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Quel poeta a Santiago
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E-book127 pagine1 ora

Quel poeta a Santiago

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Info su questo ebook

Francesco Selina è un giovane poeta che nel 1973 si trasferisce a Roma

in Trastevere. Va a vivere in una boheme piccola e malridotta. Frequenta

la borghesia della capitale e i suoi artisti; vive l'ambiente operaio

del partito socialista fra contraddizioni politiche e sociali. Conosce,

all'inizio di quella bella estate in Piazza Navona e dinanzi alla

Fontana del Moro, una giovane donna. E' Irma Elena Sanchez figlia

dell'ambasciatore cileno in Italia. Fra i due nasce un profondo amore. I

fatti del Cile, guidato da Salvador Allende socialista, diventano

drammatici e vanno ad intrecciarsi con la vita dei due giovani.

Francesco viene inviato dal quotidiano socialista a Santiago per dei

reportage. Sposa Irma Elena virtualmente a Roma in San Luigi dei

Francesi e poi in Santiago. Gli eventi, in quei mesi, diventeranno

tragici e tragico sarà il destino dei due innamorati e del popolo

cileno.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2021
ISBN9791220324601
Quel poeta a Santiago

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    Anteprima del libro

    Quel poeta a Santiago - FRANCESCO SALAMINA

    1973

    Dalla stazione Termini, con una valigia vecchiotta, mi diressi a piedi verso Trastevere. Era il mese di gennaio del 1973. Daniele mi aspettava sull’isola Tiberina. Mi aveva comunicato, per telefono, che era pronta una camera in via della Luce. L’aveva affittata per venti mila lire al mese. Ci incontrammo e respirai quell’aria di dolce nostalgia. Una porta sgangherata senza numero civico. Daniele mi guardò e disse:

    «Per poche lire, amico mio, cosa ti aspettavi.»

    «Ti ringrazio.»

    «Vedrai la stanzetta è assolata e per il bagno non è proprio…»

    «Va bene! Grazie.»

    Salimmo una scala buia e ci fermammo dinanzi ad una porta dalla quale trasudava un lezzo di urina, di umido, di freddo. Aprimmo con una chiave e lo spazio della casetta, se così si può dire, misurava quattro metri per quattro. Un balconcino che subito aprimmo. In un angolo, con una porticina di legno, una tazza e un lavandino sporchi. Trasalii. Al centro un lettino cigolante, un tavolo e una sedia. L’armadietto era quasi rassicurante in quel delirio. Daniele andò via e mi distesi sul materasso umido. Scesi sulla via; vidi una salumeria con casalinghi in vetrina.

    «Non la conosco?»

    «Abito…»

    «Ah! L’inquilino della sora Matilde. Vedova sa!»

    «Mi dia dei detersivi, della candeggina, del prosciutto, una birra e del pane. Grazie.»

    Strofinai, illudendomi di far pulizia e mangiai. Mi addormentai fra lenzuola lise ma pulite. Il mattino, il cielo era grigio e il balconcino si aprì cigolando. In basso, la gente rumoreggiava nella parlata romanesca. In un angolo, una cucinetta con bombola a gas e qualche tegame. Non avevo né latte né caffè. Scesi, dopo essermi vestito alla meglio ed entrai in un bar. Il tepore del locale, il profumo dei cornetti, mi fecero riprendere. La gente mi salutava, rispondevo e nel frattempo pensavo a come potermi lavare. Nessuna doccia in quella stamberga, rientrai e trovai la sora Matilde. La donna rese quasi vivibile quella tana.

    «Per la doccia venga da me, sono qui di fianco.»

    «Grazie signora.»

    Le consegnai le venti mila lire più altre venti per la caparra che non voleva, ma io insistetti. La sora Matilde era cordiale, aveva forse trentacinque anni ed era bruna, sensualissima. L’idea della bohème si imponeva come una necessità. Perché? Perché dovevo scrivere, quasi fosse una chiamata. Una chiamata simile a quella di San Matteo nella Vocazione del Caravaggio. Sentivo anch’io quell’indice del Signore su di me come se fossi un eletto e mi convinsi tanto da lasciare i privilegi e le mie possibilità future. Le parole di mio padre… che avrei fatto buona cosa a far carriera nel partito (il partito socialista) o ad aprirmi uno studio da commercialista e che quei dannati romanzi e quelle inutili poesie mi avrebbero dato grane e miseria. Nel guardarmi intorno, il suono di quelle parole ebbe un effetto inverso. Avrei resistito! E intanto avevo bisogno di denaro e dovevo studiare, studiare ancora ma in tutt’altro campo e tutt’altra azione. Uscii sul balconcino e respirai profondamente. Dall’angolo vidi arrivare Daniele, la via della Lungaretta, dove aveva un negozietto d’antiquario, era a pochi passi. Mi offrì una collaborazione, avrei dovuto tenergli la contabilità, a malincuore accettai perché quella dannata partita doppia, le fiscalità e quant’altro le odiavo. Come avevo fatto a laurearmi in quelle discipline? Chiusi gli occhi e mi apprestai a nuotare il senso inverso del fiume. Avevo, nel gennaio 1973, ventisette anni, avvertivo un distacco preoccupante per gli eventi che si andavano definendo nella capitale. Ero entrato, un pomeriggio, nella sezione del Partito Socialista di Trastevere, portavo con me le tessere di iscrizione e per la mia età erano veramente tante. Mio padre, vero e straordinario compagno, mi iscriveva ogni anno nella sezione della nostra città e lo aveva fatto da quando avevo sette anni, per cui risultavo essere a 27 anni, un compagno anziano. Il segretario mi accolse con entusiasmo e poi… un dottore in Economia sarebbe stato utile! I miei primi amici romani furono i socialisti di quella sezione: operai, artigiani, bancarellari, contadini e qualche studente.

    Il primo di gennaio del 1973, la Comunità Europea si allargò a 9 membri (Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca).

    Compagno che ne pensi della Comunità? E poi un governo di sinistra: comunisti e socialisti, potrebbe realizzarsi solo con la rivoluzione!

    La rivoluzione è nella crescita culturale, compagno: leggete! Fate studiare i vostri figli! Vi reciterò presto i versi di Federico Garcia Lorca ucciso dai fascisti nel 1936.

    Cominciai così a sentirmi parte di quella straordinaria visione che era Roma, anche se scontri, scioperi e crisi di governo stavano generando pericolose tensioni. Intanto avevo, in quel mese, cominciato a scrivere un libro di poesie, Diario Romano, in terzine. Mi andavo convincendo che l’insieme lirico, condotto in prima persona, orientava verso l’indifferenza e la bellezza parnassiana, oltre che l’abbandono del noi. Grave per un socialista, mi pareva; in ogni caso il lavoro andava avanti, mentre scoprivo i magnifici misteri di quella Roma, città-poesia. Trastevere era il rione nel quale vivevano molti artisti, si incontravano in una trattoria Da Vincenzo in via dei Vascellari. Vi arrivavo facilmente da via della Luce, imboccando via dei Genovesi. Una sera, verso le due di notte, un cameriere disse, indicandomi, che avevo una buona voce. Mi costrinsero a recitare e mi costrinsero a credere ancor di più. Nel mese di febbraio cominciai a consolidare la mia precaria situazione economica. Non potevo certo vivere con le 15 mila lire di Daniele. Così, chiesi al segretario della sezione, di poter impartire lezioni private ai figli dei compagni. Risposero in molti. Mi riempirono, dopo un mese, di derrate alimentari e qualche decina di migliaia di lire, quella offerta mi riequilibrò. Carne, pesce, frutta e ortaggi li passavo alla sora Matilde per la conservazione, aveva un vecchio frigorifero, e per la cucina. Iniziammo così a pranzare insieme. Un’altra risorsa la trovai in due chiese: San Luigi dei Francesi e Santa Maria del Popolo, contrattai 30 mila lire al mese con il clero, per assistere i turisti nella lettura complessa delle famosissime tele del Caravaggio. Nell’insieme riuscii a guadagnare 60 mila lire al mese più gli alimentari. Ero contento ed ero anche contento dei miei lavori. Il libro di poesie lo arricchii di un’altra sezione: Verso il cielo del leone, metafora dell’ascesi verso la poesia. Uno stralcio lo inviai ad un editore del nord. Verso la fine del mese, in verità il 2 di febbraio, la Camera dei deputati decise di reintrodurre il fermo di polizia. Manifestazioni ed incidenti portarono alla morte di un extraparlamentare di sinistra, la città fu blindata e si vedevano poliziotti ovunque. La gente surriscaldava preoccupazioni e insicurezza. Mi trovavo, quel giorno, sulla via di S. Cecilia che porta nella piazza omonima, nessuno l’attraversava alle 7 del mattino, avevo comprato in un’edicola Unità e Avanti e li stavo sfogliando, quando due energumeni mi si affiancarono:

    «Dove vai compagno? Hai letto questa carta straccia, ti ci devi pulire…!»

    Con un accendino ne fecero una fiammata.

    «Viva il duce!»

    Esclamarono facendo il saluto fascista, estrassero una pistola e me la puntarono alla tempia, alcuni passanti urlarono. Da via dei Genovesi veniva, offrendo la sua merce su un carretto, un compagno della sezione, che resosi conto della drammaticità del fatto, si scagliò furibondo sui due con tutta la merce. I fascisti spararono e mi ferirono di striscio ad una spalla, mentre la folla riempiva la piazza. Li strinsero in una morsa e una donna sputò loro in viso, stavano soffocando nella stretta del linciaggio quando una pattuglia li salvò. Fui portato all’ospedale e me la cavai con quindici giorni di prognosi. Era la tensione che si viveva nel paese, anche perché il 9 di febbraio si erano fatte sentire le Brigate Rosse, avevano sequestrato un sindacalista della CISNAL, a Torino. Lo scontro, sinistra e destra, si stava così acuendo e in quella giornata romana, ne subii le conseguenze. L’evento finì sui giornali e in televisione e ci volle molto per convincere i miei genitori a non venire a Roma. Mi precipitai,

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