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Ti racconto di lei: Racconto di una donna straordinaria
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Ti racconto di lei: Racconto di una donna straordinaria
E-book245 pagine3 ore

Ti racconto di lei: Racconto di una donna straordinaria

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Info su questo ebook

Stella nasce sotto gli auspici di una vita difficile, in una realtà rurale
degli anni sessanta. Fin da subito la misteriosa bambina mostra di avere una
consapevolezza fuori dal comune che è il presagio di un grande "potere" che
l'accompagnerà nella vita e grazie alla quale potrà aiutare chi è in
difficoltà e vive nel dolore. Stella affronterà un duro percorso di crescita
confrontandosi con i vizi e virtù umane, guidata dalla grande forza di
volontà di voler donare una guarigione fisica e dell'anima.
Il suo è un percorso d'amore, nella sofferenza di accettare e non violare
mai il libero arbitrio, cercherà ostinatamente una via per donare una nuova
consapevolezza nelle persone che incontrerà nel suo cammino. Troverà persone
che l'accompagneranno in questo percorso, molte altre l'abbandoneranno, ma
in lei vive una forza oscura che non la farà mai desistere dai suoi intenti.
A raccontarci la vita unica e straordinaria di Stella è Fabio, giornalista
dalla travagliata vicenda personale, separato dal fratello ormai da troppo
tempo. Fabio è uno dei tanti che la incontrano, rimarrà affascinato da ciò
che vede accadere nel tempo, su di lui, sugli altri, ed è mosso da quello
spirito di ricerca personale di trovare delle risposte a questo grande
mistero. Lui si porrà la grande domanda: chi è Stella? Due strade che si
incrociano al crocevia fra scetticismo e apertura al possibile, in una
grande storia di crescita e riscatto.
 
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2015
ISBN9788897911418
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    Anteprima del libro

    Ti racconto di lei - Alessio Follieri

    http://www.librinmente.it

    1

    Suonarono alla porta alle 4 del mattino. Tu non c'eri, non sapevamo mai dove dormivi, dove passavi la notte in quell'ultimo periodo. Mamma agitata mi venne a svegliare. «Hanno suonato! Hanno suonato! A quest'ora, chi sarà? Chi può essere?».

    Mi svegliai di soprassalto, aprii la porta: quattro poliziotti in divisa ed uno, vestito in modo sportivo da non sembrare uno di loro, ci mostrò il tesserino.

    «Signora polizia!» si limitò a dire a mamma, mentre dietro di lui un poliziotto si faceva avanti con il mandato.

    «Dobbiamo perquisire l'appartamento». Non ci capii più niente. «Guardate bene ovunque» si raccomandò quello che sembrava essere il capo.

    «Che succede? Perché?» disse la mamma piangendo. «Signora stia tranquilla» rispose. Ci accompagnò in cucina e ci fece sedere.

    Fino ad allora avevo visto accadere quelle cose soltanto nei film. Pensai ad un brutto sogno, avevo ancora la testa appannata dal sonno, poi pensai a te, a cosa potevi aver combinato, un'altra delle tue. La polizia rovistò ovunque ma si concentrò subito sulla nostra cameretta: frugò sotto il letto, nei cassetti, nell'armadio. La stanza si riempì di colpo delle cose della nostra esistenza.

    I poliziotti cercarono meticolosamente, fino al momento in cui uno di loro diede un colpo secco sul fondo di un cassetto… e… «Ispettore qui!» disse con tono di soddisfazione. Aprì il doppio fondo e trovò quello che sembrava un piccolo panetto avvolto nella stagnola. Mamma non capì niente, non immaginò neanche cosa fosse quella roba, ma uno di loro glielo fece capire.

    L'ispettore si voltò verso di me. «E questa? È roba tua?». Io restai in silenzio come un idiota. Non seppi dire nulla. In un attimo il mondo mi piombò addosso con tutto il suo peso, di rabbia, paura e disperazione. Una doccia fredda scese dalla punta della mia testa fino ai piedi. Gelarono anche le mie viscere. Il poliziotto mi guardò fisso, con un lampo di soddisfazione negli occhi.

    «Devi venire con noi».

    «No, lui non ha fatto niente» disse mamma impaurita. Mi voltai verso di lei: «Stai tranquilla, si sistemerà tutto».

    Lei mi abbracciò.

    Mi lasciarono appena il tempo per vestirmi, mi risparmiarono le manette, ma due poliziotti uno alla mia destra, l'altro alla mia sinistra, mi scortarono per le scale.

    Mi voltai un’ultima volta a vedere mamma sulla soglia della porta, le lacrime le inondavano gli occhi. Scesi a testa alta, mentre gli inquilini, svegliati dal trambusto, si riversarono nei pianerottoli cercando sul mio viso una traccia di colpevolezza.

    In quel momento, mentre tutto mi stava crollando così velocemente sulle spalle, la cosa che più mi dispiacque fu lasciare mamma, a casa da sola, nella sua disperazione. Quanto avrei voluto che papà fosse ancora vivo!

    Dentro la volante, che partì a sirene spiegate e a tutta velocità verso il commissariato, un mucchio di pensieri mi assalì. Quando avevi nascosto quella roba? Perché non me ne ero mai accorto? Che dovevo fare?

    Ripensai a quando giocavamo insieme e a quella volta che entrammo nella casa abbandonata in fondo alla via. Sapevamo che mamma e papà avrebbero dato di matto se ci avessero scoperti, ma era proprio quando ci proibivano di fare una cosa che noi sentivamo di doverla fare a tutti i costi. Ti coprii quel giorno, e papà me ne diede di santa ragione: eri mio fratello più piccolo e mi veniva naturale farlo, avevo soltanto due anni più di te ma ti dovevo proteggere, ero sempre e comunque tuo fratello più grande.

    Poi ti sei perso negli orrori della vita, mentre io studiavo per raggiungere una laurea tra mille difficoltà, tu eri un drogato abbandonato ovunque, ubriaco o a tirare calci, chissà dove e chissà a chi…

    Mentre la volante sfrecciava per le vie del centro, pensai alle mille domande della polizia e a cosa avrei dovuto rispondere. In ore di interrogatorio restai invece muto, non dissi nulla, neanche quando mi toccarono le botte. Era come se una mano mi avesse afferrato il cuore da dentro e qualcosa nella mia anima si fosse fatto largo proibendomi di dirgli di te, di fare il tuo nome. Non so se sia stato un bene...

    Provai tanta rabbia per te Paolo, andai in galera per te, mi mancava solo un anno alla laurea, ce l’avevo quasi fatta, ma ho dovuto dare tre anni della mia vita. Da quel giorno, lo ammetto, tanto rancore ha accompagnato il tuo ricordo.

    2

    Venticinque anni dopo.

    Una telefonata, come una macchina del tempo, mi riporta a tanti anni prima, a tutto quello che era successo fra di noi.

    Eravamo a pranzo, il telefono squillò. Tua moglie Laura, tra le lacrime, comunicò la brutta notizia a mia moglie Celeste. Un ictus ti aveva fatto balbettare la stessa parola per qualche secondo, prima di cadere a terra esanime in un ufficio postale nel centro di Milano.

    Reagii a quella maledetta notizia in modo strano, tante emozioni diverse mi assalirono, un misto di disperazione e vecchio rancore. Dopo venticinque anni che non ci vedevamo, non sapevo neanche chi fossi, non sapevo cos'eri diventato. Soltanto Mauro, un nostro amico d'infanzia, ogni tanto, ritornando a Roma, mi portava notizie di te. Celeste e Laura si sentivano al telefono di rado; in passato, lo ammetto, avevo dato anche un'occhiata a Facebook e ad Internet per sapere di te qualcosa di più, ma non volevo ammetterlo neanche a me stesso. Dalle foto che avevo visto on-line, ti eri ripulito, non avevi più i capelli lunghi e la barba incolta di un tempo.

    Ho sperato per anni in una tua telefonata, dovevi chiedermi scusa, non l'hai mai fatto. Io avevo troppa rabbia dentro per cercarti, per venire da te.

    Ti sei fatto una famiglia, hai messo la testa a posto, sei diventato un bravo fotografo. Ho visto lavori anche per riviste importanti, ma non mi hai mai chiamato, mai una volta. Celeste e Laura hanno provato più volte a farci incontrare, ma io non ho mai voluto. Spesso mi sorprendevo a fissare il telefono che non suonava, la casella e-mail senza un tuo messaggio, eri mio fratello maledizione! Io aspettavo, anzi pretendevo una tua iniziativa.

    Sono rimasto un mese appeso ad un filo. Celeste e Laura si sono sentite spesso in quest'ultimo periodo. Hai subito un intervento, ma ormai sopravvivi in uno stato vegetativo e Laura ti ha portato a casa dove sei costantemente seguito.

    La situazione è grave. Sarei dovuto venire subito da te. Mia moglie ha insistito giorno dopo giorno, ma qualcosa di sconosciuto ed indescrivibile mi ha bloccato, forse la paura, quel passato che si riaffacciava, quel qualcosa di sospeso tra me e te che ora sembra dover giungere ad un finale. Ho avuto paura… lo ammetto.

    Questa notte non ho dormito e la mente ha viaggiato nei nostri vecchi ricordi: le gare con le biciclette, le prove di coraggio, i primi amori, le partite di pallone con Mauro e tutti gli altri quando nessuno di noi voleva mai giocare in porta… Tutti all'attacco! tipo Armata Brancaleone.

    Tutti quei ricordi hanno fatto irruzione nella porta della mia coscienza, mi hanno detto insistentemente che devo affrontare la mia paura, che sei l'unica persona rimasta della mia famiglia.

    Te li ricordi quei pranzi quand'era estate e non si andava a scuola e mamma apparecchiava la tavola fuori, sul balcone, perché faceva caldo… ricordi? Quanti anni sono trascorsi… ed ora di quel vecchio film in bianco e nero cancellato via dal tempo, ci sei solo tu, lì tra la vita e la morte.

    In questi giorni più volte Celeste mi ha detto: «Devi dirgli di lei, lui deve sapere», e dentro di me un qualcosa di importante che dovevo dirti si è mosso tra le pieghe del passato.

    Questa mattina mi sono alzato dopo una notte insonne e ho detto a Celeste: «Io vado». Lei si è commossa perché pazientemente o in modo irruento ha fatto di tutto per farmi venire da te. Io pur esitando per paura e disperazione, ho sempre sentito di volerti incontrare perché ho tante cose da raccontarti. Una, molto importante, forse può salvarti la vita.

    Non posso stare qui con le mani in mano, devo parlarti ed il tempo sta sfuggendo via, spero tanto che potrai ascoltarmi come mai hai voluto fare in vita tua.

    Sono corso alla stazione Termini, ho comprato un biglietto per Milano Centrale. Celeste mi raggiungerà domani, deve portare a scuola Matteo, il più piccolo, e sistemarlo dai miei suoceri. Credo mi abbia voluto lasciare questo momento per incontrarti, è una donna saggia, paziente, devo a lei la mia nuova vita, spero che tu potrai conoscerla presto.

    La stazione è il solito tran tran di gente che va e viene, chi si abbraccia, chi litiga, chi corre. Guardo l'ora: le 9. Il primo treno per Milano è tra un quarto d'ora.

    «Signore…» mi dice un barbone seduto alla base di una colonna della banchina. Frugo nelle tasche, trovo un euro, lo metto nel suo vecchio cappello rovesciato sul pavimento, lui mi accenna un sorriso.

    Mi faccio due conti sull'orario, arriverò alle 12 e 40, tra quasi quattro ore. Per un attimo l'ansia prende il sopravvento, quattro ore sono tante. Avrei dovuto prendere l'aereo, non so perché sono piombato alla stazione. Dopo aver atteso tutti questi giorni appeso a mille perché, ora quattro ore mi sembrano un’eternità ed ho paura di non fare in tempo. Ho quel sentore che succeda qualcosa, ma caccio via questi pensieri, è solo un'ansia idiota. Salgo sul treno prendo il mio posto vicino al finestrino e aspetto che parta.

    Per un attimo non so se è il mio treno che sta partendo o se è quello accanto: fisso fuori dal finestrino e mi accorgo che è un’illusione. Il treno vicino scorre via aprendomi il sipario sulla stazione ancora ferma, è tutto relativo. Guardo l'ora, sono nervoso, poi finalmente la stazione sfila via lentamente, lasciando il posto ai palazzi di via Prenestina. Il treno in movimento mi fa tirare un sospiro di sollievo, sono in viaggio. Seduta davanti a me c'è una signora con due figli piccoli che saltano e giocano euforici.

    «Fate i bravi, mettetevi seduti!» si raccomanda lei, mentre il più piccolo piange perché il più grande non vuole dargli la ruspa per giocare.

    «Fai giocare anche lui» dice pazientemente la madre. Il più grande fa uno sbuffo e accetta lo scambio della ruspa con una macchinina della polizia.

    «Zitti che date fastidio…» dice la mamma. Loro pazientemente si adattano a giocare sulla poltrona. La ruspa ha appena sollevato la macchina della polizia dentro la benna, con grande soddisfazione del più piccolo mentre il più grande si lagna: «Non puoi farlo perché io sono la polizia!». «E… io lo faccio lo stesso!» risponde il fratellino.

    Mentre li osservo giocare, mi viene da pensare quante cose cambiano negli anni, quante ne possono accadere, il tempo cambia tutto o quasi.

    Il pensiero è tornato agli anni trascorsi in carcere. Il carcere è un'esperienza dura e pesante e quando si è innocenti è terribile. Il tempo dentro non passa mai e anche se devi scontare una pena di qualche anno, ci sono momenti in cui pensi che lì morirai. Accadono cose orribili in carcere, cose che la mente non vuole ricordare e devi far di tutto per rimanere vivo dentro. L'unica difesa per me era leggere, leggevo tanto, divoravo con gli occhi e la mente tutto quello che mi passava davanti, pensando al momento in cui sarei finalmente uscito.

    Il giorno più terribile, fu quando una guardia venne a chiamarmi; non era orario di visite ma mi accompagnò ugualmente nella sala dei colloqui.

    «Che succede?» chiesi. Non ebbi risposta. Entrai nella sala e dietro il vetro divisorio vidi zia Anna, aveva gli occhi lucidi, balbettava e non sapeva cosa dirmi.

    «Perché sei venuta?»

    «Ieri sera mamma ha avuto un malore» disse lei. Il mio cervello andò in tilt, non so spiegare cosa pensai in quel momento.

    «È grave? Come sta?» domandai. Zia abbassò lo sguardo piangendo sommessamente.

    «Mi dispiace… è morta» disse tra le lacrime. Mi disperai come un bambino.

    L'agente presente al colloquio, con l'aiuto di un collega, mi accompagnò in una stanza di tre metri per tre dove piansi tutte le mie lacrime ed urlai disperatamente il mio dolore. I due agenti, non sapendo cosa fare per calmarmi, chiamarono il prete, l'ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento, ma che almeno sentii come presenza amica. Iniziò con i suoi discorsi sulla fede in Dio, sul farsi forza, e bla bla bla… Improvvisamente non lo ascoltai più, lo presi per il maglione che indossava e lo tirai verso di me. «Sono innocente!» cominciai a dirgli a bassa voce tra rabbia e pianto. Lui mi guardò con aria compassionevole, dicono tutti così avrà pensato tra sé e sé.

    Lo ammetto: ti ho odiato. Quel giorno ho deciso che non avevo più un fratello e che non volevo più vederti.

    Quando sono uscito è stata dura. Nel quartiere tutti quelli che ci conoscevano mi additavano e sparlavano alle mie spalle. Non è facile scrollarsi di dosso il marchio di spacciatore, fratello di uno sbandato. Dovevo trovare lavoro, mi sono arrangiato a fare un po’ di tutto e mi sono trasferito per non incrociare più quegli sguardi inquisitori. Di te nessuna notizia, ho saputo che al funerale di mamma ci sei andato… almeno l'ultimo saluto, poi sei scomparso. Mi trasferii da zia Anna per un breve periodo, cercai disperatamente lavoro, qualsiasi lavoro, ma con i miei precedenti non fu affatto facile trovarlo. Mi adattai a fare qualsiasi cosa, anche i lavori più duri e umili e naturalmente in nero: nei cantieri edili a fare quello che capitava, a scaricare casse nei mercati. Il più duraturo fu in una cava di pietrisco. Vissi i primi anni dopo l'uscita dal carcere con lo spettro della detenzione accanto a me.

    Poi arrivò un colpo di fortuna e grazie ad uno stratagemma riuscii a trovare un posto di lavoro in un bar del centro. Mi parve un sogno! Dopo anni di lavori duri, fare il barista mi concedeva il tempo per iniziare a pensare al mio futuro.

    I datori di lavoro sapevano del mio passato, sarebbero riusciti a conoscerlo comunque, per questo fui onesto nel dirglielo. Per loro costituì il giusto pretesto per trattarmi come una bestia. Non ero laureato ma avevo studiato, mi piaceva scrivere e così iniziai con alcuni articoli che furono pubblicati su riviste e su quotidiani locali. Di giorno ero al bar e di notte spendevo qualche ora a scrivere e a preparare buste per inviare gli articoli alle diverse redazioni. Tra rifiuti e pubblicazioni, pian piano prese piede la possibilità di tentare il colpo per diventare giornalista pubblicista. I miei articoli piacevano, nessuno mi pagava ed io volevo cercare un accordo con qualche redazione. Mi andò bene. Superai il numero di articoli richiesti. Per me si trattò di una piccola impresa riuscita, non era ancora un lavoro ma poteva diventarlo. Cosa più importante è che tutto questo mi appassionava, facevo le ore piccole pur di vedere le mie parole pubblicate.

    Passai del tempo a riflettere sul da farsi, il lavoro al bar andava avanti senza problemi e, visti i miei difficili trascorsi, non me la sentivo di lasciarlo. Nel frattempo, dentro di me si ravvivava sempre di più un certo spirito di avventura, l'idea di un sogno che potevo realizzare. Così, mentre da una parte la mente mirava ad obiettivi radiosi, dall'altra il piccolo io mi diceva che ero un idiota e mi spingeva ad essere realista, a guardare alla reale condizione delle cose. Ero ancora giovane e molto determinato…

    Insistetti e lottai contro il piccolo io e dopo un mucchio di lettere e telefonate riuscii ad ottenere il tanto desiderato appuntamento con il direttore di un importante giornale. Mi presi un giorno, spesi parte dei pochi risparmi per comprarmi un vestito elegante da due soldi, montai in sella alla mia Vespa Special mezza arrugginita ed andai all'appuntamento. Parcheggiai la Vespa proprio sotto gli uffici del giornale e mille pensieri mi attraversarono la mente. Che fare? Che non fare? Andrà come dovrà andare… Se andrà male… chi se ne frega, potrò sempre dire di averci provato, non cambierà niente e potrò ritornarmene al bar.

    Ricordo di essere stato per qualche minuto dietro a tutte queste paranoie, proprio come quando tieni tanto al risultato di una cosa e per paura di deluderti, se le cose vanno male, dici a te stesso che l'importante è averci provato, e sai bene che non è così. Scrollai via quei pensieri idioti. Avrebbero soltanto compromesso il colloquio con il direttore e mi avrebbero fatto sudare di più, soprattutto le mani. Cosa odiosa stringere la mano a qualcuno quando è sudata. Presi il fazzoletto dal taschino e mi asciugai le mani e la fronte, salii in ascensore e mi diressi al decimo piano.

    In ascensore mi specchiai a lungo. Il vestito è da due lire e si vede, ma almeno è nuovo… la cravatta è sottile, perché mi sono comprato questa cravatta sottile?... È un segno di mediocrità, va bene per una sortita il sabato sera, non per un appuntamento come questo, sono un idiota. Le porte si aprirono sul caos della redazione: squilli di telefono, box dove tutti erano chini a scrivere e a telefonare, persone che andavano e venivano.

    «Per l'edizione di domani non ce la facciamo!» disse qualcuno. «Dobbiamo farcela e battere la notizia sul tempo!» disse qualcun'altro urlando.

    Io vagavo come uno zombie senza meta, non sapevo dove dirigermi in mezzo a quel trambusto. Passavo per i box senza essere nemmeno notato, quando una ragazza alta dai capelli castani lunghi e gli occhi chiari venne verso di me come un'apparizione. Con il suo passo elegante sembrava distaccata da tutto il resto, aveva una cartellina in mano, sul viso traspariva un sorriso che si distingueva tra i volti tesi. Intorno facce sudate e l'aria condizionata mal funzionante a cento all'ora. Alzai il dito indice verso di lei con sguardo interrogativo, quasi stupido:

    «Scusi».

    «Mi dica».

    «Dov’è l'ufficio del direttore?», Lei con un gesto elegante mi indicò un ufficio a vetri con le tende veneziane semi aperte in fondo alla grande stanza.

    «È laggiù. Ha un appuntamento?».

    «Sì alle 10,30» le dissi.

    «Bene, avverto il direttore. Chi devo dire?»

    «Fabio… Fabio Brighi» risposi. Mi accompagnò verso l'ufficio ed il passo dei suoi tacchi alti ritmò in sincronia con il mio battito cardiaco. Entrò, si fermò qualche minuto, poi riuscì facendomi accomodare sulla poltrona adiacente l'ufficio del direttore.

    «C'è da aspettare un po’…» disse con gentilezza.

    «Occhei» risposi paziente.

    Dieci minuti. Guardavo nervosamente l'orologio e intanto pensavo al possibile svolgersi del colloquio. Cosa mi chiederà? Come dovrei rispondere? Venti minuti. L'ansia aumentava. Tallone, punta, tallone, punta, muovevo i miei piedi al ritmo di una crisi di nervi come se dovessi andare urgentemente in bagno. Trenta minuti. Si è dimenticato che sono qui fuori ad aspettare. L'ombra di una sagoma umana dentro l'ufficio traspariva dalle tende semisocchiuse, andando avanti e indietro. Se ha una grana da sbrigare mi

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