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Anteprima del libro
Ascolta musica - Eleonora Passeri
Epilogo
I
È successo un’altra volta. Sono in mezzo agli altri, rido, parlo, e un attimo dopo non ci sono più; anzi ci sono, ma chiusa nel mio mondo. Fin da piccola, ho imparato a considerare questa sensazione non un difetto ma una modalità di relazione. È come un fuoco sempre acceso. Certo, andare in giro con questa fiammella in corpo non è semplice, me ne rendo conto. È strano, lo so, e la vedo soltanto io. Quando penso al fuoco, penso alla luce, alla vita; solo dopo, penso al pericolo che il fuoco porta con sé.
Era un maggio di qualche anno fa, poco prima che l’estate entrasse prepotentemente nella nostra vita.
Avevo finito gli esami a febbraio e mi ero data un po’ di tempo per scegliere l’argomento della tesi. Non avevo ancora un’idea precisa. Avevo ricevuto varie e-mail dal professore: mi consigliava testi utili, tra cui Intellettuale a Auschwitz e Il codice dell’anima; libri che mossero qualcosa dentro di me, nel mio desiderio di conoscenza.
Un paio di settimane dopo, ero in Facoltà per discutere con il professore di quei libri, delle idee che mi erano venute, del metodo che avrei seguito. L’incontro era stato proficuo: con il prof. avevo creato un rapporto informale di cui andavo molto orgogliosa. L’unica cosa che restava da fare era iniziare a scrivere.
Mercoledì 20 maggio. Uscita dalla stanza 24 del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Arezzo, mi avviai in biblioteca per cercare altro materiale bibliografico. Il catalogo on line suggeriva diversi titoli di cui avevamo appena discusso. Ne scelsi quattro: Psiche di Erwin Rohde, La coscienza di Zeno di Italo Svevo, che già possedevo in una vecchia edizione scolastica, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo di Edmund Husserl, perché avevo capito che il filosofo tedesco era il pallino del professor Biagetti e, infine, L’immaginazione di Jean-Paul Sartre, una mia fissazione.
Ero piena di libri e di tante altre cose; cose probabilmente inutili, almeno in quel periodo. Stavo vivendo intensamente, come chi ha ancora tutto da conquistare. Il treno delle 18.13 mi avrebbe riportato a casa. M’incamminai verso la stazione sul viale pieno di negozi che ormai conoscevo a memoria. Il primo vendeva dischi; la porta sempre aperta. Usai Shazam per riconoscere le note della canzone in sottofondo: My Ever Changing Moods degli Style Council. Improvvisai un balletto alla Michael Jackson, con il suo passo più famoso, il moonwalk strusciando i piedi sul marciapiede. Gianluca, il commesso, si mise a ridere. Ero in uno stato di grazia finalmente! Lo salutai velocemente e proseguii lungo il viale: la boutique di prodotti biologici e vegani, la pizzeria degli indiani sempre piena di studenti, il negozio delle fotocopiatrici, il bar, l’antiquario, la libreria dell’usato dove mi fornivo dei libri di testo, la copisteria, l’edicola e il chiosco in cui mi ritrovavo con i compagni di corso.
Il treno era fermo sul binario. Per un’ora e venti non avrei pensato al lavoro, alla sofferenza che avevo dovuto affrontare qualche mese prima e alle responsabilità connesse al mio essere-nel-mondo (come avrebbe detto Heidegger). Negli ultimi tre anni, quell’andare e ritornare aveva scandito il ritmo della mia vita.
Lo scompartimento era vuoto. Come al solito, mi sedetti accanto al finestrino. Il mio iPod mi avrebbe garantito un’ora di buona musica. Qualche giorno prima avevo creato una nuova playlist senza rispettare nessun filo logico: brani legati da un puro criterio edonistico. C’era Love Theme di Ennio Morricone, tratto dal film Nuovo Cinema Paradiso: immaginavo di essere il suono arioso del flauto di quella melodia, staccarmi da terra e volare. Avevo pensato a quella canzone proprio perché mi faceva tornare indietro alla mia infanzia, a quel tempo in cui ero stata felice. I miei genitori amavano rivedere i vecchi film western alla tv. A mamma piacevano quelli di Sergio Leone per la colonna sonora di Morricone, e fu proprio attraverso quei film che scoprii la sua musica. A papà, invece, piaceva proprio il genere: quell’esotismo, quella lontananza di paesaggi che inesorabilmente ti proietta in altri scenari.
Nella playlist c’era anche Le tasche piene di sassi di Jovanotti e scivolavo in una profonda malinconia. Non so, ma ascoltare quella canzone mi dava sempre un brivido: come se il realismo delle sue parole rispecchiasse tutte le mie fragilità.
Arrivata alla stazione di Orvieto con la maxi-borsa e lo zaino, decisi di fare un po’ di spesa. Non mi bastava il peso che portavo, dovevo caricarmi ancora un po’. Non c’è dubbio, andavo orgogliosa del mio primato: nessun’altra avrebbe potuto viaggiare con una maxi-borsa come la mia, piena di magliette spiegazzate, caramelle appiccicose, un vangelo tascabile, il bignami del Paradiso di Dante, un paio di occhiali da sole senza custodia (vintage per forza di cose), due mini pochette con dentro una vita: tra cui, un vecchio scontrino del ristorante Franzie, ricordo di un viaggio ad Amsterdam di dieci anni prima e un biglietto da visita del casinò Carrousel Arcade by Amusements in Damrak 63-64 nel centro di Amsterdam. Grande primato, eh?
Entrai con tutto quel peso e pensai a un elenco di cose che mi sarebbero servite: l’immancabile petto di pollo, una busta d’insalata, una confezione di spinaci surgelati, il pane e una bottiglia di vino. Quando mi avvicinai al reparto dei vini, vidi una figura maschile che mi dava le spalle; stava riempiendo dei calici. Dovevo sbrigarmi se volevo evitare di perdere tempo con il solito promoter enogastronomico, ma lui doveva avermi già adocchiato. Del resto, non passavo inosservata con tutta quella roba (mai che per una volta prendessi il carrello della spesa).
«Posso darle una mano?». Voce discreta, ma decisa.
«No, grazie. Ce la faccio da sola», risposi con un po’ d’insolenza.
Eccomi davanti allo scaffale dei vini: era il momento della scelta. Ma, alla fine, fu il mio peso a scegliere per me un Pinot grigio, quello più a portata di mano. Stavo per agguantare la bottiglia, quando urtai lo scaffale con la maxi-borsa. In sequenza caddero: il pane, la busta d’insalata, il petto di pollo, un pacchetto di biscotti, il bignami del Paradiso, le due pochette e Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo di Husserl. Insomma, nel giro di qualche secondo mi ritrovai a terra; l’unica cosa che ero riuscita a trattenere era la bottiglia di vino.
«Te la sei cercata!». Ancora la voce di prima.
Alzai gli occhi, non troppo, ma abbastanza per cogliere un sorrisetto ironico. Sorrisi anch’io e subito riabbassai lo sguardo. Arrossii come un gambero, che figuraccia! Me l’ero proprio cercata, aveva ragione. Feci finta di niente e cominciai a raccogliere le mie cose. Certo, un carrello avrebbe potuto aiutarmi. A quel punto il ragazzo, forse mosso a pietà, si avvicinò per soccorrermi e in un istante mi rimisi in piedi con tutta la mia roba.
«Te la sei cercata!», disse in tono perentorio. Ora potevo guardarlo bene in faccia. Non era niente di speciale. Non una persona di cui diresti: che tipo! Soltanto una persona gentile che per qualche oscuro motivo sentivo di dover evitare. Aveva un portamento elegante; mi colpì il suo modo di rimettere a posto le cose. Poche parole, pochi gesti, ma quelli giusti.
Con la mia piramide di spesa sulle mani mi avviai traballando fino alla cassa. Prima, però, lo salutai con un po’ di imbarazzo: «Grazie». Lui mi rispose con un sorriso appena accennato. Uscita dall’ipermercato iniziai la ricerca della macchina. Una volta individuata, iniziai la ricerca delle chiavi. Ero sempre alla ricerca di qualcosa e le trovai nascoste, chissà dove, nella maxi-borsa; salii in macchina e, superando il volante, scaraventai tutto, le borse della spesa, lo zaino e la maxi-borsa, sul sedile del passeggero. Niente da dire, complicarmi la vita era la mia specialità. Mentre giravo la chiave dell’auto, si accese subito la radio.
Quella canzone mi aveva portato indietro di circa un anno, quando capii che la mia relazione era ormai al capolinea. Ero in viaggio in Irlanda e, mentre ascoltavo quella canzone dal mio iPod, sentii che mi stava dicendo qualcosa. Sopra di me, un cielo carico di pioggia. Non so se siete mai stati in Irlanda, ma lì il cielo è a portata di mano; mi sentii avvolta nel suo abbraccio e allungai la mano come per toccarlo, per cercare una via di fuga, un teletrasporto che mi avrebbe permesso di uscire dal tempo e mi avrebbe proiettata verso un futuro ignoto.
Cambiai frequenza; quella canzone non poteva rovinarmi la giornata. Respirai profondamente, abbassai il finestrino, misi la testa fuori e lasciai che il vento tiepido di inizio estate mi accarezzasse i capelli. Questa sensazione mi ricordò mia madre, la sua carezza prima di addormentarmi; pensai a lei, al suo amore per me e riuscii a trovare un po’ di pace. Il cielo era pieno di nuovi colori. L’ombra proiettata sulla mia vita si stava gradualmente dissolvendo. Pensai al cielo.
II
Venerdì mi arrivò una telefonata inattesa da Giovanni, un caro amico d’infanzia che avevo incontrato tre settimane prima mentre facevo jogging. Era da molto che non ci vedevamo. Giovanni aveva vinto un concorso per entrare in banca e da qualche anno lavorava in una filiale di Grosseto. Con l’occasione venni a sapere che si era trasferito di nuovo a Orvieto e così ci scambiammo i numeri. Mi telefonò per dirmi che aveva organizzato una cena con alcuni dei nostri amici più cari, quelli del quartiere dove eravamo cresciuti. Non avrei mai potuto mancare a quella serata di ricordi. L’unico neo, se di neo si poteva parlare, sarebbe stato quello di essere l’unica donna, ma proprio per questo la cosa m’intrigava di più; del resto, con loro avevo una tale confidenza che non mi sarei certo sentita in imbarazzo. Tra noi era sempre stato così.
Accettai l’invito e cominciai a pensare a cosa indossare. Così, visto che l’appuntamento era per le nove, decisi di uscire nel tardo pomeriggio per cercare qualcosa di adatto. Avrei avuto tutto il tempo per prepararmi. La telefonata di Giovanni mi strappò un sorriso breve ma inequivocabile; era arrivata al momento giusto. Tutto stava carburando e durante il pomeriggio non feci altro che provare vestiti. Sì, ero davvero in crisi. Negli ultimi mesi ero molto dimagrita e tutto mi andava largo. Il mio rapporto con la bilancia è sempre stato sano ma, davanti allo specchio, non potevo negare la trasformazione del mio corpo. La fine di quella relazione mi aveva prosciugato di energia e la mia pelle, malgrado fossero passati mesi, non aveva ancora ripreso la sua luminosità. Non riuscivo a guardarmi allo specchio: vedevo soltanto ciò che indossavo; vedevo una donna che prova ad andare avanti, ma che ha perso il contatto con sé stessa. Chi avrei trovato ancora lì fuori? Salii in macchina con un’unica certezza: il passato non sarebbe più tornato.
Mentre sbirciavo le vetrine dei negozi del centro, fui sorpresa da un temporale. Il cielo si era scurito improvvisamente. Mi riparai nell’androne di un palazzo aspettando che spiovesse; appoggiai la schiena al muro e incrociai le gambe: mi sembrò di sentire delle voci vicine, forse dalle scale del palazzo.
«Perché non mi lasci vedere? Ti prego. Se mi fai vedere ti aiuto nei compiti di matematica», supplicava una vocina maschile.
La risposta arrivò subito: «Ma che dici? Stai scherzando?».
E la vocina insisteva: «Non lo dico a nessuno, ti prego fammi vedere! Dai, fammi vedere cosa c’è sotto!».
Ero capitata nel bel mezzo di uno scambio di effusioni tra due preadolescenti. Forse il ragazzino stava parlando della maglietta di lei; forse le sta chiedendo di vedere i suoi giovani seni.
«Smettila, dai, lascia stare!», rispose divertita.
Avranno avuto al massimo dodici anni. Lui ci