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Malefica Discendenza
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E-book355 pagine5 ore

Malefica Discendenza

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Info su questo ebook

Racconto pian piano la mia lunga storia
dipingo a colori la vera memoria,
‘na carezza tenera segna il mio viso
sapendo che a breve sarà un fiore reciso.
Quindi er Mastro Titta a d’arzà ’a fronte
pe’ fa finta de gnente e tornà “Passaponte”.
Co ’mpasso deciso riconosci la Vita,
nun serve raggione ma solo archimia,
e si la cosa è dunque davvero ’mportante
je devi dà de netto tra er core e la mente.
Cosa c’entra Mastro Titta con la massoneria? Un serial killer con Mastro Titta? La statua di Pasquino con la pedofilia?
Un omicida seriale terrorizza Roma. Rapisce ragazze, le uccide, esponendo le foto delle teste tagliate sotto la statua di Pasquino, accompagnate da sonetti romaneschi. È lì, la chiave del mistero? L’amore mai sbocciato tra un adulto e una ragazza di quindici anni e il pregiudizio che ne deriva, quale malefico intreccio nasconde?
Dopo “Sole a mezzanotte”, L’ispettore della polizia di Oslo, Jorgen Eykenbrock si cimenterà, nella Capitale italiana, in un complesso caso da risolvere. Insieme all’amico e commissario di Roma Claudio Berardi, saranno al centro di un delicato intreccio internazionale.
Una rivelazione… lo lascerà senza fiato, in un finale insolito e imprevedibile.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2016
ISBN9786050430837
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    Anteprima del libro

    Malefica Discendenza - Renzo Ricci

    Renzo Ricci

    Malefica Discendenza

    Copertina a cura di Renzo Ricci

    Libro cartaceo ed e-book in vendita presso

    www.amazon.it

    ed in tutti i principali store internazionali:

    Apple iBook

    IBS.it

    La Mondadori

    KoboBooks

    Book Republic etc.

    Anno di pubblicazione: 2016

    Pagina facebook: Malefica Discendenza di Renzo Ricci

    Email:

    maleficadiscendenza@gmail.com

    UUID: 36e2bffe-12e2-11e6-8a4d-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    indice

    1 Il mostro.

    2 Piazza Navona.

    3 Quindici giorni prima.

    4 Roma. 3 maggio, ore 15,00.

    5 Roma. 3 maggio, ore 20,30.

    6 Roma. 4 maggio, ore 9,00.

    7 La telefonata.

    8 Roma. 15 maggio, ore 17,00.

    9 Ritorno al presente.

    10 Roma. 16 maggio, ore 10,47.

    11 Roma. 16 maggio.

    12 Roma. Ore 23,30.

    13 Istanbul.

    14 Roma. Sala riunioni della Questura.

    15 Istanbul.

    16 Roma. Sala della Questura, ore 10,30.

    17 Roma. Ore 16,30.

    18 Centro storico di Istanbul.

    19 Lo specchio.

    20 Beatrice Cenci.

    21 Roma. Ore 15,00.

    22 Roma. Ore 20,45.

    23 Roma. Questura, ore 10,20.

    24 Roma. Fast Food.

    25 Piana Crixia. Liguria, ore 9,30.

    26 Roma. Via Giulia.

    27 Roma. Sala della Questura, ore 12,30.

    28 Roma. Sala della Questura.

    29 Roma. Questura, ore 16,00.

    30 Roma. Sala della Questura, ore 20,05.

    31 Roma. Sala della Questura, ore 12,30.

    Ringraziamenti

    È più facile spezzare un atomo, che un pregiudizio.

    Albert Einstein

    1 Il mostro.

    «Perché piangi, tesoro? Mi dispiace se le fascette ti stringono i polsi, vorrei slegarti, ma non sei pronta per me.»

    La stanza non aveva finestre. La luce invadeva gli occhi della piccola Berenice attraverso gli spot posti ai lati dello specchio molato, posizionato sopra al letto a baldacchino, a cui era legata. Poteva guardarsi, girare lo sguardo tutto intorno, urlare, scalciare, ma non poteva sottrarsi a quella voce a cui ancora non riusciva a dare un volto.

    La sentiva vibrare, quella voce, era una carezza terrificante, un sospiro che le rivoltava i pensieri e lo stomaco.

    L’uomo la osservava estasiato, come davanti a un’opera d’arte, come un quadro prezioso, come un sogno di bellezza che era riuscito a fermare nella sua esistenza. Se ne stava lì, seduto, un po’ discosto, in ombra, fuori dalla luce, ad ascoltare il pianto dirotto della ragazzina che aveva ingannato e trascinato con se da via della Luce, dalla parte opposta del ponte dove c’è il ghetto ebraico di Roma. Era stato bravo, convincente, così come lo era stato poche settimane prima con Monica, la seconda ragazza. L’aveva avvicinata e incuriosita con le sue dotte citazioni sull’Anfiteatro Flavio e sulla possibilità di fare delle foto in una zona del monumento vietata ai visitatori. Lei, ignara di quello che sarebbe successo, l’aveva seguito. Una piccola pastiglia di Rohypnol nell’aranciata l’aveva resa docile e ubbidiente. Stessa sorte di Berenice legata al letto. Ora era lì, davanti alla ragazza, che sollecitava le sue fantasie, la sua pazzia, il suo disperato bisogno d’amore.

    «Non piangere, Berenice, non aver paura. Perché non mangi? Avrai fame, devi mangiare qualcosa. Ti prego parlami, ho bisogno di sentire la tua voce, di sentirti, di sentire!»

    Berenice, non riusciva a capire: quante ore erano passate? oppure giorni? Quella voce... cominciò a ricordare.

    «Che cosa mi hai fatto?»

    Lo specchio che rimandava la sua immagine la mostrava legata, le gambe graffiate, i vestiti strappati e sul copriletto di seta avorio, osservò le macchie di sangue: Sono ferita, pensò, ma non provava dolore. Lo vide uscire dall’ombra e lo riconobbe.

    «Non avere paura, non sei ferita, ti ho solo amato. Ho molto apprezzato il sangue che hai perso... la tua prima volta... un meraviglioso regalo per me».

    Voleva rannicchiarsi, svanire, sottrarsi a quello sguardo, a quella voce che le aveva rubato la volontà, scivolare via, mentre il cuore, i pensieri le schizzavano fuori dagli occhi, mentre nessun urlo poteva essere ascoltato.

    «Dimmi, Berenice, dimmi cosa senti. Voglio sapere cosa provi».

    La ragazza cercò di ricacciare indietro le lacrime, ma erano dense e roventi come gocce di azoto, la gola chiusa dal panico, la droga addormentava le reazioni, eppure doveva rispondere.

    «Che cosa t’importa di quello che provo? Lasciami andare! Voglio andare a casa! Non dirò niente, sarò brava!»

    L’uomo la guardò interdetto, incuriosito.

    «Non m’importa se mi hai violentata, drogata. Voglio andare a casa!»

    Lo guardava negli occhi, mentre lo supplicava e sentiva le sue mani salire su dalle caviglie, aspettando l’orrore delle sue risposte.

    «Perché sei cattiva con me?» Rispose calmo «Non ti ho violentato, ti ho amato. Sei una donna speciale, Berenice e io voglio solo il tuo amore.»

    Lo spazio per ritrarsi finì, le spalle incastrate fra i ferri della testata del letto, i polsi tagliati dalla plastica, le caviglie bloccate e tutto l’atroce peso dell’uomo fra le su gambe.

    «Sei pazzo, io non sono una donna, sono una ragazzina, ho solo 15 anni... e tu mi stai facendo del male!»

    Di scatto l’uomo si spostò, sentì il suo respiro affannoso, percepì il tremore dei muscoli lungo i suoi fianchi e il sollievo effimero, dal peso del suo corpo. Aveva gli occhi chiusi, quando la sua voce tagliente la raggiunse.

    «Non dire più quella parola! Questa non è violenza e io non sono pazzo!»

    Si alzò lentamente dal letto, concentrato a tenere insieme il fascio di nervi che era diventato il suo corpo, per mantenerne il controllo, quindi si voltò e si diresse verso la porta. Berenice piombò in un mutismo senza lacrime, sopraffatta dalla paura. Cosa sarebbe successo adesso? Quale futuro le aveva riservato quella belva dai modi apparentemente gentili? Quando le si avvicinò, l’uomo era di nuovo tornato padrone di se stesso, il viso non tradiva nessuna espressione e le sciolse i polsi. La prese per mano e la condusse fuori dalla stanza. Un misto di paura e sollievo per la violenza scampata, la rasserenò. Attraversarono un corridoio, arrivando a ridosso di una porta. Sempre in silenzio, l’uomo indicò le scale e la invitò a scendere. Era la prima volta che usciva dalla stanza dove lui la teneva legata. Forse, pensò ingenuamente, era arrivato il momento della liberazione. Stava andando in garage per essere portata in qualche posto e rilasciata? Il rapitore le indicò il divano color cremisi appoggiato alla parete di specchi, in quello che sembrava uno studio, un laboratorio.

    «Accomodati, piccola... vedi Berenice, io non sono pazzo e ho bisogno che tu capisca. Quello che può sembrarti sbagliato, aberrante, non lo è. Voglio spiegarti, insegnarti come nella Grecia di Platone e nell’antica Roma, i rapporti tra adulti e ragazzi erano consentiti e… leciti. I minori prossimi alla maturità potevano scegliersi liberamente gli amanti. Poi tutto è cambiato, le convenzioni, il cristianesimo, le altre religioni, la psicologia, hanno classificato queste naturali pulsioni, come malattie. Non sono pazzo, mi prendo quello che un mondo ipocrita mi nega. Un mondo che difende ufficialmente la sacralità di istituzioni come la famiglia, salvo poi non ottemperare ai suoi obblighi, dove vengono perpetrati i crimini più orribili, un mondo dove chi dovrebbe proteggere, abusa senza ritegno. Vorrei poterti amare, essere accettato, compreso...»

    Berenice ebbe una strana sensazione e un brivido le scese lungo la schiena. L’euforia e la leggera speranza di una liberazione svanirono. La disperazione, mista ad angoscia, l’assalì: si era illusa!

    «Potresti essere mio padre… lasciami andare, ti prego! Ti supplico!»

    Vide il volto del suo carceriere di nuovo stravolto dalla tensione e dalla rabbia, non parlava più a lei, ma a se stesso, attraverso lo specchio.

    «... padre si, esattamente come il mio, per cui sono stato preda e gioco! Mia madre avrebbe dovuto proteggermi, tenermi fra le braccia, nascondermi e invece ha lasciato che il silenzio coprisse il dolore, che la sofferenza mi rinchiudesse e mi spezzasse l’anima. Così, per la vergogna, non ho mai giocato a pallone, non ho mai corteggiato una ragazzina della mia età, avrei voluto essere come i miei compagni, spensierato, innamorato. Poi sono cresciuto, Berenice e da preda sono diventato cacciatore, un cacciatore esperto. I medici spesero parole su parole e blaterarono su presunti disturbi della personalità, ma io avevo solo bisogno di essere amato, protetto. Nel tempo ho imparato a contenere il dolore. Per tutti, per la società, ero un giovane introverso, tranquillo e rassicurante. Invece facevo vacanze speciali dove le bambine come te si ordinano al bar, dove ho assecondato le mie pulsioni. Ho anche desiderato che tutto finisse, che potessi riscattarmi, quando conobbi colei che suscitò in me curiosità nuove e inaspettate: ho sperato, immaginato che il dolore svanisse, che potessi mostrarlo e mostrarmi. Pensai finalmente di poter vivere, di non sentirmi inadeguato, di provare emozioni, sentimenti, ma non successe e mi allontanai. Quell’incontro aprì la strada ad una nuova esigenza, quella della condivisione. La necessità...»

    Lo squillo di un telefono entrò come una esplosione lacerante in quella angosciosa e delirante confessione. L’uomo si destò e, tornato in sé, uscì dalla stanza. La sua voce arrivò alla ragazza.

    «Pronto? Si. Stavo preparando. È tutto sotto controllo e anche la macchina fotografica è pronta, sto per procedere… non mettermi fretta. Devo agire con cautela, non posso correre rischi... lo so che non sono io a dettare gli ordini, ma... non è il caso che mi ricordi sempre le stesse cose... ok… farò come dici!»

    Riattaccò. Berenice avrebbe voluto non ascoltare, avrebbe voluto che il terrore le avesse pietrificato i pensieri, non il corpo.

    «La macchina fotografica... ti ho sentito... sei tu l’assassino... mi ucciderai... come le altre!»

    Il suo aguzzino si avvicinò, sembrava volesse rassicurarla, mentre l’abbracciava e solo allora Berenice sentì la piccola puntura della siringa sulla spalla. Tentò di urlare, di sfuggire all’abbraccio che soffocava ogni speranza. Sentiva il cuore battere in ogni cellula, sempre più forte, la bocca impastata e faticava a rimanere lucida. Sentiva formicolare gli arti e aveva la stessa sensazione di quando si sballava con gli amici in discoteca.

    L’uomo, impassibile, riprese a parlare.

    «... ho bisogno di essere capito, ammirato. Lei è la mia passione e la mia ossessione: si confida, ride, gioca, ma non posso averla. Adele, la prima ragazzina che ho preso, mi aveva illuso che potesse essere lei. Sembrava interessata alla spiegazione che le avevo dato sui simboli massonici presenti nella chiesa di San Carlino, ma quando non ho visto che terrore nei suoi occhi, il velo nero della pazzia mi ha avvolto e ho colpito, ho colpito… le ho staccato la testa, per toglierle la possibilità di pensare, di pensarmi come un mostro.»

    Confidò così il suo segreto, raccontandolo a lei, per la quale non era previsto nessun futuro, come fece con Adele e con Monica.

    «Hai capito adesso? Soffro troppo, non sono un mostro, sono solo dolore... Adesso hai capito? Berenice, è vero che hai capito? È per questo che non piangi più?»

    Lo sguardo fisso alla parete di specchi a cui si stava confessando, lo distrasse dalla ragazza. Si rivolse di nuovo a lei.

    «Berenice, perché non rispondi?»

    Ancora silenzio. Si girò di scatto. La proverbiale calma vacillò e una sensazione di sgomento l’assalì.

    «Berenice! Rispondi! Berenice!»

    La scosse.

    «Non puoi... non farmi questo, non devi morire, non così...»

    Le auscultò il cuore senza riceverne nessun segnale e in preda al panico cominciò ad agitarsi come una belva in gabbia.

    «Noo! Non doveva finire così. Ė crudele quello che mi stai facendo! Lo capisci? Perché hai voluto farmi tanto male?»

    Si diresse come un automa verso il paravento che copriva una parte della stanza, gettandolo in terra. Afferrò il treppiedi che montava una macchina fotografica e si diresse verso la ragazza. La prese in braccio, mentre copiose lacrime gli attraversavano il volto, deformato dal tormento. L’adagiò delicatamente su un ceppo di legno di quercia. Poggiò dolcemente la testa inerte della sventurata ragazzina, quasi per non farle male, come se fosse ancora viva.

    Si fermò ad osservarla, i singhiozzi gli squassarono il torace, ma d’un tratto si destò come da un sogno e la tenerezza svanì.

    «Hai voluto umiliarmi? Io che ti ho amato.»

    Il passaggio da quei momenti delicati, al violento scatto d’ira, fu repentino.

    «Siete tutte uguali, voi donne! Non volete amore da chi vuole darvelo! Ti amavo veramente Berenice, ma sei uguale a loro: Adele era uguale, Monica era uguale, la mia bambina è uguale... Non sapete amare! Invece di accudirci, difenderci, ci lasciate, ci abbandonate, ci tradite!» Urlò pazzo di dolore.

    «Siete tutte uguali voi donne: grandi e piccole! Siete uguali a lei! Siete tutte mia madre!»

    La mannaia affondò la lama sull’incolpevole collo di Berenice. Lo spavento e lo stress provato dalla ragazza le avevano fermato il cuore, risparmiandole il supplizio finale. Il flash di una macchina fotografica concluse quel pomeriggio di follia. Il rituale era compiuto.

    2 Piazza Navona.

    15 maggio, ore 22,00.

    La terrazza era illuminata da piccole fiaccole. Si affacciava direttamente su Piazza Navona, di fronte alla residenza dell’Ambasciata brasiliana, dove una marea umana andava avanti e indietro, incrociandosi in quella calda serata di maggio. Una leggera brezza accarezzava le donne e gli uomini in visita alla mostra allestita nel vicino Palazzo Braschi, oppure diretti ai caratteristici locali nella piazza della celeberrima statua di Pasquino, protagonista, suo malgrado, di molti film che ne raccontavano la storia. La fioca luce delle candele e il panorama sottostante, rendevano l’atmosfera ancor più affascinante. La festa era in pieno svolgimento. Gli sposi, stanchi e felici, intrattenevano gli ospiti, aiutati dalla musica dal vivo. Erano stati fortunati, poiché l’interprete dell’ambasciatore norvegese a Roma offrì loro la casa, come regalo di nozze. I neo coniugi si conobbero due anni prima rimanendo coinvolti nell’affare Lawson: caso d’interesse internazionale che coinvolse sia la polizia italiana sia quella norvegese. Artefice del successo di quella complicata indagine, che accrebbe la sua già nota fama in patria, fu il loro amico e ispettore della polizia di Oslo, Jorgen Eykenbrock. Molti connazionali presenti erano lì anche per lui. La maggior parte degli ospiti era all’aperto, ma non era il caldo della serata a tenerli fuori, quanto la possibilità di potergli fare qualche domanda. Quello che colpì l’immaginario collettivo, all’epoca, era il modo con cui sbrogliò l’intricata vicenda delle isole Lofoten. Non fu né il primo né l’ultimo dei casi difficili che affrontò, ma quello coinvolse molte persone e diversi stati. Persone innocenti, trasformatesi in delinquenti. La fama e la fame degli astanti, costrinse Eyckenbrock a dare risposte noiose, alle pressanti domande sui dettagli della vicenda.

    William e Corinna ballavano. Le note dei violini, suonati da tre belle ragazze, echeggiavano sulla terrazza.

    «... e con questo credo di avervi detto tutto sull’affare Lawson. Consentitemi, non voglio rubare oltre la scena ai nostri amici sposi. William! Vieni a liberarmi...» Disse scherzosamente.

    L’amico, ignorandolo, andò verso il tavolo e prese due coppe di champagne, dirigendosi verso la consorte. Notò un’espressione strana, diversa da quella felice e spensierata vista poco prima.

    «Che hai? Non ti senti bene?» dopo qualche secondo, ripeté «Ehi, va tutto bene?»

    «Tutto ok…» Mentì.

    «Non si direbbe, hai una faccia...»

    «Ho avuto una strana sensazione, non so come dirti…»

    «Dev’essere stata molto intensa. Guardati allo specchio, sembri terrorizzata.»

    «Sì. Era proprio una sensazione di terrore…»

    «Dai, sarà la stanchezza. Lo stress gioca brutti scherzi. Hai accumulato tensione in questi giorni e ora ti stai rilassando. Torniamo a ballare, così ti distrai.»

    Accettò, convivendo con quella spiacevole impressione. Il tempo passava e Jorgen era ancora prigioniero…

    «Un’ultima cosa» chiese un altro curioso all’ispettore norvegese «non ha più saputo nulla delle persone che erano a Villa Lawson? Che fine hanno fatto?»

    «Sinceramente? Non me ne sono occupato più di tanto. Il mio compito è finito nel momento in cui ho smascherato le menti diaboliche di quel piano criminoso. Posso solo dirvi che più persone furono coinvolte nella vicenda e sono finite in galera. Una di queste era a capo di tutto: Lamberto Liverani. Stava scontando la pena, al pari degli altri, ma è stato coinvolto in una rissa fra detenuti e ucciso. Dalle informazioni frammentarie, non ho capito se il Liverani si fosse trovato casualmente nella rissa, o fosse lui stesso l’obiettivo. Dal rapporto stilato dal Direttore del carcere sembrò trattarsi del classico episodio di violenza tra detenuti, come ce ne sono tanti. Non so, forse un regolamento di conti, o chissà. Quel che è certo, è che ha definitivamente saldato il suo debito con la giustizia. Degli altri non so più nulla. È passato molto tempo. Ora spero di aver appagato la vostra curiosità e…»

    Ahhhhhhhhhh!. Urla strazianti squarciarono le melodie dei violini. In un attimo il gelo calò nel salone e sulla terrazza. La musica cessò. Il primo ad accorrere in terrazza fu William Ferkingstaad, l’amico e collega dell’ispettore.

    «Jorgen, queste urla…»

    Il suo amico, affacciato al davanzale, rispose cercando di rassicurare un po’ tutti.

    «Non ne ho idea, ma da quando sono a Roma, sento urlare spesso, che non distinguo più.»

    «Il tuo solito, inutile sarcasmo.» Fece l’amico.

    «William, rimani con gli ospiti. Scendo a vedere cosa attira l’attenzione di quelle persone e il motivo delle urla. Le grida provenivano da quella via.» Indicò l’amico norvegese.

    «È via Pasquino, dove c’è la famosa statua. Corinna mi ha raccontato tutta la storia del monumento…»

    «Ok, me lo dici dopo. Tu rimani e rassicura tutti. Io scendo e risalgo sub…»

    «Tu sei matto! Lo sai che sono curioso e non starò certo qui ad aspettarti.» Rivolto alla sposa «Corinna, scendo con lui.»

    «Ah, non pensiate di lasciarmi qui: vengo anch’io!»

    Alcuni ospiti, altrettanto bramosi di sapere cosa fossero quelle urla, li seguirono. La scena era surreale: donne eleganti e con tacchi alti, saltellavano sui sampietrini, i famosi ciottoli di pietra che compongono tratti di strada del centro storico, facendo prove di equilibrismo. Si trattava di poche decine di metri dal portone, fino alla via adiacente. Arrivarono nei pressi della statua, famosa per le Pasquinate.

    Si racconta che nella Roma risorgimentale governata dal Papa un uomo, di cui non si seppe mai ufficialmente l’identità e che mestiere facesse, affiggeva, rischiando la ghigliottina, sonetti di denuncia delle angherie papaline, confidando in una sollevazione del popolo romano.

    Il capannello di persone era radunato intorno alla statua. Doveva essere successo qualcosa di drammatico, vista la disperazione degli astanti. Jorgen Eykenbrock si fece largo tra la gente, ma non vide né cadaveri né persone o cose che giustificassero quelle reazioni isteriche. Si guardò intorno per cercare di realizzare cosa fosse successo. Capì, quando focalizzò l’attenzione ai piedi della statua. Non si accorse subito della foto. Il suo sguardo andò al foglio, con poche righe scritte al computer. Si avvicinò e riconobbe lo stile poetico di scrittura. Erano versi scritti in una lingua a lui sconosciuta: il dialetto romanesco. Sembravano riportare a una Roma che non c’era più. Solo allora l’orrore colpì anche lui. Nella foto era immortalato il volto sofferente di una ragazza, ma il particolare raccapricciante era un altro: mancava il resto del corpo. Era una testa mozzata! Il silenzio dei presenti, sopraggiunto dopo il primo momento di sgomento, fu rotto dall’arrivo di alcune pattuglie della polizia, allertate da qualche passante. Arrivarono a sirene spiegate dalla vicina Corso Vittorio Emanuele e impedirono l’accesso a tutti varchi in direzione della statua. Da una volante scese un uomo in borghese che impartì ordini secchi agli agenti. Alto, corpulento e capelli brizzolati, dimostrava sui quarantacinque anni o poco più. Alcuni poliziotti, armi in pugno, cercarono tra i curiosi, senza sapere bene cosa. Altri cominciarono a fare domande ai turisti seduti al locale Cul de Sac, di fronte alla statua. Chiesero se avessero visto persone con fare sospetto aggirarsi nei paraggi. All’improvviso, un agente notò un tizio col cappuccio in testa, vestito di scuro, girarsi e imboccare con fare frettoloso via di S. Maria dell’Anima, di fronte alla statua, parallela all’adiacente piazza Navona.

    «Ehi, ehi, tu, fermati!» esclamò il poliziotto.

    Per tutta risposta, affrettò il passo. L’uomo corpulento e in borghese ordinò a due agenti di fermarlo. Lui cominciò a correre. Una volante partì all’inseguimento e ruggì per la stretta via, seminando il panico tra la gente e i turisti che affollavano la strada. Per l’uomo fu più facile correre veloce e sgattaiolare tra le persone, rispetto all’auto della polizia. Arrivò a metà della via, nei pressi di Vicolo dei Granari, ma un gruppo nutrito e compatto di turisti giapponesi, gli ostruì la corsa.

    Proseguì, trafelato, fino in fondo alla via, a ridosso dell’Hotel Raphael e imboccò lo stretto Vicolo di Febo, dove le macchine non potevano accedere. La volante dovette fermarsi. Gli agenti non si persero d’animo, uscirono dalla macchina pistole in pugno, cominciando a correre. Nel frattempo altre macchine, allertate dalla centrale, arrivarono. Una di queste giunse da piazza di Tor Sanguigna, a ridosso del vicolo imboccato dal fuggitivo e gli fu subito addosso. L’uomo, esausto, si fermò un attimo a respirare. Riprese a correre, incurante dell’intimazione di un agente.

    «Fermati o sparo!»

    L’uomo, senza scoraggiarsi, girò nella direzione opposta incrociando un’altra volante che giungeva da via dei Coronari. La macchina inchiodò con stridore di freni. I poliziotti scesero, facendosi scudo con le portiere aperte e gli puntarono le armi. Il fuggitivo tentennò, guardandosi intorno per capire il da farsi e nello stesso istante fu raggiunto dai due poliziotti della volante rimasta bloccata. Non gli restò altro da fare che arrendersi.

    «Commissario Berardi.» Gracchiò poco dopo una voce dalla radio della volante.

    «Ti ascolto Carminati. L’avete preso?»

    «Sì, ma…» Rispose l’agente.

    «Ma, cosa? Parla! Non ho tempo da perdere.»

    «Temo non sia il nostro uomo.»

    «Non è il nostro uomo? Come fai a dirlo, se non sappiamo neanche chi cercare? Non trarre conclusioni affrettate, Carminati.»

    «Non mi permetterei mai dottore.»

    «E allora… portatelo qua.»

    «Mi sono permesso, perché conosco la persona fermata. È uno spacciatore della zona e più volte arrestato per traffico di droga. Scappava perché era pieno di dosi e non voleva essere perquisito. La paura l’ha convinto ad andarsene dalla piazza con quel fare che ci ha insospettito, il resto lo sa.»

    Delusione e rabbia apparvero sul suo volto. Cercò di scacciare dalla mente i sentimenti negativi e non pensare che, probabilmente, l’uomo fermato non c’entrava con le indagini. In quel mentre notò un volto familiare tra i curiosi

    Gli andò incontro, continuando a impartire ordini.

    «Recintate il perimetro intorno alla statua. Non voglio che nessuno si avvicini. Garitta, chiama quelli della scientifica.»

    Poi, rivolto alla persona intravista tra la folla, esclamò.

    «Jorgen! Sono pochi giorni che sei a Roma e già ti trovi dove c’è casino. Me lo sai spiegare?»

    «Ciao, commissario! Tempestivo come sempre. L’avete preso?»

    «È uno spacciatore della zona. Niente d’importante. Non speravo granché. Se fossi stato l’autore, del resto, non avrei atteso l’arrivo della polizia.»

    «Ti aspettavi qualcuno in particolare?»

    «No. Non riusciamo a dare un volto al mostro. Dopo le prime due, come ti raccontavo l’altro giorno, questa è la terza foto, accompagnata dal sonetto, che troviamo qui. Avremo modo di parlarne. Immagino veniate dal ricevimento nuziale, vestiti così. Com’è andata la cerimonia?

    «Bene. William e Corinna sono scesi subito dopo di me. Staranno arrivando. Se aspetti un attimo, li saluti.» Fece Jorgen Eykenbrock.

    «Ora non ho tempo, devo tornare in sede. Salutali da parte mia. Devo redigere il verbale, essendo il dirigente di turno.

    Se c’è un reato, o un omicidio, si deve avvertire il magistrato, questa situazione è anomala. Che gli racconto? Che ancora una volta, invece di un cadavere, abbiamo trovato una foto? Ti aspetto domani da me e ne parliamo. Vale sempre la promessa che mi hai fatto, non è vero? Con quest’ultima foto, avrò di nuovo l’opinione pubblica addosso, come nei due casi precedenti. Troverò il modo di farti partecipare, anche indirettamente. Non mi abbandonare. Ora vado. A domani.»

    La portiera della volante si chiuse e la macchina sgommò.

    3 Quindici giorni prima.

    Roma. 3 maggio, ore 11,50.

    L’auto della polizia era ferma davanti al T3 dei voli internazionali dell’aeroporto Fiumicino di Roma. Il volo da Oslo che li interessava era atterrato da pochi minuti. I due poliziotti, un uomo e l’affascinante collega, notarono la persona e gli andarono incontro. Aveva solo due bagagli. Era alto, età apparente quarantotto anni. Emanava un fascino discreto, che non passò inosservato alla poliziotta. L’aspetto non era come se lo immaginavano. Contrariamente alle origini nordiche, era moro, dai lineamenti latini. Gli occhi scuri e grandi si chiudevano in un taglio stretto, sollecitati dai raggi di sole. La donna fu colpita da quello sguardo. Il naso era leggermente pronunciato e la bocca carnosa. Un piccolo neo adornava la guancia destra. Era bello ed elegante. L’uomo indossava un vestito nero, con una camicia bianca senza cravatta e scarpe nere, ben lucidate. I capelli erano corti e scuri, con una leggera riga naturale a sinistra. I due agenti gli andarono incontro.

    «Il dottor Jorgen Eykenbrock?» Chiese il poliziotto.

    «Sì, sono io.»

    «Agente Donato Garitta. Ci segua, la macchina è qui fuori.»

    «Piacere di conoscerla dottor Eykenbrock, sono l’agente Valentina Mancini.» Fece l’altro agente.

    «Il piacere è tutto mio.»

    Un accenno di rughe gli comparve sul volto sorridendo.

    I tre s’incamminarono in direzione di Roma. Li attendeva il traffico caotico della città. Il Mac Donald’s di piazza della Repubblica, dov’era stato accompagnato dai due agenti, era l’ultimo posto dove avrebbe immaginato di essere condotto. Era lì per incontrare un amico. Il commissario della questura di Roma Claudio Berardi, lo aspettava per pranzo. Mangiava sempre al fast food, appena poteva. Si erano conosciuti tanti anni prima ad Amburgo, a un convegno internazionale sulla criminologia. Berardi era più grande di un anno del suo collega, leggermente più basso, ma più corpulento. Il suo peso era inversamente proporzionale

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