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Kilometro Zero
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E-book123 pagine1 ora

Kilometro Zero

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Info su questo ebook

“Sarei andato via, perché a vent’anni deve essere così, devi andare, e io sentivo un fuoco dentro che faceva vibrare tutto il mio corpo. Era bellissimo ascoltarlo e diventare un’unica cosa con esso, anche tu una fiamma!”
Il giorno in cui Bruno perde i genitori, qualcosa in lui si rompe. L’irrequietezza non si arresta, né dinanzi all’università, né tantomeno davanti alle donne e alla droga. Per sfuggire al dolore, decide di partire.
Un viaggio verso l’Ucraina, lungo i Carpazi, attraverso i misteri di Kiev e gli eccessi di Odessa, fino alla surreale Kilometro Zero, il paese di origine della madre, dove il Danubio sfocia nel Mar Nero. Il cammino del giovane ci mostrerà una parte nascosta e affascinante di Europa e lo porterà a superare i fantasmi del suo passato.

L'autore -
Aniceto Fiorillo, nato a Cesa (Napoli) nel 1979, dopo la laurea in Lettere viaggia per l’Italia e per l’Europa, sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permettesse di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese, perché vuol sentirsi cittadino europeo, ma il grigio del cielo belga lo rende triste, e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandavano in diamanti e che avevano deciso di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tentava di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano, dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli, dove gestisce un video-noleggio-libri, naturalmente abusivo; finchè, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunse la Finanza che gli intimò di chiudere in blocco l’attività. Non si perse d’animo e con tanta voglia e molti denari, scelse la città di Roma come sua nuova sposa.
A Roma con amici fonda una piccola casa di produzione (Kinoklan), e realizza diversi corti che partecipano sia a festival italiani che europei. Si trasferisce a Bolzano dove lavora come insegnante, per poi ritornare di nuovo a Roma. A ottobre uscirà il suo primo romanzo edito da Nativi Digitali, Kilometro Zero. Il pilota e la comunità brasiliana è il primo racconto che pubblica, altri stanno aspettando.
 
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2016
ISBN9788898754687
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    Anteprima del libro

    Kilometro Zero - Aniceto Fiorillo

    estranea.

    Capitolo I

    Ero davvero rimasto solo: mia madre e mio padre erano morti per una fuga di gas. Una vacanza trasformata in tragedia, consumata lontana da me. E io qui ad aspettarli invano. I miei genitori possedevano una piccola casa in montagna e d’estate andavano lì, per passeggiare e sottrarsi alla calura di agosto. Morirono di sera, mentre dormivano, uniti, senza accorgersi di nulla, una morte dolce. A volte non riesci a capire il perché delle cose, e più pensi, e più ti avvicini alla pazzia. In quel periodo, decisi di farmi poche domande e di andare avanti. Mia madre era ucraina, una musicista, giunta in Italia all’inizio degli anni novanta. Conobbe mio padre, più vecchio di lei: non so se lo amasse, ma so che amava me e ciò mi basterà sempre. Mio padre lavorava in banca, era di Napoli; apparteneva a una famiglia borghese, benestante. Avevo diciassette anni, quando i miei genitori morirono. Il giorno dei funerali, la casa era piena di fiori, di amici, conoscenti, parenti; avevo la testa ingombra di voci e mormorii che rimbalzavano da una camera all’altra: Come farà, poverino, da solo, ha soltanto diciassette anni! Questa la frase ricorrente, e io seduto, composto, con le braccia conserte. Mi alzavo solo per ricevere le condoglianze, e poi ricadevo quasi per inerzia, ripetevo in modo meccanico quell’unico movimento. In verità, avevo solo una gran voglia di andare via, lontano. Sentivo una voce che mi diceva andiamo, andiamo via, ma non sapevo dove. Abitavamo nella zona alta della città, a pochi minuti dalla metropolitana, in un palazzo antico, con la portineria e la gente che frequenta solo la propria cerchia. I soffitti della casa erano alti, altissimi, dalle pareti sbalzavano i molti quadri che mio padre aveva collezionato nel tempo; all’ingresso si apriva un ampio corridoio, che quel giorno, il giorno della morte, era affollato di figure all’impiedi, che sfilavano in successione fino al soggiorno, popolato anch’esso da grigie sagome indistinte. Penso che le persone fossero intervenute anche perché coinvolte dal tipo di lutto, tanto sciocco quanto doloroso. La casa era piena di ospiti, e al mio dolore si accompagnava un caldo soffocante che bruciava ogni respiro. Mi sembrava di essere lì lì per morire, la vista si annebbiava, vedevo doppio, sconnesso, neanche avessi calato un acido: le persone si tramutavano in mostri, in rettiliani dalle voci spanate. Se mi alzavo dalla sedia, rischiavo ogni volta di cadere. Non cadevo. Magari barcollavo, ma la dignità o chissà cosa mi spingevano avanti: non volevo farmi vedere in quello stato, volevo mostrarmi forte, fortissimo. Di tanto in tanto, delle signore mi portavano dell’acqua e mi chiedevano come stavo; altre persone parlavano degli argomenti più disparati e non capivo che cazzo ci facessero in casa mia. I corpi dei miei genitori si trovavano nella loro stanza da letto, distesi, ma non abbracciati come avrei voluto che fossero. Io stavo in cucina e mi spostavo nella camera per guardarli, ma non ci riuscivo: restavo qualche istante e poi, anche se non volevo, sentivo gli occhi riempirsi di lacrime e quando non vedevo più nulla me ne andavo, ritornavo in cucina e accettavo nuove condoglianze di persone che nemmeno conoscevo. Con l’ingresso della morte nella mia vita, molte cose cambiarono: ridevo con tutti, allora, ma quando tutti sparirono ed ero solo in stanza, sul punto di spegnere la luce per addormentarmi, in quel momento, il ricordo dei miei genitori si riaffacciava nella mia mente per immagini e dettagli inaspettati, struggenti, che producevano la sensazione fisica di strapparmi a forza le unghie dalla carne. Se anche cercavo di piangere per liberarmene, la tortura si mostrava più forte di prima e mi ritrovavo a pensare che non sarei mai più appartenuto al mondo dei vivi.

    ***

    Dovetti andarci per forza. Poiché non avevo più nessuno su cui contare, la legge imponeva un approdo obbligatorio: trascorrere in una casa famiglia il mio ultimo anno da minorenne. Era settembre ed ero arrabbiatissimo, avrei iniziato il mio ultimo anno di Liceo a Merano. Abbandonavo tutto, ma in realtà non ero io ad aver abbandonato tutto, erano i miei affetti, la mia stessa città, che avevano deciso di abbandonare me. Avrei potuto scegliere di andare ad Avellino, non lontano da Napoli, ma mi domandavo a chi dovevo essere più vicino? Chi mi era rimasto? E mi rispondevo: nessuno. La vicinanza, la lontananza, per me, avevano perso il loro significato, o comunque contavano meno. Proprio per questo motivo decisi per l’Alto Adige, Merano. Non sapevo nulla di Merano, nemmeno che esistesse un posto chiamato così, nemmeno che si parlassero due lingue, né che fosse famosa per le terme. A Merano mi avrebbero dovuto accompagnare i servizi sociali, ma io me ne fregai e partii da solo: affanculo tutto e tutti. Arrivai alla stazione di Bolzano che erano le due e mezzo di notte. All’interno, galleggiavano un paio di barboni che trascorrevano la nottata. Uscii dalla ferrovia per vedere com'era la città, cosa mi avrebbe aspettato, di tanto in tanto passava qualche macchina, piccoli rumori, nulla a che vedere con la vita notturna di Napoli. Mi accesi una sigaretta e poi, seduto sulle scale, mi addormentai in attesa della coincidenza. Mi svegliai verso le sei, alle sei e trenta ripartivano le corse. Alle sette e dieci sarebbe passato il primo treno per Merano. Andai nel bagno, mi sciacquai il viso, mi toccai le guance lentamente, e mi dissi: a un certo punto il destino ha deciso per me. Presi il treno, avrei impiegato quaranta minuti per arrivare. Durante il viaggio vidi per la prima volta i paesini di Terlano, Andriano, e Nalles. Tratti di fiumi in mezzo al verde, alberi dal grosso fusto e dalla chioma larga e lo splendore di montagne lontane mi riempivano gli occhi. Per sfuggire al dolore, pensavo, forse i contrafforti delle Alpi mi avrebbero circondato e protetto. Mi sentivo infelice e contento. Di lì a un momento avrei conosciuto la mia nuova casa famiglia. Il mio responsabile era sulla quarantina. Disse che lui era il capo, e mi diede un foglio con l’elenco delle regole da rispettare. All’interno della casa famiglia, eravamo in quindici, sette ragazzi e otto ragazze. Alcuni non avevano mai vissuto fuori dalla casa famiglia, o perché non avevano i genitori o perché li avevano perduti per l’intervento dei servizi sociali.

    ***

    La stanza era meno di quaranta metri quadri, abbastanza per due persone. C’erano due letti, un armadio grande, di color bianco, e una spaziosa scrivania in legno con due sedie. Sopra la scrivania era posto un televisore da trentadue pollici, schermo ultrapiatto. C’era una finestra che affacciava sul giardino, e il profumo di gelsomini ci abbracciava. Eravamo al secondo piano. Avrei dormito in camera con un ragazzo che si chiamava Adr, tunisino. Non appena arrivai, lo trovai, disteso in pantaloncini, sul letto, e mi disse: Vedi quel grande armadio? Lo vedi?

    Non gli risposi, e lui: Ehi, stronzetto con me fai poco il napoletano!

    Aveva una maglietta personalizzata, sulla quale c’era scritto: sono uno spettacolo! Era da scoprire se fosse stato davvero uno spettacolo.

    Bene, è mio. Per le tue cose, utilizza la scrivania grande! A me non serve! mi disse.

    Sistemai le mie cose sulla scrivania. In silenzio mi avviai verso il grassone, che piano, piano, guardandomi, cercava di alzarsi. L’ansia dal culo incominciava a salirgli al cervello. Incazzato, gli arrivai di fronte.

    Che cazzo ti prende? mi disse.

    Avrei scoperto che aveva quel cazzo sempre in bocca.

    Niente gli dissi.

    Gli risi in faccia fragorosamente.

    Sei fuori, sei proprio matto! mi disse.

    ***

    Con il tempo lo avrei soprannominato Magopancione, perché come il protagonista del cartone animato amava sempre mangiare, le polpette su tutto; frequentava la scuola professionale con scarsi risultati. Era grosso, alto, sopra il metro e ottanta, e aveva un gran cuore. La madre lavorava come commessa in un negozio a Merano, Adr la vedeva un’ora ogni due settimane. Una volta, portò anche me al negozio e fu contentissimo di presentarmela. Dopo il primo mese, tra alti e bassi mi ero ambientato. La mattina, scuola; il pomeriggio, studiavo e frequentavo dei corsi di fotografia e di restauro tenuti all’interno della casa famiglia da alcuni educatori. Il corso di fotografia era diretto da un educatore che si chiamava Matteo, non aveva nemmeno trent’anni, era una persona con cui mi trovavo molto bene, e che mi insegnò tanto. Organizzava anche dei cineforum, e io gli davo volentieri una mano: andavo a prendere i film alla biblioteca. Mi comprai una macchina fotografica reflex: il mio soggetto preferito era Adr mentre dormiva. Poi, quando gli mostravo le foto, lui si arrabbiava, mi diceva: Adesso te la butto dalla finestra, testa di cazzo! Io scappavo

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