentre sarebbe esistita in Oriente una umanità preadamitica, immune dal peccato originale. L’idea sarà certamente ritenuta eretica, ma rivela una serie di inquietudini di fronte all’allargamento del nostro globo e alla scoperta di altre civiltà.

    Galileo, usando il cannocchiale, scopre corpi celesti sino ad allora sconosciuti, come i satelliti di Giove o gli anelli di Saturno, e trova che un corpo considerato sino ad allora perfetto come il Sole presenta delle macchie.

    Nello stesso periodo si fanno le prime esperienze al microscopio e si scopre che, al di là di quanto l’occhio possa cogliere, esistono altri esseri che abitano uno spazio impercettibile.

    Il brivido che l’uomo di questo secolo può provare di fronte a questa nuova immagine del mondo si trova espresso in Pascal, che definisce l’uomo come situato tra due infiniti, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Si allarga la terra, si amplia il cielo, si rivelano degli abissi.

    Sta cambiando l’intera forma dell’universo, e questo sentimento si riflette anche nelle arti. Se la Terra si muove alla periferia di un astro centrale, se il sistema solare non è più una serie di sfere di cristallo e gli altri pianeti si muovono come il nostro, se esistono altri corpi celesti di cui si ignorava prima l’esistenza, non sarà difficile iniziare a pensare che non solo l’universo può ospitare infiniti altri mondi, ma che molti di questi mondi possono essere abitati come il nostro.

    Scienziati e scrittori immaginano viaggi in una Luna su cui abitano esseri viventi, dal Somnium di Keplero al The Man in the Moon di Godwin, e ai viaggi immaginari di Cyrano de Bergerac negli imperi del Sole e della Luna. Il secolo inizia con la morte sul rogo di Giordano Bruno, che aveva parlato della infinità dei mondi, e termina con le Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle.

    Il problema del metodo

    C’è una costante nel pensiero di questo secolo: si mette in discussione la tradizione, si cerca un metodo di scoperta che permetta di fare piazza pulita di tutte le opinioni precedenti, coltivando il dubbio non come debolezza, ma come atto di forza del pensiero. Cartesio inizierà a filosofare decidendo di non accettare mai nessuna cosa per vera, se non possa essere riconosciuta evidentemente per tale.

    Il metodo può essere razionale, come per lo stesso Cartesio o per Spinoza e Leibniz (e allora si cercano nei meccanismi stessi del pensiero umano le leggi che permettano di capire l’ordine dell’universo, e si asserisce che percepiamo e comprendiamo il mondo sulla base di principi innati, tali per cui, come dirà Spinoza, l’ordine e la connessione delle idee siano identici all’ordine e alla connessione delle cose). Oppure è empirico, come per Bacon o Locke (e allora si cerca nel ricorso all’esperienza e nella sperimentazione la risposta ai quesiti irrisolti). Per questo si usa opporre, per il Seicento, ai seguaci del razionalismo quelli dell’empirismo. Ma sovente la definizione è troppo rigida: Galileo, per esempio, esplora il cielo sperimentalmente, fa ricerche sperimentali sulla caduta dei gravi o sui fenomeni idraulici, ma ritiene che l’universo sia scritto in caratteri matematici e che la matematica possa esprimere le sue leggi.

    L’opposizione tra razionalisti ed empiristi si svolge però in modo radicale intorno al problema della percezione e della conoscenza. Ad alcuni il mondo appare, anche di fronte ai risultati delle nuove scoperte scientifiche, come un immenso teatro di fenomeni visibili e la conoscenza parte dall’evidenza della visione. Lo stesso sentimento domina anche le espressioni più fantasiose e artificiose di quel secolo. L’entusiasmo scientifico e filosofico per le meraviglie del visibile può condurre anche al culto della parvenza e dell’inganno: si eccede nel gioco retorico dei contrasti, delle antitesi, si costruiscono rappresentazioni distorte e illusionistiche, teatri di specchi, giochi di luce e d’ombra. Ma anche questi sono modi di sperimentare la varietà delle percezioni, le molteplici prospettive di cui il mondo può essere guardato.

    Metodo sperimentale e ricerca cooperativa

    Quello che caratterizza il pensiero di questo secolo è che, se l’universo deve essere ridefinito, senza prestare più fede alla tradizione, occorre trovare un metodo di ricerca, sia esso quello razionalista, sia quello sperimentale. Fa parte del nuovo metodo anche una pratica di ricerca collettiva. Se si deve procedere sulla base di nuove scoperte (e non di un semplice commento ai testi tradizionali), queste scoperte debbono essere controllate, discusse, confrontate. Gli uomini di scienza e di pensiero si scambiano incessantemente lettere in cui si raccontano reciprocamente i risultati a cui sono pervenuti, e nascono le accademie scientifiche, da quella galileiana del Cimento alla Royal Society inglese.

    La conversazione e la cultura femminile

    È il secolo della conversazione colta ed erudita. Appare in Francia la figura dell’honnête homme, non necessariamente un aristocratico, ma un gentiluomo compito, abile nel dibattito d’idee, curioso di nuove conoscenze. La cultura non è più appannaggio del chierico (come nel Medioevo) o del filosofo di corte (come nel Rinascimento), ma anche dei membri della borghesia agiata e dell’aristocrazia illuminata.

    Il fenomeno non concerne più soltanto gli uomini. Appare anche una figura femminile che è stata sovente caricaturata attraverso l’immagine creata da Molière della femme savante e della preziosa (segno che la sua apparizione sulla scena culturale incontrava delle resistenze). Le Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle, opera in cui discutono principi filosofici e scientifici, ha per interlocutore una dama.

    Il XVII secolo vede la donna come protagonista di molte discussioni culturali. In Francia sono i celebri salotti della Marchesa di Rambouillet o di Mademoiselle de Scudery che ospitano le menti più belle del secolo. Le donne non hanno solo una funzione di mediazione culturale, ma concorrono con gli uomini alla discussione su questioni filosofiche e letterarie. Questo non elimina il ruolo ancora passivo della donna nel campo delle scienze e del pensiero filosofico, permettendole al massimo di apparire come protagonista nel campo della creazione letteraria; e, naturalmente, il processo di affrancamento femminile si verifica solo a livello delle classi superiori. In ogni caso la donna appare in molte situazioni non più solo come moglie, ispiratrice, cortigiana, bensì come soggetto attivo di discussione e di ricerca.

    Platonismo e atomismo

    La filosofia di questo secolo, in polemica contro la tradizione aristotelica, da un lato rilegge la tradizione platonica (vedi i platonici di Cambridge), dall’altro riscopre filosofi come Democrito e, specialmente, Epicuro, in chiave materialistica. Da essi deriva l’idea di un mondo fatto di atomi.

    Si apre un dibattito se l’atomismo coincida con un materialismo assoluto (compresa l’affermazione dell’eternità del mondo e della casualità del suo divenire), se si possa asserire l’infinita divisibilità degli atomi a sostegno di una fisica e di una metafisica dell’infinità dei mondi, o se la visione atomistica, come per Gassendi, sia conciliabile con l’idea di un mondo creato e finito le cui leggi sono pur sempre state disposte da Dio. In ogni caso prevale in molti l’idea che il mondo sia una macchina di cui si può descrivere il funzionamento, e sia ordinato come un grande orologio.

    Macchine e scienza quantitativa

    Questo è il secolo delle artificiose macchine. Sin dal Medioevo, con Ruggero Bacone, sin dal Rinascimento, con Leonardo da Vinci, si erano sognate o progettate macchine. Ma il XVII non solo progetta e immagina macchine di ogni tipo, per sollevar pesi, per navigare, per macinare il grano, per elevare l’acqua, per guardare nei cieli o per osservare l’interno dei corpi: la novità è che queste macchine ora funzionano e permettono di modificare la natura.

    Il secolo precedente aveva elaborato l’idea della modificabilità della natura, le cui sostanze non erano più considerate immutabili. Ma la forza che doveva agire sulla natura era una forza magica dove le qualità di certe sostanze, oggetti, gesti o invocazioni dovevano modificare le qualità di altri aspetti del mondo terrestre o celeste.

    La scienza del XVII si avvia a diventare quantitativa: il rapporto tra ciò che agisce e ciò che è modificato viene studiato matematicamente in termini di quantità. Questo non significa che nel XVII sia scomparsa la mentalità magica: anzi, essa sovente convive con la mentalità che oggi definiamo scientifica.

    Uno scienziato, che consideriamo ormai moderno, come Newton si muove alla ricerca delle leggi gravitazionali pensando di poter scoprire quelle che, in termini ancora magici, si chiamavano forze occulte. Ma le leggi fisiche che scoprirà saranno espresse in formule matematiche.

    Il secolo dell’utopia

    Se questo è il secolo della scienza, è anche il secolo delle grandi utopie. Dopo la Riforma protestante del secolo precedente, e la Controriforma della Chiesa cattolica, l’Europa è dilaniata dalle divisioni religiose, che si riflettono nel massimo conflitto del secolo, la guerra dei Trent’anni.

    Ma mentre gli eserciti attraversano un continente devastato da invasioni e massacri, sorgono movimenti, o personaggi isolati, che predicano la concordia universale al di sopra delle divisioni teologiche.

    Nel XVI secolo Thomas More, descrivendo l’Isola di Utopia, aveva disegnato una repubblica ideale; in questo secolo si moltiplicano le utopie, dalla Nuova Atlantide di Bacon alla Città del sole di Campanella, dalla proposta di una Christianopolis dovuta a Johann Valentin Andreae (che alcuni reputano l’ispiratore della riforma magico-religiosa dei Rosacroce) al sogno di una pace universale fondata sull’educazione da parte di Comenio. All’interno del mondo cattolico questo bisogno di profondo rinnovamento spirituale è affermato da movimenti come il giansenismo.

    La riflessione sul linguaggio

    Per unire tutti i popoli del mondo, alcuni cercano di ritrovare la lingua perfetta parlata da Adamo, mentre altri cercano di costruire lingue nuove, artificiali ma costruite secondo i principi della ragione e della scienza, non solo (o non tanto) per propagare la fede nelle nuove terre, ma per favorire la diffusione delle idee scientifiche.

    Nel frontespizio del progetto di Cave Beck per un linguaggio universale si vede un viaggiatore europeo (non un missionario, ma probabilmente un mercante) che offre la nuova lingua a un Indù, a un Africano e a un Indiano d’America, come mezzo di scambio valido su tutto il globo.

    In ogni caso (in un secolo in cui si intensificano i viaggi, le conquiste coloniali, i contatti tra i popoli diversi) il problema del linguaggio, delle sue origini, delle sue imperfezioni e dei suoi usi controllati e ragionevoli, occupa la mente di molti pensatori, da Bacon a Locke, da Hobbes ai logici di Port-Royal alla ricerca di una Grammatica Universale (e anche la discussione sul linguaggio è attraversata dalla disputa tra razionalisti, che credono a una facoltà linguistica innata, ed empiristi, che ritengono le varie lingue effetto di una interazione dei diversi popoli con il loro ambiente).

    Assolutismo e diritto naturale

    Il continente europeo cerca tuttavia altre forme di unificazione attraverso il potere dello Stato.Thomas Hobbes parla del potere statale come di un Leviatano (in riferimento al mostro biblico) che deve piegare le volontà individuali per ridurre la guerra di tutti contro tutti. Il secolo si concluderà con quella che sarà chiamata l’età dell’assolutismo, delle grandi monarchie assolute che riescono a unificare un Paese, ma che si confrontano in armi tra loro per la supremazia europea.

    Di fronte al potere del monarca l’uomo di questo secolo sente diminuita la propria libertà: se non si rifugia nel pensiero coltivando la propria libertà interiore, cerca di adeguarsi alla ragion di Stato, elaborando tecniche di difesa psicologica, attraverso l’elogio della simulazione (Gracián), della dissimulazione (Accetto), del segreto. Oppure, come nel caso dei filosofi detti libertini, mentre si considererà libero in termini di filosofia e di morale, esprimendo teorie materialiste e facendo spesso professione di ateismo, in politica si comporterà come sostenitore dello Stato, ritenendo che, proprio perché nel mondo non valgono più le leggi etiche tradizionali, occorra un potere forte per tenere a freno gli impulsi delle masse popolari.

    Ma è di questo secolo anche il tentativo di fondare l’autorità stessa e il potere delle leggi sulla ragione naturale. Grozio asserirà che le norme della ragione naturale sarebbero valide anche se Dio non ci fosse, ed elabora una teoria del diritto che mette in discussione gli stessi limiti della sovranità del principe al popolo. Infine è nel Seicento che appaiono alcune delle più vigorose rivendicazioni della tolleranza e della libertà di pensiero, in filosofi come Spinoza e Locke.

    Intanto, meno interessato ai problemi filosofici o alle raffinatezze della discussione culturale, trionfa la figura conquistatrice del mercante, che raggiunge il proprio trionfo nella società olandese. Questa etica mercantile non è priva di riflessi sul pensiero filosofico, perché ispira (oltre alla ricerca scientifica) una politica pragmatica della tolleranza, ed è in Olanda che molti pensatori, altrove perseguitati per le loro idee, trovano accoglienza, e molti altri filosofi e scienziati, per sfuggire ai rigori della censura, pubblicano le loro opere.

    Non solo nel ritratto olandese, espressione di una civiltà borghese, ma anche nella pittura religiosa si sente l’influenza di un pensiero volto all’osservazione della natura. Caravaggio, che per dipingere la morte della Vergine, non riprende l’iconografia tradizionale, ma osserva direttamente il cadavere di una donna annegata, ci dice che in questo secolo le immagini non rinviano più simbolicamente a una realtà soprannaturale ma esprimono se stesse, ovvero quella concretezza del visibile a cui si ispirano.

    Il gusto dell’artificiale e dell’inaudito

    D’altra parte lo stesso sentimento di infinità, di scoperta, di ricomposizione, modificazione, ricreazione della natura, che domina il pensiero scientifico e filosofico, lo si ritrova anche nella ricerca di pittori, scultori, architetti, che spesso mira all’artificiale e all’inaudito.

    Lo stesso gusto (che non è puramente estetico, ma risponde alla visione del mondo di questo secolo) appare anche in poesia.

    Quando Marino afferma che è del poeta il fin la meraviglia manifesta qualcosa di più di un puro compiacimento retorico. Il fine della poesia deve essere lo sviluppo dell’idea inedita, ingegnosa (wit, Witz, agudeza, pointe) ed Emanuele Tesauro nel suo Cannocchiale aristotelico considererà la metafora come un equivalente del cannocchiale galileiano, che anziché consentire scoperte fisiche permette di rivelare o istituire rapporti inediti (arguti) tra i vari aspetti del mondo.

    La letteratura partecipa all’ansia di scoperta e alla sete di novità che pervade questo secolo, in cui l’uomo scopre di vivere alla periferia di un universo senza limiti, o dai limiti ancora inesplorati.

    Il soggetto sulla scena del mondo: misura, tradizione, incertezza

    Il mondo è teatro

    Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri

    All’alba del Seicento è Shakespeare, con la metafora del mondo come palcoscenico, a fornire l’immagine più eloquente del secolo a venire. L’intreccio tra realtà e finzione, il gioco tra maschera, inganno e verità, l’oscillazione della vita fra dramma e commedia: lo spettacolo teatrale rappresenta i molti volti del Seicento filosofico e della vivacità intellettuale che lo ha attraversato.

    La vita come teatro: Shakespeare e Corneille

    Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena. Ognuno nella sua vita interpreta molti ruoli e gli atti sono le sette età della vita. Dapprima l’uomo è un bambino che frigna fra le braccia della nutrice, poi uno scolaro lamentoso e svogliato che si incammina verso la scuola a passo di lumaca. Poi è un innamorato che sospira come un mantice, [...] più tardi un soldato baffuto e lesto di mano, [...] poi un giudice sentenzioso con la pancia piena, gli occhi severi, la barba ben curata, [...]. La sesta età lo vede in ciabatte e i pantaloni sformati e vuoti, le lenti sul naso, [...]. La scena infine che chiude questa strana e movimentata storia è una seconda infanzia, puro oblio, senza denti, senza vista, senza gusto e senza niente (As you like it, atto II, scena VII).

    Chi scrive così è Shakespeare, ma sappiamo che la metafora della vita come teatro è diffusa in altri testi – non solo teatrali – di autori che scrivono fra Cinque e Seicento. Simmetrica all’ambizione del teatro di rappresentare le vicende della vita, la metafora della vita come spettacolo teatrale rappresenta un’immagine duplicata e complessa, specchio nello specchio. Alla base della fortuna della metafora in quei tempi sta il diffuso successo del teatro, un’arte esaltata da Corneille come l’amore di tutti i buoni ingegni, l’argomento delle conversazioni di Parigi, il più caro divertimento dei nostri principi, la delizia del popolo [...].

    Tutte le avventure e disavventure, gli amori e le inimicizie della vita reale possono per magia diventare puro teatro, un’illusione che talvolta prevede un lieto fine: il padre che disperato piangeva la morte del figlio scopre che è vivo e fa l’attore; lo vede mentre alla fine della giornata riceve la sua paga insieme ai compagni. Tutti gli attori – scrive Corneille – senza prender vero interesse alle parti che hanno recitato, il traditore e il tradito, il morto e il vivo, si trovano alla fine amici come prima (L’illusion comique, atto V, scena V).

    La vita è dunque un dramma il più sovente non molto allegro nel suo insieme (e raramente a lieto fine come L’illusion) e il mondo è un palcoscenico, un luogo non scelto dagli attori come del resto il copione assegnato agli interpreti che possono modificarlo solo in minima parte. Una fila interminabile di uomini entra sul palco e poi definitivamente esce: l’uomo è un poveraccio che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo durante la sua ora e poi non se ne parla più, è una favola raccontata da un idiota [...] qualcosa che non significa nulla (Macbeth, atto V, scena V).

    Storia e significati di una metafora

    Qual è il senso del pensare e immaginare fin nei particolari – palcoscenico, attori, copione e prima di tutto l’Autore – che la vita sia una recita teatrale?

    Il teatro/mondo è un’immagine polivalente che ha un’origine lontana e si è ampliata nel corso del tempo: Platone nella Repubblica (604bc) e nelle Leggi (644e; 645b; 803b-c) parla della vita come dramma (un’arte che non amava e giudicava moralmente dannosa), anche se non sviluppa l’analogia nelle sue componenti; gli stoici, ai quali sta a cuore il nucleo etico dell’idea, allargano il confronto e aggiungono che compito dell’uomo è recitare bene la parte che gli è assegnata mentre sceglierla è compito d’altri. È noto che recitare bene significa per il filosofo stoico seguire la Ragione.

    Qualcosa cambia ma non molto nell’elaborazione dell’immagine da parte dei letterati cristiani. Fra gli antichi e gli scrittori secenteschi pochi ricordano che a far da tramite, in modo originale ed esplicito, è un autore del XII secolo, dunque un filosofo medievale che adorava le parole e le immagini eleganti degli antiqui: Giovanni di Salisbury, allievo di Abelardo e dei maestri di Chartres. Nel suo Policraticus – testo di etica politica sul governo e la convivenza umana – Giovanni di Salisbury, rifacendosi al Satyricon di Petronio (il passo tuttavia non è stato individuato dagli studiosi) riprende la metafora, la arricchisce con riflessioni nuove e quella melanconia trasognata che anticipa i pensieri di Shakespeare e di Corneille.

    È verosimile che i maestri del teatro barocco, dove la metafora del teatro/mondo si dispiega con maggior splendore, conoscessero il tema sviluppato da Giovanni di Salisbury non direttamente ma attraverso le piccole enciclopedie – scritte nel Duecento ma dopo secoli ancora lette e diffuse nelle edizioni cinquecentine – che la ripetevano stancamente e senza fantasia.

    In Shakespeare e negli altri l’immagine diventa invece una folgorante idea guida che spiega l’incanto filosofico del teatro ed espone la prospettiva etica dell’autore. Giovanni di Salisbury già segnalava che la vita degli uomini è più simile a una tragedia che a una commedia perché tutto da dolce diviene amaro e il lutto succede alla gioia, concludendo che l’agire umano è sottomesso alla fortuna beffarda, privo di significato, inconcludente, monotono e ripetitivo. Su questa scena immane dove gli eventi naturali si ripetono ciclicamente, l’uomo dimentico di sé recita la parte che gli è stata assegnata, spettatore e attore insieme.

    La metafora allude a un autore ignoto – Dio, la Natura, il Caso – ossia Qualcuno o Qualcosa che è nascosto e non si identifica con chi vive o recita. Un autore che possiede il disegno generale dei destini e lo governa? Oppure una forza indecifrabile che assegna casualmente i ruoli e suggerisce agli ignari attori l’amarezza dolorosa del non senso del mondo?

    Nel primo caso il mondo è leggibile e significante proprio come un libro (altra metafora medievale e poi secentesca, che va da Agostino a Nicola Cusano fino a Galileo), mentre nel secondo caso appare agli uomini, che provvisoriamente lo abitano, un deprimente e confuso quadro d’insieme.

    Tra inganno e dissimulazione

    Il mistero sull’autore del dramma non è che uno dei segreti celati nella metafora teatrale secentesca e nei suoi precedenti più antichi. Anche se ci aspetteremmo una prospettiva più ottimistica, doverosa per un credente cristiano, ecco Giovanni di Salisbury condividere le parole di Boezio (II libro del De consolatione philosophiae) e la triste filosofia dell’Ecclesiaste (1, 3-6): Una generazione va una generazione viene e la terra rimane sempre la stessa. Il sole tramonta, il sole sorge [...] il vento soffia a mezzogiorno poi gira a tramontana, gira e rigira e ritorna. Scrive Giovanni: I singoli scompaiono uno dopo l’altro. Dove sono finiti i potenti nell’arte della guerra, quelli che giocano con gli uccelli del cielo e quelli che conservano l’oro e costruiscono case e case?

    La riflessione del filosofo medievale è intrisa di un pessimismo che è difficile definire cristiano in senso tradizionale: segnato dalla percezione amara di un’essenziale mancanza di libertà, denuncia la finzione e l’ipocrisia diffuse nel mondo. Qualcosa di terribilmente normale per un uomo che vive a corte (un curialis come Giovanni attento e inorridito osservatore delle ingiustizie e dei delitti commessi ai piedi del trono del principe), e un atteggiamento che sembra congeniale anche alle corti europee del Seicento stancamente e formalmente cristiane. Gli autori del teatro barocco rappresentano a tinte fosche le vicende che si svolgono nelle sale del principe squassate da assassini, stupri, congiure, incesti, prepotenze tiranniche, usurpazioni e inganni. La metafora del mondo/teatro esalta il clima tragico, isola la solitudine e la malinconia (o forse la disperazione) dell’eroe, sottolinea paradossalmente insieme al determinismo l’insignificanza del mondo. Un aspetto questo che risulta lontano tanto dalla tradizione cristiana quanto dai toni eroici degli umanisti che come Pico della Mirandola esaltavano l’uomo e la sua libertà.

    Montaigne nei Saggi trattando passim dell’antica metafora del teatro/mondo aveva usato le parole maschera, inganno, apparenza, simulazione come termini-chiave per descrivere i caratteri negativi del suo tempo. La dissimulazione è fra le più notevoli qualità di questo secolo [...]. L’inganno mantiene e alimenta la maggior parte delle professioni umane. Se il mondo è un teatro pieno di trappole, finzioni e inganni, è necessario abbandonare la scena e cercare un rifugio il più lontano possibile dai luoghi pubblici: per Montaigne è la torre dei libri nella campagna del Périgord.

    Inganno e triste passività segnano dunque in gran parte la diffusa presenza della metafora che nel Seicento celebra il teatro come arte massima e insieme dipinge la vita come un dramma squallido e insensato. In conclusione, dice bene Amleto: prima che sia tutto silenzio, la vita si riduce a un ruolo che ognuno di noi deve recitare (Hamlet, atto I, scena II).

    Rimandi

    Volume 46: Una filosofia personale: Michel de Montaigne

    Volume 47: Il teatro e la riflessione sull’antico da Buontalenti a Scamozzi

    Filosofia e metodo scientifico da Bacone a Newton

    Descartes e la filosofia secondo la regola della ragione

    Volume 54: La letteratura inglese della Restaurazione

    Volume 54: William Shakespeare

    Volume 54: La letteratura drammatica inglese

    Volume 54: Pierre Corneille

    Volume 54: Calderón de la Barca

    Volume 60: La civiltà teatrale: alle origini del teatro moderno

    Volume 60: Il teatro in Europa

    Volume 60: La drammaturgia

    Volume 66: Il dramma moderno

    Volume 66: Il realismo e il teatro borghese

    I dibattiti cosmologici fra XVI e XVII secolo e la crisi dell’antropocentrismo

    Luca Bianchi

    In ambito cosmologico il dibattito seicentesco segna un passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito, decostruendo cioè la concezione aristotelica per fondare il nuovo pensiero filosofico e scientifico. Sebbene i precedenti di questa rivoluzione si rintraccino già in testi più antichi, si può affermare che solo in età moderna le ipotesi della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’universo aprono prospettive nuove, anche grazie alla figura di Giordano Bruno.

    Dal mondo chiuso all’universo infinito

    Nel 1936 lo storico delle idee Arthur Lovejoy sostenne che una tesi prettamente filosofica – il principio della pienezza secondo cui nessuna vera potenzialità dell’essere può restare inattuata – e non la rivoluzione astronomica iniziata da Niccolò Copernico fu all’origine delle cinque più innovative tesi cosmologiche caratteristiche del pensiero moderno: la tesi che altri pianeti del sistema solare sono abitati da esseri viventi; il rifiuto delle mura esterne del cosmo e la dispersione nello spazio delle stelle che la tradizione aristotelica considerava come fisse; la convinzione che queste ultime siano il centro di sistemi planetari simili al sistema solare; l’ipotesi che anche in questi sistemi planetari esistano forme di vita razionale; l’idea dell’infinità dell’universo e dei mondi. Ventun anni dopo, Alexandre Koyré descriveva le principali trasformazioni introdotte in ambito cosmologico fra XVI e XVII secolo come un passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito, sostanzialmente dipendente dall’assunzione di una concezione geometrica dello spazio. Se i libri di Lovejoy e di Koyré restano non solo il punto di riferimento indispensabile per ogni ulteriore indagine ma due dei più appassionanti classici della storia del pensiero filosofico e scientifico, le ricerche degli ultimi decenni hanno in parte modificato la loro ricostruzione, che ci appare certo brillantissima ma un po’ parziale ed eccessivamente lineare. I medievisti hanno messo in luce come la decostruzione del mondo chiuso di Aristotele inizi ben prima di Niccolò Cusano e di Marcello Palingenio Stellato: sappiamo in effetti che interessanti discussioni sulla possibilità teorica – pur senza prevederne l’esistenza fattuale – di una pluralità di mondi e di uno spazio infinito si trovano già in testi del XIII e XIV secolo. Gli storici del pensiero moderno hanno d’altra parte contribuito a offrire un quadro assai più articolato dei dibattiti cosmologici sviluppatisi fra Cinquecento e Seicento. Resta del tutto condivisibile l’idea, comune a Lovejoy e a Koyré, che in questi dibattiti un ruolo decisivo sia giocato da Giordano Bruno che, fondendo elementi risalenti alla tradizione dell’atomismo antico con un’originale rilettura di tematiche introdotte dalla rivoluzione copernicana, difende appassionatamente l’immagine di un universo privo di centro, infinito e omogeneo, nel quale la Luna e gli altri corpi del sistema solare sono analoghi alla Terra mentre le stelle sono circondate da pianeti abitati simili al nostro. È però emerso con sempre maggiore chiarezza che solo pochi autori dell’età moderna intrecciano così strettamente le ipotesi della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’universo: molti accolgono la prima proprio per prendere le distanze dalla seconda ed evitare le conseguenze filosofiche e teologiche, assai pericolose, che Bruno ne trae. Inoltre se è vero che sia Copernico sia i tre maggiori astronomi del Seicento – Tycho Brahe, Keplero e Galileo – difendono l’idea di un cosmo finito e ordinato e rifiutano, con diversi argomenti, l’ipotesi dell’infinità dell’universo, il rapporto fra lo sviluppo della ricerca strettamente scientifica (in astronomia, ma anche in ottica e in fisica) e l’affermazione di una nuova immagine dell’universo è più stretto di quanto a prima vista non appaia.

    È opportuno ricordare che nel lessico filosofico e scientifico moderno il termine mondo ha una notevole ambiguità, frutto della stratificazione di significati che esso aveva acquisito durante l’antichità e il Medioevo. Ora, mentre Platone e Aristotele avevano diffuso l’identificazione fra il mondo e il tutto – il De caelo di Aristotele, in particolare, presenta numerosi argomenti a favore dell’unicità del mondo – la tradizione atomista risalente a Democrito, Epicuro e Lucrezio ammetteva l’esistenza (simultanea e successiva) di molti, o addirittura di infiniti mondi simili al nostro, separati da spazi vuoti o nei quali la materia non presenta strutture organizzate. Se Bruno parla di mondi per riferirsi proprio a complessi sistemi planetari ruotanti attorno a una stella, non pochi pensatori del Seicento intendono invece per mondo un pianeta abitato, sia del nostro sia di altri sistemi planetari. Ne consegue una pluralità di modelli cosmologici che, molto schematicamente, possono essere ridotti a quattro.

    Il primo modello è quello proposto da autori come Palingenio e da Francesco Patrizi, che non accettano l’eliocentrismo copernicano, difendono la centralità della Terra e l’esistenza di stelle fisse ma ritengono che, oltre questa parte propriamente fisica dell’universo, se ne estenda un’altra, infinita, immobile, tridimensionale e omogenea: prodotto e manifestazione dell’infinità divina, tale regione si configura come uno spazio metafisico, che non è concepito come vuoto: pieno di luce, è la sede di intelligenze più perfette degli esseri umani.

    Il secondo modello è quello, già richiamato, di Bruno e dei suoi seguaci, che muovono anzitutto da un netto rifiuto della distinzione aristotelica fra mondo sublunare – luogo della generazione e della corruzione – e mondo celeste, costituito da una materia qualitativamente diversa da quella terrestre. Affermata l’omogeneità della materia e l’uniformità dello spazio,

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