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Il gatto di Aleppo
Il gatto di Aleppo
Il gatto di Aleppo
E-book225 pagine3 ore

Il gatto di Aleppo

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Info su questo ebook

Il giallo di un limone, il trillo di un campanello, e l'innocenza di una bambina triste a cui, la fuga disperata dalla Siria ha sottratto l'amato gatto, sono ciò che scuotono sino alle fondamenta la vita di Fabrizio, vecchio professore in pensione, e che lo porteranno ad intraprendere un viaggio, da Genova ad Aleppo, ritenuto follia dalla logica del mondo, ma che si trasformerà invece in una nuova meravigliosa possibilità di riscatto. La magia della parola e il muoversi con leggerezza tra realtà e sogno fanno di questo romanzo una delicata storia d'amore nei confronti della vita e di ciò che ci propone.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2021
ISBN9791220330077
Il gatto di Aleppo

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    Anteprima del libro

    Il gatto di Aleppo - Francesco Marras

    Indice

    L’hombre vertical

    Sottosopra

    La cura

    G di gatto

    Immoto perpetuo

    Il cerchio perfetto della luna

    Anatomia di un istante

    Del coraggio e dell’amore

    Episképtis, il visitatore

    Stairway to heaven

    La pagina mancante

    Dialogo nel buio

    Le mura di Antiochia

    L’angelo imperfetto

    Hotel Bellevue

    La mappa dei ricordi

    Girotondo

    Epilogo

    Titolo | Il gatto di Aleppo

    Autore | Francesco Marras

    ISBN | 979-12-20330-07-7

    Prima edizione digitale: 2021

    © Tutti i diritti riservati all'Autore.

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Francesco Marras

    Il gatto di Aleppo

    A Irene che è rimasta…

    per ascoltare.

    L’hombre vertical

    "Sono una parte di tutto ciò che ho trovato

    sulla mia strada."

    Alfred Tennyson

    Ora vorrei che le mie parole avessero la flessuosità di un gatto e magari ne possedessero la natura sorniona. Amerei vederle oziare durante il giorno, sonnecchiando indifferenti al clamore del mondo, per poi sentirle a notte inoltrata risvegliarsi pacifiche, stiracchiarsi e insinuarsi tranquille nei territori rarefatti dei sogni. Ecco, forse solo così, acquisendo nuove forme e differenti significati, senza essere necessariamente legate alle regole soffocanti della realtà, potrebbero narrare adeguatamente l’accaduto, magari tradurne le emozioni e portarle all’attenzione di chi avesse cuore e voglia di ascoltare. Proverò quindi ad affidare labbra e mani non al cuore di un uomo, ma a quello di un gatto da cui il mio molto deve ancora imparare. A coloro, i quali fossero invece incuriositi da questo racconto, chiedo umilmente di abbandonare quel tanto che basta la strada sicura della ragione e inoltrarsi nel sentiero assai meno nitido delle passioni. A loro beneficio non mi sottrarrò al dovere di plausibilità che ogni storia deve avere. Messa così a tacere, non sarà più la mente ad ascoltare, bensì l’anima primordiale, quella priva di ogni pregiudizio, che ancora pulsa in ogni creatura di questo mondo, uomo compreso.

    Il temporale arrivò annunciato dal boato cupo di un tuono, un brivido sonoro improvviso e ottuso nato nelle profondità anguste del mio sonno. Sussultai quasi impaurito, sicuramente sorpreso, non era stagione quella di temporali violenti. Tirai su le coperte come se mi dovessi proteggere da un freddo che in verità non provavo e richiusi gli occhi ninnato dallo scrosciare impetuoso della pioggia sferzante, carica di effluvi selvaggi raccolti chissà dove e intrisa di un potere tranquillizzante in grado di ammansire l’ansia e conciliare il riposo.

    Mi riaddormentai e ripresi a sognare esattamente dall’istante preciso in cui avevo interrotto. Proprio come accadeva da bambino, quando i sogni erano pagine di un libro la cui lettura potevo interrompere e riprendere a piacimento magari la notte successiva.

    Mi trovavo in un luogo familiare, caldo e rasserenante, una grande aula universitaria con banchi ad anfiteatro, forse proprio la mia aula, quella di tutta una vita dove i fantasmi sonori delle tante parole dette ed ascoltate vibravano ancora, ostinatamente decisi a non cedere il passo all’oblio del silenzio. Le parole più delle idee sopravvivono alle intemperie del tempo, anzi spesso ne rallentano lo scorrere sino a fermarlo, forse per questa ragione ne ho sempre temuto il potere e rispettato il significato evitando di usarle a sproposito.

    Da uno spazio indefinito della sala, qualcuno con ostentato tono da omelia solenne mi interrogava, così come mille volte io stesso avevo esaminato i miei studenti. Con meno stucchevole supponenza, spero.

    «Ci dica, professor Serra, vi è una ragione particolare per la quale vorrebbe essere ricordato dai posteri nei secoli a venire?»

    Bella domanda, magari enunciata con un eccesso di formalità che avrei evitato, ma comunque degna di una riflessione. Se solo pochi mesi addietro avessi dovuto affrontare il medesimo quesito non avrei certo saputo esprimere un’adeguata convinzione. La risposta peraltro necessiterebbe di una capacità di sintesi di cui sono del tutto privo, ragione per cui ho sempre evitato la trappola dei biglietti di auguri, troppo grande il rischio di incorrere nella sciagura del banale, meglio quindi cimentarsi con i romanzi, la corda a cui impiccarsi è più lunga, la misura del tempo più rarefatta e la compassione altrui più facile da ottenere. In ogni caso il quesito meritava un’attenzione commisurata al suo rilievo.

    Fin dal principio, ho capito che sarebbe stato inutile insegnare la letteratura, sottraendomi ai valori etici che questa esprimeva: parlare è anche essere, questa è la regola – oggi, ahimè! vilipesa da più parti – a cui mi sono attenuto.

    Quindi, oltre che far conoscere le grandi opere letterarie, mio desiderio era quello di esprimere con l’esempio quelle qualità necessarie affinché esseri in divenire potessero accedere al libro sempre cangiante e mai concluso del vivere, con adeguata passione, sensibilità e onestà di pensiero.

    Le epoche somigliano tutte al susseguirsi di onde nel mare: volgendo lo sguardo al passato dal pennone svettante del presente, risulta banale comprenderlo, per chi invece vi nuota nel mezzo è assai più complicato. Può capitare di ritrovarsi sospinti in alto sulla cresta spumeggiante dell’onda, riuscendo così a intravedere lontani orizzonti, oppure al contrario, ritrovarsi a boccheggiare nell’incavo del suo ventre, magari per anni, alla ricerca di un fiotto d’aria, di un futuro tranquillizzante o un utopico ideale cui aggrapparsi affinché la vita risulti accettabile.

    Sentivo in questo d’essere stato graziato dalla sorte assai più delle nuove generazioni, il minimo che potessi fare era tendere loro la mano. In quest’epoca di urlatori, sacerdoti del vuoto, idolatri della calunnia, esperti dell’ignoranza, anche un solo uomo di intelletto onesto può divenire un appiglio a cui aggrapparsi.

    Non mi illudevo certo, ormai non più, di cambiare le sorti dell’umanità intera, ma quei ragazzi, quelle giovani vite meritavano qualcosa in cambio di ciò che il mondo stava sottraendo loro.

    Quando era la frustrazione a piegarne le schiene, facevo in modo che scorgessero la leggerezza della libertà nelle parole dei miei poeti. Se era la cattiveria a colpirli, mostravo la fragilità dell’arroganza, la forza intrinseca della conoscenza, la risposta al significato dell’esistere occultata nelle trame dei romanzi che amavo.

    Credevo nei sogni, unico luogo in cui la convivenza di ogni singola idea differente è possibile, e allora avrei voluto donare loro una vita piena di sogni, piccoli, grandi, magnifici, irrealizzabili, potenti sogni in cui riconoscersi. Certo ero cosciente che quel dono avrebbe comportato fatica, giorni di esaltata follia; delusioni brucianti, intrepida euforia e infinito coraggio, ma senza i nostri sogni cosa rimarrebbe della vita? Ancora oggi non ho una risposta convincente a questa domanda. Quei ragazzi comprendevano comunque che nel loro autonomo itinerario di crescita potevano contare oltre che sull’insegnante, anche sulla mia persona, impegno questo non troppo scontato seppur dalle conseguenze dubbie. Sapevano inoltre che avrei profuso energie aiutandoli con le medesime alchimie che avevo ritenuto valide per me stesso. La semantica del linguaggio era una di queste. Abbiate la capacità di porre a voi stessi le domande giuste e il coraggio di rispondervi con parole adeguate, dicevo, perché è il lessico a plasmare il pensiero e non il contrario. Il pensiero è il riflesso di una mente levigata e resa lucida dalla parola.

    Carezza: tocco di mano che è dimostrazione di affetto, benevolenza e simili.

    Alcionio: dell’alcione, relativo ai giorni precedenti e successivi al solstizio d’inverno, calmo, tranquillo.

    Zagara: fiore dell’arancio, del limone o di altri agrumi. Dall’arabo zahr, fioritura, derivato dalla radice zahara, risplendere.

    Aprite il vocabolario, impossessatevi ogni giorno di una parola nuova, osservatela, lasciate che si espanda in voi sino a brillare di luce propria e avrete così contribuito a rendere voi stessi e l’umanità migliori. Solo attraverso il linguaggio, quel miracolo originato da chissà quale chimica primordiale, potrete spaziare dove neppure avreste mai osato immaginare, magari oltre i confini della conoscenza stessa e sarete voi a crearne di nuova.

    Era su questa pietra angolare che avevo tentato di costruire la mia stessa esistenza, ahimè, mancando più volte, ed era quell’appoggio che offrivo ai miei ragazzi affinché erigessero il palazzo dei propri principi, il luogo in cui custodire ogni avere più prezioso, il tempo così come l’amore, la luce delle loro aspettative o le ombre dei giorni più bui, senza vergognarsene mai.

    Queste probabilmente furono le motivazioni per cui intere generazioni di giovani universitari mi iscrissero nell’almanacco della loro memoria con il soprannome di Hombre vertical, una sintesi divertente tra la letteratura latinoamericana, mio grande amore, e un comportamento considerato irreprensibile, benché condito da quelle piccole stranezze che mi ponevano fuori dall’ortodossia accademica.

    Detto ciò, affinché comprendessi appieno il giusto valore dell’esistere, avrei dovuto incontrare sul mio cammino una bambina e un gatto, connubio perfetto di innocenza e libertà.

    Le loro sagome si stagliavano all’orizzonte in attesa della mia attenzione da chissà quanto tempo, ed erano lì, proprio a testimoniare l’elaborato schema dell’essenzialità, la risposta giusta ad ogni possibile quesito sul tutto; quindi anche alla domanda iniziale di questa piccola storia: Fabrizio Serra, quando anche tu sarai passato come un soffio nel vento incessante del tempo, quale orma vorresti lasciare di te nella memoria del mondo?

    Il mio desiderio sarebbe quello d’essere ricordato come colui il quale si è adoperato affinché una bambina ritrovasse il proprio gatto ed il sorriso smarrito.

    A questo punto credo sia giusto raccontare quanto accaduto dal principio, sempre ammesso che un inizio, in ogni aspetto del vivere, vi sia davvero, o sia quello che noi consideriamo tale.

    La genesi di questo racconto è intrisa di giallo, quello peraltro un po’ spento di un limone malato, e scandita dal trillare quasi sommesso del campanello della porta d’ingresso.

    La primavera era arrivata titubante, come spesso accade a Genova: giornate di pioggia feroce e aria cruda, in cui il solo pensiero di mettere il naso fuori casa esprimeva un certo odio per sé stessi, si alternavano ad altre limpide, intessute del chiarore della tramontana, con vascelli di nuvole bianche che solcavano veloci le profondità indaco del cielo e annunciavano la nascita imminente della bella stagione.

    Quello mi sembrava un pomeriggio come tanti. Da quando avevo lasciato l’università, il tempo aveva preso a scorrere in maniera alquanto bizzarra, accelerando o rallentando d’improvviso a seconda di quanto i miei settantacinque anni avessero voglia di snocciolare ricordi o adagiarsi nell’imbarazzo del nulla.

    Con pochissima legna, avevo continuato ad alimentare la fiamma delle mie passioni, la letteratura e la comprensione del mondo. Tuttavia senza la terra vergine delle menti dei miei studenti, il mio più che un utile e doveroso impegno, era divenuto uno sterile esercizio di stile, con l’accezione intrinseca di verificare ogni giorno quanto il mio intelletto perdesse briciole di sé lungo il cammino. Pratica peraltro talmente empirica da risultare più un confortante gioco che non una reale prova.

    Abitavo da sempre nella parte alta di via Venezia, in quel quartiere di San Teodoro in cui avevo visto scorrere la storia di Genova e del mondo, tentando di volta in volta di afferrarne un pezzetto al volo ed esserne interprete e non solo spettatore.

    Ero nato lì, in quella casa, rifiutando ostinatamente di allontanarmi, non tanto da un luogo, quanto dalla memoria che quel posto rappresentava.

    La mia famiglia era arrivata dalla Sardegna nel 1935, traghettata attraverso il Tirreno dalla zattera della fame. Portavano con loro poco o nulla, tra le mani una valigia di cartone e in bocca una scheggia di sale per insaporire il futuro. Il sale si era presto sciolto e il futuro consumato senza lasciare traccia alcuna se non il peso dei sacrifici e l’orgoglio per essere riusciti nell’impresa leggendaria di aver fatto di me un laureato.

    Ero quindi figlio della miseria, della fuga per necessità dalla propria terra e desideravo non dimenticarmene.

    Il mio appartamento, posto al pianterreno di un grande palazzo popolare, possedeva quel che in passato era stato un lusso e una fonte di sostentamento; un giardino interno con un grande gelso tutelare proprio al centro e tutto intorno aiuole di terra grassa e nera, trasformate dal bisogno in un piccolo prezioso orto, dove mio nonno aveva coltivato con diligenza e allegria la possibilità di sfamarci.

    Il respiro affannoso degli anni aveva portato via con sé, insieme a tutte le persone che avevo amato, anche quella necessità, il giardino quindi aveva acquisito una propria selvaggia architettura. Inseminato dalla logica anarchica del vento, ogni filo d’erba aveva riconquistato la libertà d’inseguire la luce disegnando una propria istintiva rotta verso il sole. Quello che era stato un giardino divenne presto un inestricabile intreccio di ricordi.

    Il campanello mi sorprese nel bel mezzo di una frase letta e riletta, in cui il dottor Juvenal Urbino era scosso e tormentato dalle urla allucinate delle pazze del vicino manicomio della Divina Pastora. Per un attimo pensai che il trillo altro non fosse che una di quelle urla giunta alle mie orecchie per qualche strana alchimia della Provvidenza, poi capii e mi dispiacque in fondo d’essermi sbagliato.

    «Buongiorno signor professore!»

    L’uomo, più basso di me, baffi e un’età difficile da definire, se ne stava a capo chino sul ballatoio martoriando a due mani un berretto di panno scuro, il quale, per un attimo, mi ricordò l’inseparabile basco di mio nonno, e questo bastò per farmi sorridere. L’uomo rispose al sorriso, forse incoraggiato.

    «Buongiorno, dica pure!» Continuai.

    Mi tese la mano, con circospezione, quasi si vergognasse.

    «Piacere signor professore, mi chiamo Khadir al Khal, abito con la mia famiglia al piano sotto di Lei.»

    «Prego si accomodi signor Khadir. Come posso esserle utile?»

    L’uomo rimase ancora titubante sul pianerottolo.

    «Non vorrei disturbarla.» Poi sorridendo fece il primo passo nella mia casa e fu un piccolo gesto che ne avrebbe determinati talmente tanti altri da rimanere allibiti di fronte alla nostra poca comprensione del disegno occulto della sorte. D’altronde, come si dice, il destino altro non è che Dio camuffato da passante e quel giorno Khadir forse era solo uno dei suoi tanti travestimenti. «Di mestiere faccio il giardiniere, signor professore, sono giorni che osservo dalla strada i frutti e i rami del vostro limone.» Si adagiò quindi in una pausa talmente lunga da farmi sfuggire il soggetto della conversazione.

    «Mi spiace dirglielo in questo modo, ma se non farà qualcosa, presto morirà.»

    «Scusi signor Khadir, ma chi morirà? Io a dirle il vero mi sento ancora abbastanza bene. Qualche acciacco arriva di tanto in tanto ma non tale da farmi pensare d’essere sul punto di morire.»

    «Non Lei, che il cielo la protegga.»

    Sorrise imbarazzato dall’equivoco mostrando una magrezza che a prima vista non avevo percepito.

    «Il limone, morirà il limone.»

    E alzò il braccio con il cappello chiuso nella mano indicandomi il giardino.

    Guardai verso il cortile, non ricordavo neppure vi fosse un albero di limoni là fuori. Evidentemente la mia memoria non era affatto come pensavo fosse.

    «Davvero Lei crede che sia così malato?»

    «Molto malato,» aggiunse. «Se vuole le mostro!»

    Incuriosito dalla novità del giorno, mi indirizzai verso la porta finestra, mi voltai, ma l’uomo era rimasto sulla porta. Compresi che aspettava il mio permesso per entrare.

    «Venga signor Khadir, si accomodi, sono proprio curioso di vedere il moribondo.»

    Quale mistero e che prigione è l’adagiarsi nella scontata quotidianità del vivere. Ero certo d’essere uscito in quel cortile forse anche il giorno prima, ma non ricordavo davvero fosse divenuto oramai un piccolo bosco impraticabile.

    Khadir si avventurò davanti a me, pestando rovi, strappando piccoli rami venuti fuori da chissà dove, spostando pietre, probabilmente meteore piovute a mia insaputa dalle profondità del cosmo, sino a quando finalmente raggiunse il limone all’angolo opposto del cortile, quello verso la strada e delimitato da un’inferriata oramai arrugginita.

    «Ecco vede signor professore, guardi le foglie, vede questa polverina bianca? Questo è oidio, un fungo molto invasivo e invece questa polvere nera, granulosa è anche lei una malattia fungina, ma è portata da insetti che hanno oramai invaso la pianta. Lo zolfo, professore, l’unico rimedio è lo zolfo dato nel giusto modo e forse...»

    Khadir spense nuovamente le parole nelle profondità di un silenzio trascendente, come se il nostro destino e quello del limone non fossero solo affidati alle capacità terapeutiche della chimica, ma depositati nelle mani di un Dio lontano e, a mio personale giudizio, molto spesso distratto.

    Infine continuò.

    «Se la fortuna ci assiste e non è troppo tardi, lo potremo salvare.»

    Capivo bene che oltre alla salute del limone, Khadir aveva a cuore la necessità di sbarcare il lunario. Non lo biasimavo di certo, ero solo frenato dalla mia atavica, cronica, riservatezza. Il pensiero di avere qualcuno per casa, seppure nell’aerea circoscritta del giardino, mi metteva a disagio.

    «Ho capito, signor Khadir, come può ben vedere, non mi intendo di piante.»

    Lo sguardo dell’uomo, spaziò sopra quella devastazione verdeggiante che chiamavo giardino, ma non vidi alcun biasimo nei suoi occhi. Khadir non mi stava giudicando per quell’abbandono di anni, seppure intuisse quanto potesse essere stato bello quel posto e quanto avrebbe ancora potuto esserlo.

    «Lei crede che se ne potrebbe occupare? Non solo del limone intendo, se la sentirebbe di ripulire il giardino, le aiuole e tutto il resto?»

    «Ma certo, signor professore, sarebbe un onore per me. Certo che me la sento, non è il lavoro a spaventarmi, creda.»

    Gli credevo: non il lavoro, ma qualcosa di assai più terrificante aveva lasciato

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