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Tutte le poesie e i capolavori in prosa
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Tutte le poesie e i capolavori in prosa
E-book2.007 pagine25 ore

Tutte le poesie e i capolavori in prosa

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Info su questo ebook

• I Fiori del Male • I relitti • Poesie diverse • Amoenitates belgicae • Lo Spleen di Parigi • Paradisi artificiali • La Fanfarlo • Scritti intimi

A cura di Massimo Colesanti
Edizioni integrali con testo francese a fronte

Charles Baudelaire, tra i poeti oggi più amati e letti, ha rinnovato con grande originalità i canoni tradizionali della poesia e della prosa gettando le basi della letteratura moderna. I suoi versi – come disse Valéry – sono un mélange di solennità, di calore e di amarezza, di eternità e di intimità, una combinazione di carne e spirito, un’alleanza rarissima della volontà e dell’armonia.Minato fin dall’infanzia dalle contraddizioni più laceranti – l’orrore e l’estasi della vita, il sentimento di un destino d’irrimediabile solitudine e l’amore vivissimo del piacere –, Baudelaire s’inebria e si disgusta nella onnipresente alternativa tra il Bene e il Male, tra voluttà animalesca e disincarnazione. Su tale dilemma, su tale tremenda ambiguità costruisce la sua straordinaria scrittura, passando continuamente dal quotidiano all’universale, dalla pienezza della gioia alla miseria, al nulla. In questo volume sono state raccolte tutte le sue opere “creative”, con testo francese a fronte: I Fiori del Male e tutte le poesie, i poemetti in prosa de Lo Spleen di Parigi, la novella La Fanfarlo, i Paradisi artificiali e gli Scritti intimi.

Charles Baudelaire
nato a Parigi nel 1821, a soli diciannove anni abbandonò la famiglia e iniziò una vita sregolata e bohémienne, segnata anche da difficoltà economiche e dall’uso dell’alcol e delle droghe. Partecipò alla rivoluzione del ’48, ma presto si allontanò dagli ideali socialisti. Tra il 1864 e il 1866 visse in Belgio. Morì a Parigi nel 1867. La Newton Compton ha pubblicato il volume Tutte le poesie e i capolavori in prosa e I Fiori del Male e tutte le poesie e Paradisi artificiali anche in volumi singoli.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854141766
Tutte le poesie e i capolavori in prosa
Autore

Charles Baudelaire

Charles Baudelaire, né le 9 avril 1821 à Paris et mort dans la même ville le 31 août 1867, est un poète français.

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    Anteprima del libro

    Tutte le poesie e i capolavori in prosa - Charles Baudelaire

    378

    Titoli originali: Les Fleurs du Mal, Les E´ paves, Poésies diverses, Amoenitates belgicæ,

    Le Spleen de Paris, Paradis artificiels, La Fanfarlo, E´ crits intimes.

    Traduzioni di Massimo Colesanti (La Fanfarlo, Scritti intimi), Sergio De La Pierre

    (Del vino e dell’hashish e Il poema dell’hashish da Paradisi artificiali), Paolo Guzzi

    (Un mangiatore d’oppio da Paradisi artificiali), Claudio Rendina (I Fiori del Male,

    I relitti, Poesie diverse, Amoenitates belgicæ, Lo Spleen di Parigi).

    Prima edizione ebook: novembre 2012

    © 1998 Newton & Compton editori s.r.l.

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4176-6

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Charles Baudelaire

    Tutte le poesie

    e i capolavori in prosa

    I Fiori del Male - I relitti - Poesie diverse

    Amœnitates belgicae - Lo Spleen di parigi

    Paradisi artificiali - La Fanfarlo - Scritti intimi

    A cura di Massimo Colesanti

    Edizione integrale con testo francese a fronte

    Newton Compton editori

    A Giovanni Macchia

    al maestro impeccabile

    di studi baudelairiani

    all’amico di tanti anni

    nella Sapienza di Roma

    Introduzione

    1. Situazione di Baudelaire

    Per leggere, per comprendere Baudelaire, occorre anzitutto rendersi conto del posto ch’egli occupa nella storia della poesia, non solo francese. Non certo per ubbidire a più o meno validi metodi storicistici, ma perché la critica, da quella più lontana a quella più vicina, ha resistito sempre meno alla tentazione di definirlo in un confronto negativo con il Romanticismo, per accentuarne il distacco, e mostrarne tutta l’originalità. In realtà, la sua opera si è rivelata sempre più chiaramente, e in tempi non molto lontani, una pietra miliare nel cammino della poesia moderna, e si è come inverata nei poeti venuti dopo di lui, autorizzando una specie di processo contro l’epoca precedente. Già Sainte-Beuve, suggerendo fra mille timori e sospetti alcuni «petits moyens de défense» per ribattere la pubblica accusa contro le Fleurs du Mal, impostava il discorso in questo modo: «Tout était pris dans le domaine de la poésie. Lamartine avait pris les cieux, Victor Hugo avait pris la terre et plus que la terre. Laprade avait pris les forêts. Musset avait pris la passion et l’orgie éblouissante. D’autres avaient pris le foyer, la vie rurale etc. Théophile Gautier avait pris l’Espagne et ses hautes couleurs. Que restait-il? Ce que Baudelaire a pris. Il y a été comme forcé».¹ E qui sembra che Baudelaire sia arrivato buon ultimo dopo un lauto banchetto, e abbia dovuto accontentarsi di quello che gli hanno lasciato (quasi delle briciole), agendo in uno stato di necessità, e producendo dunque una poesia strana, diversa, insolita. Ed è ancora Sainte-Beuve a parlare altrove di «folie Baudelaire», di un chiosco singolare eretto all’estrema punta «du Kamtchatka romantique». Più sottile, ma in sostanza analoga, l’argomentazione di Valéry (ripresa, fra gli altri, anche da Benjamin), in un celebre saggio intitolato appunto Situation de Baudelaire: il problema che Baudelaire dovè porsi, coscientemente ο inconsciamente, fu quello di essere un grande poeta, ma dì non essere né Lamartine, né Hugo, né Musset. Tale proposito fu la sua stessa ragion d’essere, anzi la sua raison d’Etat, che lo costrinse a opporsi sempre più recisamente al sistema, ο all’assenza di sistema, che si chiama Romanticismo. E Valéry si confortava nella sua convinzione citando le parole di Baudelaire, in uno dei progetti di prefazione alle Fleurs du Mal, e che riecheggiano in parte quelle di Sainte-Beuve:

    Des poètes illustres s’étaient partagé depuis longtemps les provinces les plus fleuries du domaine poétique. Il m’a paru plaisant, et d’autant plus agréable que la tâche était plus difficile, d’extraire la beauté du Mal.²

    La situazione di Baudelaire appare senz'altro, oggi, più complessa. Forse non basta nemmeno dire, come precisa più avanti Valéry, che egli è in una posizione di equilibrio, e che i suoi versi si distinguono da quelli romantici come da quelli parnassiani, per una combinazione di carne e di spirito, un mélange di solennità, di calore e di amarezza, di eternità e di intimità, un’alleanza rarissima della volontà e dell’armonia. Rispetto alle scuole del suo tempo, alle tendenze più vistose della poesia, egli si pone certo al centro, ma proprio perché tutte le riunisce e le comprende. E le trasforma. E già significativo che combatta l’ «école païenne» in nome della tradizione più recente, e del Romanticismo, cioè di un’arte moderna (e l’equazione «Romantisme-art moderne» è da lui posta e difesa fin dal Salon de 1846), sostenendo che rinnegare gli sforzi della società precedente, «chrétienne et philosopique», equivalga a un suicidio. Come è altrettanto importante che egli detesti gli sdilinquimenti del sentimento, il verbiage impastato di lacrime, sottratto a ogni rigore espressivo. In altri termini, è con il beneficio d’inventario parnassiano ch’egli accetta l’eredità romantica, che è però una accettazione totale, non limitata all’asse più evidente, quello effusivo e sentimentalistico, e tuttavia estremamente lirico - dove se mai egli opera le sue scelte più severe (pensiamo alla sua avversione per Musset, e anche per Lamartine, che tuttavia imitò qualche volta) - ma che comprende tutte le clausole e i codicilli testamentari, i legati in apparenza più trascurabili, risorse sotterranee, dimore misteriose ο allucinanti, gioielli, fantasmi e sortilegi. Non vogliamo dire, semplicisticamente, che Baudelaire non sarebbe stato senza il Romanticismo, ma nemmeno, con eguale se non con maggiore semplicismo, ridurre la sua situazione a un processo generazionale assai comune e scontato. E anzitutto quale Romanticismo? E nota la ricchezza del fenomeno, la molteplicità e la vastità dei suoi fermenti, delle sue proposte, delle sue soluzioni, anche contraddittorie. E d’altra parte non tutta la poesia, la grande poesia romantica francese, è oggi riducibile ai nomi più prestigiosi che citava Sainte-Beuve, e che confermava ancora Valéry. Sospetta per esempio è l’assenza di un Vigny, un poeta che Baudelaire ammirava per molti motivi (e per la stessa concezione aristocratica della poesia), come ammirava, per evidenti affinità, Nerval, lo stesso Sainte-Beuve, e alcuni fra i «petits romantiques», da Alphonse Rabbe a Pétrus Borei. E così, se si vuole allargare il discorso ad altri settori letterari, è indubbio che egli ha ricavato illuminanti indicazioni per il suo concetto di modernità, dell’arte e della vita, da altri grandi scrittori romantici, e non solo francesi. Innegabili consonanze ha avvertito ο ritrovato nel dandysme di Chateaubriand, nel misticismo reazionario di Joseph de Maistre, nella critica appassionata, e parziale , di Stendhal, nella commedia visionaria di Balzac. Come, per altri versi, dalle traduzioni-rielaborazioni delle opere di Poe e delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di De Quincey (raccolte, quest’ultime, nei suoi Paradis artificiels), ha tratto suggestioni, incentivi, conferme della sua poetica e perspicaci scandagli per il suo gouffre interiore.

    Se mai egli si oppone al Romanticismo (e può sembrare un paradosso) perché, in un’opera di concentrazione e di riduzione, ne assume drammaticamente in sé tutta la portata dialettica, interiorizzata in contrasti laceranti, m sintesi densa e aggrovigliata di elementi contrapposti, di antinomie irriducibili, senza alcuna via d’uscita al di fuori di quello stesso mondo poetico in cui vengono proiettate e sofferte. Di «individualismo esasperato», di «sensibilità continuamente contratta», parlò già De Lollis nel suo bel saggio su Baudelaire. E sintomatica, nei suoi Scritti intimi, la nota iniziale di Mon cœur mis à nu:

    De la vaporisation et de la centralisation du Moi. Tout est là (I, 1).

    Direi che Baudelaire ha portato sino infondo questa centralisation dell’io, e tragicamente, spietatamente. In definitiva, il più grande poeta lirico, e lucido, cosciente, che il Romanticismo abbia prodotto, è proprio Baudelaire. Degli slanci, delle evasioni, delle rivolte che il vitalismo romantico aveva caoticamente agitato, egli ripercorre, saggia, alterna aspetti, proposte e soluzioni, ma nel taglio obliquo di un’inesorabile resa dei conti, che fra bilanci provvisori e pareggi precari non nasconde mai lo stato fallimentare in cui si ricade dopo ogni tentativo, la vana attesa di qualcosa che ci liberi e ci esalti prima e anche dopo la morte:

    J’étais comme l’enfant avide du spectacle,

    Haïssant le rideau comme on hait un obstacle...

    Enfin la vérité froide se révéla:

    J’étais mort sans surprise, et la terrible aurore

    M’enveloppait. - Eh quoi! n’est-ce donc que cela?

    La toile était levée et j’attendais encore.

    (Le Rêve d’un curieux)

    I poeti più illustri, ma anche i minori, che lo hanno immediatamente preceduto, ο che sono i suoi contemporanei, e amici, hanno risolto prima ο poi dissidi e inquietudini (anche se fra illusioni e compromessi): il progresso, la scienza, il filantropismo, la funzione della poesia, la pura forma del Bello, sono stati le loro consolazioni , anche al di là del conforto stesso della parola, della poesia. Essi hanno fatto le loro scelte, fra Dio e Satana, il trionfalismo e la bestemmia, il sogno e l’azione. In Baudelaire il dilemma essenziale si ripropone di continuo, con caratteri più angosciosi e definitivi, per la coesistenza, la contemporaneità e la pari forza dei due termini, che egli avverte nello spazio veridico della sua coscienza, e per l’appercezione chiarissima ch’egli ha della condizione bloccata dell’uomo nella spirale stretta, inesorabile, e voluttuosa, del Male. Scrive ancora in Mon cœur mis à nu:

    Il y a dans tout homme, à toute heure, deux postulations simultanées, l’une vers Dieu, l’autre vers Satan. L’invocation à Dieu, ou spiritualité, est un désir de monter en grade; celle de Satan, ou animalité, est une joie de déscendre (XI, 19).

    E in questa alternativa onnipresente e ineliminabile, fra la voluttà animalesca e la disincarnazione, che Baudelaire s’inebria e si disgusta, con il senso preciso della sua impossibilità di abolire l’una ο l’altra delle due postulazioni. Di qui le contraddizioni che lo minano fin dall’infanzia, l’orrore e l’estasi della vita, il sentimento di un destino d’irrimediabile solitudine, e l’amore vivissimo del piacere, con la certezza della vanità di ogni sforzo per sottrarvisi, e dell’ennui che riprende presto il sopravvento. Una situazione senza divagazioni elegiache, valvole di sicurezza, ο àncore di salvezza da gettare in porti tranquilli: Baudelaire stringe il suo problema nella stessa misura in cui ne è continuamente avvinghiato, senza effusioni ο diluizioni descrittive, sfoghi autobiografici strepitosi ο lamentosi, anche se sono pochi i libri in cui, come nelle Fleurs du Mal, ogni verso, ogni parola, s’immetta subito su linee di forza centripeta che riconducono a una vicenda umana perfettamente caratterizzata. E chiaro che non è possibile ridurre questo divario, questo dualismo, come pure si è fatto (e direi in modo contingente, e anche meschino), a una questione di tempi e di modi della società costituita in cui Baudelaire è vissuto. Il suo dramma, nella sua origine profonda, non è di carattere temporale, bensì esistenziale; è alla radice stessa dell’esistenza umana, della sua condizione, del ricatto continuo che l’uomo subisce, contemporaneamente, dal piacere, reale, concreto, immediato, del Male, e dall’impulso spirituale verso il Bene, l’Assoluto, Dio. E poi, se questo è il suo dramma, con la morale, con la visione del mondo che ne derivano, non è certo esso l’aspetto più significativo e originale dell’arte di Baudelaire, che è invece il modo in cui egli ne ha fatto poesia. La morale di Baudelaire, a ben vedere, è comune a tanti altri scrittori, anche suoi contemporanei. Sono le forme, le pieghe formulari in cui egli l’ha calata e incarnata, soffrendola, che oggi ci possono interessare. In altri termini, è il modo in cui egli, nei suoi versi, nei suoi poemetti in prosa, in altri scritti, pubblici e intimi, ne ha fatto poesia, e in perfetta e lucida coscienza; che è coscienza anche di un rapporto nuovo, originale, drammatico, con la poesia stessa. E la morale costruita in date forme, immagini, allegorie, in emblemi di vita, di felicità, di illusione ο di disperazione, e sul piano universale di vari temi (la condizione, sofferta eppure gratificante, del poeta; la donna e l’amore; il paesaggio, la città; e l’evasione, la religione, la rivolta, la Morte), che oggi ancora possono avvincerci, non la morale naturale, direi, sociale ο filosofica, in esclusiva opposizione al proprio tempo, pur se disprezzato e odiato.

    2. Un verso drammatico

    Una prima verifica di questa situazione si può cercare nel verso, nella lingua, nella scrittura. Il verso di Baudelaire, così tradizionale e classico, nell’uso quasi costante dell’alessandrino, lontano dalle acrobazie e dalle spezzature di un Hugo e di un Banville, ma certo assai romanticamente articolato, è per questo più denso, più teso, anche più solenne, nella stretta misura, nella sintesi anche formale che spesso s’impone. Non meraviglia che delle centoventisette poesie raccolte nella seconda edizione (1861) delle Fleurs du Mal, i sonetti, regolari e più spesso irregolari, siano quasi la metà, e molte altre non superino i sedici ο i venti versi. In questa tensione, nei chiasmi, nelle antitesi, negli ossimori, che così spesso solcano la sua poesia come il bagliore intermittente di una corrente alternata, e che hanno tutt’altro che una funzione meramente retorica (si pensi allo stesso titolo, Les Fleurs du Mal), si esprime una realtà intermedia e tragica, fra la tentazione del gouffre e il riscatto ideale nell’Assoluto. Ci sono poesie, specie nella prima sezione delle Fleurs, e che del resto nel titolo Spleen et Idéal già annuncia un contrasto, in cui interamente si manifesta questo dualismo, e in un senso ο nell’altro: per esempio in Elévation, con la sua apertura spiritualistica, ο nella quarta delle poesie intitolate Spleen, che esprime così terrìbilmente Videa di stagnazione, di marasma, di angoscia paralizzante (e se ne veda la magistrale interpretazione di Auerbach). Ma più spesso è all’interno della stessa lirica, della stessa frase, dello stesso verso, musicalmente e significativamente bilanciato, che questa ambiguità tremenda si ripercuote. Anche nelle strofe, nei versi più cupi e più ampi, di quelli che Gautier definiva «immensi», c’è a volte come uno squarcio luminoso che sembra non chiudere in tutto la situazione disperante. Un aggettivo, un verbo, che rimanda rapidamente a un altro livello della realtà, ο che muta improvvisamente registro, passando dal quotidiano all’universale, dalla pienezza della gioia alla miseria, al nulla, ο viceversa emergendo dalla «volupté noire», e dallo spleen, alla luce dell’«inaccessible azur»:

    Ma jeunesse ne fut qu’un ténébreux orage, Traversé çà et là par de brillants soleils.

    (L’Ennemi)

    Le tombeau, confident de mon rêve infini...

    (Remords posthume)

    Plaisirs, ne tentez plus un cœur sombre et boudeur!

    (Le Goût du néant)

    Laissez, laissez mon cœur s’enivrer d’un mensonge.

    (Semper eadem)

    Un cœur tendre qui hait le néant vaste et noir!

    (Harmonie du soir)

    L’immense majesté de vos douleurs de veuve.

    (Le Cygne)

    C’est la Mort qui console, hélas! et qui fait vivre.

    (La Mort des pauvres)

    Un’impressione di luce fosca, di colori netti ma lividi, di un fremito contenuto, quasi neutralizzato in una forma vigorosa e flessibile, come di chi coglie dentro di sé la verità più atroce, e al tempo stesso si sforza di contemplarla dal di fuori, e di esprimerla con obiettività e lucidità (e lo vide benissimo Proust). E la situazione delle due celebri quartine conclusive di L’Irrémédiable, quasi emblematiche di tutta la poesia di Baudelaire:

    Tête-à-tête sombre et limpide

    Qu’un cœur devenu son miroir!

    Puits de Vérité, clair et noir,

    Où tremble une étoile livide,

    Un phare ironique, infernal,

    Flambeau des grâces sataniques,

    Soulagement et gloire uniques,

    - La conscience dans le Mal!

    Ed è una situazione dì compiacimento negativo dell’ orribile, della depravazione, che porta Baudelaire a descrizioni, obiettive e allegoriche, di tanti spettacoli macabri, turpi, osceni. Osservava ancora Gautier che, per la stessa novità delle cose descritte, occorreva che Baudelaire si creasse una lingua, un ritmo, una tavolozza; e aggiungeva egli stesso pennellate magistrali su questo «style de décadence»: «Pourpeindre ces corruptions qui lui font horreur, il a su trouver ces nuances morbidement riches de la pourriture plus ou moins avancée, ces tons de nacre et de burgau qui glacent les eaux stagnantes, ces roses de phthisie, ces blancs de chlorose, ces jaunes fielleux de bile extravasée, ces gris plombés de brouillard pestilentiel, ces verts empoisonnés et métalliques puant l’arséniate de cuivre, ces noirs de fumée délayés par la pluie le long des murs plâtreux, ces bitumes recuits et roussis dans toutes les fritures de l’enfer si excellents pour servir de fond à quelque tête livide et spectrale, et toute cette gamme de couleurs exaspérées poussées au degré le plus intense, qui correspondent à l’automne, au coucher du soleil, à la maturité extrême des fruits, et à la dernière heure des civilisations».³

    3. La donna, mito ambiguo

    Nell’amore, nella donna, Baudelaire ha cercato ossessivamente quell’alterità complementare in cui realizzarsi nel possesso completo. Ma è proprio qui che egli ha fatto le verifiche più amare, e non certo imputabili soltanto ad accidentali delusioni ο fiaschi. E su un piano più generale che egli decompone questo mito, che tale rimane anche per lui, fino alle elevazioni più sublimi, ma che al tempo stesso viene smascherato, rovesciato, portato al livello più infimo. Specialmente nelle sue note intime, dei suoi ultimi anni di vita, egli avverte con lucida amarezza che l’amore, «besoin de sortir de soi», «d’oublier son moi dans la chair extérieure»⁴, non è che prostituzione, mentre I’artista non esce mai da se stesso, resta se stesso, nella sua solitudine, ma anche nella sua grandezza e gloria.

    Tuttavia, nella sua poesia, e in altri suoi scritti, egli riesce a concentrare sulla donna il massimo possibile di carnale voluttà e di gioia spirituale. All’idea di femminilità associa una vasta gamma di sensazioni che moltiplicano il godimento, e tendono a fermarlo, a bloccarlo in uno spazio chiuso e saturo. Profumi, gioielli, vestiti, arredi, immergono la donna in un clima di artificialità, perché debbono sottrarla alla sua natura istintiva, e alla sua precipua funzione, per farne un essere «étrange et symbolique». Per Baudelaire la «froide majesté de la femme stérile» risplende come un astro inutile, come la stessa Bellezza, stupenda e superflua, dalle forme ampie, statuarie, magnifiche, armonica e simmetrica, spesso di una simmetria in movimento (Le Beau Navire). E si leggano i capitoli sulla donna, e l’elogio del maquillage, nel Peintre de la vie moderne. Questa idealizzazione, che è anche idoleggiamento, giunge in Baudelaire alle posizioni più estreme, di angelicazione e di santificazione («Je suis l’Ange gardien, la Muse et la Madone»), fino a vedere negli occhi della donna amata più della stendhaliana «promesse de bonheur», ma anzi la certezza di un riscatto:

    Charmants Yeux, vous brillez de la clarté mystique

    Qu’ont les cierges brûlant en plein jour; le soleil

    Rougit, mais n’éteint pas leur flamme fantastique;

    Ils célèbrent la Mort, vous chantez le Réveil.

    (Le Flambeau vivant)

    E che questi versi siano stati scritti, come altre poesie dello stesso ciclo, per Mme Sabatier, cioè per una donna in particolare, non sposta il problema: Baudelaire ha visto la donna anche sotto tale aspetto, e in questa sua volontà di spiritualizzazione dell’amore, cioè nel volerne cogliere «l’essence divine», egli ha potuto trovare ed esprimere, in alcuni momenti, il modo e l’illusione di vincere /’ennui, il Tempo, la Morte. Pensiamo alla dolce malinconia di La Mort des amants ο alla forza spiritualistica che si sprigiona alla fine del percorso pur così realistico e macabro di Une charogne, così come a tanti altri momenti di serenità, di armonia che non è poi così raro incontrare fra le poesie, e non solo d’amore (Parfum exotique, Le Balcon, Harmonie du Soir ecc.).

    Ma tali concetti e immagini ricevono altrove le più recise smentite, e specie nelle sezioni conclusive delle Fleurs du Mal. Non pensiamo alle molte poesie in cui l’attrazione si muta in disprezzo, l’amore in odio, la lode in invettiva, secondo le alterne vicende di ogni passione (e secondo tradizioni letterarie assai note, vicine e lontane); e nemmeno all’«amour du mensonge», altro effetto possente del femminino. Ma ai caratteri torbidi, ambigui, malefici della donna, e della voluttà, dello stesso atto erotico, che Baudelaire avverte in maniera sempre più inequivocabile e definitiva (e che oggi troverebbero poche attenuanti in un tribunale femminista). Egli concentra anche qui alcuni precisi filoni più ο meno occulti della letteratura romantica, dal satanismo al sadismo, che anzi esplicita in equazioni evidenti, e polarizza intorno al concetto che la Voluttà non è tanto il Male, il peccato (cioè la voluttà del peccato, della cosa proibita); ma consiste nel piacere e nella certezza di fare il Male. Di qui l’amore considerato come una tortura, ο un’operazione chirurgica - evidente la suggestione di Sade - sempre con uno che agisce e l’altro che subisce, un carnefice e una vittima, e non solo nell’incidentale connubio (si pensi a Une martyre). Di qui anche il suo disprezzo per la donna come istituzione naturale, come un avversario di cui godere seviziandolo, come un essere che si può tanto più amare quanto più ci è estraneo. Dice in una Fusée che amare le donne intelligenti è «un plaisir de pédéraste». E d’altra parte il suo dandysme, quale culto di una distinzione assoluta, sublime, controllata nel suo orgoglio, nella sua rivolta di casta provocatoria che esclude ogni forma di trivialità, doveva fargli considerare la donna come l’esatto contrapposto di se stesso. In Mon cœur mis à nu il mito è così freddamente e spietatamente stroncato:

    La femme est le contraire du Dandy. Donc elle doit faire horreur. La femme a faim et elle veut manger. Soif, et elle veut boire. Elle est en rut et elle veut être foutue. Le beau mérite! La femme est naturelle, c’est-à-dire abominable. Àussi est-elle toujours vulgaire, c’est-à-dire le contraire du Dandy (III, 5).

    E altrove si meravigliava che si lasciassero entrare le donne in chiesa: di che cosa potevano parlare con Dio, dato che «l’éternelle Vénus (caprice, hystérie, fantaisie) est une des formes séduisantes du Diable»? (XXVII, 48).

    Nelle Fleurs du Mal, ma anche in alcuni poemetti dello Spleen de Paris, questo antimito si traveste in numerose allegorie, riprese anche sulla tematica del macabro e del fantastique (già abbastanza sfruttata dai «petits romantiques», e da Gautier), e in un linguaggio ora blandamente ironico, ora più violentemente derisorio e sarcastico: la donna-vampiro (Le Vampire e Les Métamorphoses du Vampire, una delle pièces condannate dal tribunale), la prostituta (Allégorie), la donna-Satana (La Béatrice, riproposta antifrastica e grottesca della donna angelicata, che intercede). La stessa simbologia mitologica viene svuotata e rovesciata: Un voyage à Cythère propone, in un quadro tradizionalmente erotico, immagini di morte, di decomposizione, di castrazione, il dissolvimento di ogni illusione d’amore: il famoso embarquement di Watteau trova qui - mediatore anche Nerval - il suo turpe e tragico risvolto:

    Dans ton île, ô Vénus! je n’ai trouvé debout

    Qu’un gibet symbolique où pendait mon image...

    - Ah! Seigneur! donnez-moi la force et le courage

    De contempler mon cœur et mon corps sans dégoût!

    4. Il paesaggio e la città

    Criteri riduttivi, quasi di eliminazione totale, Baudelaire usa verso il paesaggio, che è tanta parte della più celebrata poesia romantica, non solo francese, ma è come del tutto assente nella sua poesia: boschi, vallate, fiumi, laghi, colline, alberi, paradigmi di dolore, di pianto, di disperazione ο di languore (il salice, la trèmula), niente di tutto questo armamentario naturale, che usurpi e ingombri lo spazio riservato più legittimamente ali’espressione rigorosa della situazione del poeta, anche rispetto alla Natura. Per Videa stessa dell’arte che ha Baudelaire, nella sua «profonda retorica dell’artificiale», come ha detto Macchia (e si veda tutto il primo capìtolo, Artificio e Natura, nel suo libro fondamentale, Baudelaire e la poetica della malinconia), il mito del ritorno alla Natura, e del "buon selvaggio non poteva in alcun modo attecchire. E nota la sua avversione per Rousseau, definito scrittore «sentimental et infâme». In Rêve parisien, per esempio, che traduce simbolicamente gusti e aspirazioni, la vegetazione è preliminarmente abolita, per la sua stessa qualità spontanea, bruta, incontrollata:

    Le sommeil est plein de miracles!

    Par un caprice singulier,

    J’avais banni de ces spectacles

    Le végétal irrégulier.

    Se mai il paesaggio, anche quello vegetale, è come ricreato artificialmente, e quasi sottratto alla sua naturalezza , e per le virtù associative dell’amore, del profumo, e allora si colloca spesso nell’irrealtà di un vago esotismo (Parfum exotique, La Chevelure), in una zona mista d’immaginazione e di ricordi (come ad esempio in A une dame créole, ο in À une Malabaraise, che però non a caso sono fra le poesie più giovanili di Baudelaire; ma si pensi anche al più tardo poemetto in prosa La Belle Dorothée). Oppure ha una funzione allegorica, ed entra nel reticolo di segni, di simboli, di corrispondenze , che il poeta percepisce sotto gli aspetti più abusati della Natura (pensiamo al celebre sonetto appunto delle Correspondances). Ed è anche per questi motivi, legati a ricordi e affetti (il viaggio giovanile all’Ile Bourbon, la sua prediletta casa a Honfleur) che l’elemento naturale più amato da Baudelaire è il mare, per il suo spettacolo sempre infinitamente e instancabilmente bello, e con l’idea che suggerisce d’immensità e di movimento insieme, mutamento continuo in una dimensione infinita, incommensurabile:

    la plus haute idée de beauté qui soit offerte à l’homme sur son habitacle transitoire,

    scrive del mare in Mon cœur mis à nu (XXX, 55, e si vedano anche, per altri simboli e rapporti, L’Homme et la Mer, Mœsta et Errabunda, La Musique e Obsession).

    Ma per questa radicale riduzione nel tessuto paesaggistico di tanta parte della poesia, francese e non francese, nella prima metà del secolo, le rare indicazioni descrittive di Baudelaire si caricano d’una forte tensione evocativa, e strettamente, direi realisticamente lirica. In una delle poche poesie senza titolo delle Fleurs du Mal, «Je’ai pas oublié, voisine de la ville...», il cui dato autobiografico è scopertamente enunciato, e svolto in un unico periodo di dieci versi, quei rapidi tratti, gli scarsi elementi ambientali, quel giardino appena accennato, col sole al tramonto, sembrano esprimere e contenere tutto l’irripetibile fascino del passato, della fanciullezza, l’amore morboso per la madre, nel suo anno di vedovanza, alcuni dettagli impressi per sempre nell’animo col sigillo della malinconia. Non vogliamo parere iconoclasti, ma confessiamo che daremmo, per questi dieci versi, buona parte delle poesie del ricordo , da Lamartine a Verlaine, e tutti i «soleils couchants» di Hugo.

    Ma questo distacco, questo rifiuto anche solo di descrivere, e poi di lodare, di santificare l’innocenza e la purezza della Natura, tanto esaltate da altri (ma anche discusse: penso a Vigny, e anche, per altri versi, a Leopardi), e per luì al contrario così sospette, gravide anzi di atrocità, di istinti orribili e malefìci, ha in Baudelaire anche altre motivazioni, che si collegano direttamente alla sua idea del Romanticismo, come espressione di attualità, di modernità. La Bellezza, e quindi l’Arte, non è soltanto ricerca dell’eterno nell’effimero, cioè di una categoria astratta e immutabile, ma è anche, essenzialmente, espressione di tutto ciò che di transitorio, di fuggitivo, un’epoca presenta, e che l’uomo realizza secondo i suoi gusti attuali. E anche la moda , il costume, il marchio che il tempo imprime nei nostri sentimenti, nelle nostre idee, nella maniera di cercare la felicità (ed è questo un concetto di derivazione stendhaliana). Trascurare ο sopprimere tale elemento significa cadere nel vuoto di una Bellezza indefinibile, «indigestible, inappréciable», scrive Baudelaire nel I capitolo del Peintre de la vie moderne.

    La poesia di Baudelaire s’iscrive in questa dimensione immanente del Tempo e dello Spazio urbano in cui si forma e che riflette, anche se non scade mai nella insignificante futilità di un realismo che abbia scopi estranei alla poesia stessa (il progresso, la politica ecc.). La Parigi del Secondo Impero è la condizione morale e la riserva allegorica della sua arte. Egli ha anche qui immediati punti di riferimento: Sainte-Beuve di Joseph Delorme, per esempio, e, fuori della poesia in senso stretto, per la città come categoria dello spirito ormai connaturata nell’artista che vi vive, e fonte essa stessa di motivi poetici, non si può non pensare almeno a Balzac. Nella potenza intuitiva che Baudelaire esercita sulle persone che il caso gli porta incontro, ο che egli deliberatamente insegue, cedendo alle sue «humeurs fatales», nella osmosi che si attua fra il poeta e la gente della strada (soprattutto nei Tableaux parisiens delle Fleurs du Mal, ο in molti poemetti in prosa, Les Foules, Les Veuves, Les Yeux des pauvres, Le Vieux Saltimbanque), è da riconoscere una specie della «seconde vue» balzacchiana. Per esempio nella celebre evocazione di Parigi, nel Crépuscule du soir, così circostanziata («l’ouvrier courbé», «la cité de fange», teatri, orchestre, cucine, ladri, prostitute), con elementi precisi, ma tutti trasposti a livelli simbolici («démons malsains», «occulte chemin» ecc.). S’impongono soprattutto i contenuti satanici della grande città. Non meraviglia che uno dei progetti di épilogue delle Fleurs du Mal sia tutto incentrato su questo tema:

    Tu sais bien, ô Satan, patron de ma détresse,

    Que je n’allais pas là pour répandre un vain pleur;

    Mais, comme un vieux paillard d’une vieille maîtresse,

    Je voulais m’enivrer de l’énorme catin,

    Dont le charme infernal me rajeunit sans cesse.

    (...)

    Je t’aime, ô capitale infâme! Courtisanes

    Et bandits, tels souvent vous offrez des plaisirs

    Que ne comprennent pas les vulgaires profanes.

    In questo quadro Baudelaire instaura con la città rapporti anche diversi, con intersezioni e scambi di una sua più personale originalità. In un saggio oggi assai noto, Benjamin ha osservato che nella sua poesia si avverte quasi sempre la presenza segreta di una massa, della folla che lo attira e lo respinge, di cui egli si fa complice, e da cui quasi nello stesso istante si distacca. Un rapporto ambiguo, di cui non può sfuggire la modernità - e che può essere ancora una verifica della situazione di Baudelaire rispetto a tutta la realtà dell’esistenza -, ma che egli in certo senso risolve non rinunciando ai suoi privilegi di flâneur, di dandy, che seleziona e fa emergere dalla folla ancora V individuo,v con il suo dramma particolare, le sue stigmate di dolore morale ο fisico ( A une mendiante rousse, Les Aveugles, e ancora molti poemetti in prosa), che fermano il suo interesse morboso. Egli vi riconosce, dopo l’angoscia della vischiosità ο della dissociazione, la sua identità, sia pure nell’attimo di un incontro fuggevole (A une passante), di una simpatia precaria che svanisce presto nell’assenza:

    Ruines! ma famille! ô cerveaux congénères!

    Je vous fais chaque soir un solennel adieu!

    Où serez-vous demain, Èves octogénaires,

    Sur qui pèse la griffe effroyable de Dieu?

    (Les Petites Vieilles)

    Il paesaggio cittadino di Baudelaire non si limita però a questo solo aspetto. Insieme ο in alternativa alla folla che la anima, la città - e non solo nei Tableaux parisiens - è presente anche come struttura artificiale, da cui il poeta si sente oppresso e protetto al tempo stesso, e nel cui interno sempre si percepisce e si controlla, e vi iscrive sogni, visioni, allucinazioni. Nemmeno qui descrizioni minute. Rare le precisazioni toponomastiche (il Carrousel, il Louvre, nel Cygne; Tivoli e Frascati, nomi di ritrovi già scomparsi a quell’epoca, nelle Petites Vieilles). Ma non sono molte le poesie in cui anche in un dettaglio, in un termine realistico non si senta il respiro della città nei suoi oggetti, nei suoi muri e lastricati, essi stessi come trasudanti di umanità, lievitanti d’incantesimi e di simboli, dai «quais froids de la Seine» in Danse macabre, al rosso chiarore di un lampione, all’ «odeur de futailles» nel Vin des chiffonniers, alla grondaia in cui erra l’anima d’un vecchio poeta (Spleen,1), alle persiane, riparo di segrete lussurie, che pendono dai tuguri dei sobborghi (Le Soleil), ai gatti che pas sano furtivamente «le long des maisons, sous les portes cochères», nella Parigi notturna di Confession. E dalla fusione, ma anche dall’impiego alterno di queste due serie di elementi e di immagini - della cité e della ville, direi della città morale e di quella strutturale, umana e pietrificata - che Baudelaire realizza i suoi «quadri», nelle poesie e nei poemetti in prosa, che raggiungono tutti, come si è spesso notato, una loro dimensione allegorica. E il paesaggio cittadino di Baudelaire dà per questo alcune volte il senso di vuoto, di freddo, di silenzio rotto da rumori sordi e misteriosi (non è sempre lo sguardo a creare il tableau), come in Brumes et Pluies ο in Chant d’automne; altre volte di un pieno caotico, formicolante, frastornante, dove le stesse strutture oggettive si dilatano in un clima allucinatorio: pensiamo soprattutto alle strofe iniziali dei Sept Vieillards:

    Fourmillante cité, cité pleine de rêves,

    Où le spectre en plein jour raccroche le passant!

    Les mystères partout coulent comme des sèves

    Dans les canaux étroits du colosse puissant.

    Un matin, cependant que dans la triste rue

    Les maisons, dont la brume allongeait la hauteur,

    Simulaient les deux quais d’une rivière accrue...

    5. La morale, il potere, la religione

    «Multitude, solitude: termes égaux et convertibles pour le poète actif et fécond», scrive Baudelaire nel poemetto in prosa Les Foules. E nelle Fleurs du Mal, per quello che abbiamo detto finora, c’è più di un momento in cui la poesia si unisce alla carità, in una «sainte prostitution de l’âme», in un’orgia di amore ineffabile per gli altri. Baudelaire ha épousé le illusioni dei cenciaioli ubriachi, le condizioni miserabili e la rivolta della «race de Caïn», ha esaltato la morte quale unica ragione di sopravvivenza e di consolazione per i poveri, ha provato pietà, simpatia per i malati, gli emarginati: zingari, pazzi, prostitute, banditi, saltimbanchi, vedove, persone sole ο maniache hanno come eccitato la sua fraterna comprensione. Eppure, anche in quegli stessi momenti, specie se considerati nell’ambito della struttura generale delle Fleurs, e di tutta la sua opera, si avverte più netta la sua solitudine, per una curiosità di conoscenza, e un’avidità di partecipazione segnate però dal più radicale pessimismo. Dopo la fiammata quarantottesca, dopo una breve infatuazione per la funzione sociale dell’arte, egli ha abbandonato ogni facile idealismo umanitario. Ha creduto sempre meno al progresso, al filantropismo. Si è opposto violentemente all’invasione (già allora!) dell’americanismo. Ha creduto sempre di più, invece, e fermamente, al progresso vero, cioè morale, di ogni individuo in se stesso, e per proprio merito, dato che ogni esperienza umana riparte, in certo senso, da zero, essendo l’uomo sempre uguale all’uomo, nel suo stato selvaggio (ed ecco già un indice della sua condizione cristiana ); si è sempre più convinto che il solo potere ragionevole e sicuro fosse quello aristocratico, perché legato a una concezione mistica del potere stesso. E non c’è da meravigliarsi se per quella via - sulla scorta sempre di Joseph de Maistre - egli trovasse una giustificazione e uno scopo spirituale anche alla pena di morte. Arrivò a dire in Mon cœur mis à nu, che esistono soltanto tre esseri rispettabili: il prete, il guerriero e il poeta, cioè:

    Savoir, tuer et créer. Les autres hommes sont taillables et corvéables, faits pour l’écurie, c’est-à-dire pour exercer ce qu’on appelle des professions (XIII, 22).

    Le leggi sociali, fatte ο da fare, hanno perciò scarsa presa su di lui; sono le leggi morali che condizionano l’uomo, e che debbono spingere il poeta a concentrare tutti i suoi interessi, e quindi tutti i suoi sforzi per superare quei limiti, per entrare in contatto diretto con le cose, con la Natura, con lo sterminato groviglio di segni e di analogie che si cela in ogni vicenda umana, in ogni aspetto della realtà sensibile. Lo spiritualismo, la cabala, la droga, la potenza occulta della parola, l’operazione magica della preghiera, intesa come una delle grandi forze della «dynamique intellectuelle», il satanismo stesso, hanno orientato sempre più in senso esoterico, e quindi metafisico, le sue vertiginose déscentes nel suo baratro interiore, come d’altra parte la sua concezione del mondo. E non appare molto arrischiata - ma non è certo in tutto convincente - l’ipotesi avanzata da un critico (Arnold), che il sistema di Baudelaire si fondi anche sulla lettura di una traduzione francese cinquecentesca del Poimandro di Ermete Trismegisto. Sul misticismo, sulla religiosità di Baudelaire, si è a lungo discusso. E non è mancata nemmeno un’interpretazione in tutto cristiana della sua opera, con molte giustificazioni, ma senza alcun argomento determinante. E certo che egli non ha avuto scopi edificanti (avrebbe tradito la sua stessa concezione della poesia). Se mai le Fleurs, e altri suoi scritti, rivelano una ineliminabile premessa cristiana (la sua opera non si concepirebbe nemmeno fuori di quella tradizione ), quasi in uno stato disperato di pre-conversione , di drammatico scontro fra le tentazioni opposte di Satana e di Dio. Non era in vena di persuasione catechistica Barbey d’Aurevilly quando scrisse, alla fine del suo famoso articolo sulle Fleurs du Mal (24 luglio 1857), che al poeta non restavano che due partiti da prendere: bruciarsi le cervella ο farsi cristiano. Ma indiscutibile è la qualità appunto mistica, e romantica, della poesia baudelairiana. Il suo senso angoscioso di caduta, la sua coscienza del peccato originale, la sua ossessione del finito, del Tempo, nemico vigilante e funesto, invocano e rinviano sempre ad altre dimensioni e categorie, dall’esistenza all’essenza. Edi questo soprattutto la sua poesia porta testimonianza.

    Il n’y a d’intéressant sur la terre que les religions,

    scrive ancora in Mon cœur mis à nu (XXXI, 56); e ricorda altrove la sua tendenza, dall’infanzia, alla mysticité, e le sue «conversations avec Dieu». Analogamente ad altre situazioni, di alcuni «petits romantiques», ο di un Vigny (ο come poi di un Rimbaud), anche per Baudelaire i capi di accusa contro Dio - «Dieu est un scandale», scrive una volta - sono una forma di venerazione negativa, di protesta, che non sfocia mai in un totale nichilismo. Dio può essere un tiranno, un correo (Le Reniement de saint Pierre), ma rimane il punto fermo essenziale, per la stessa dialettica del Male in cui Baudelaire si trova coinvolto, in cui crede, e di cui a Dio chiede talvolta ragione (e il Male non sarebbe se Dio non fosse). Se è esplicita l’implorazione a Satana, nelle antifrastiche litanies:

    Ο Satan, prends pitié de ma longue misère!

    non siamo sicuri che non sia rivolta ambiguamente anche ο solo a Dio, piuttosto che solo a Jeanne Duval, ο a un’altra donna, l’invocazione iniziale di De profundis clamavi (come del resto tante altre nelle Fleurs):

    J’implore ta pitié, Toi, l’unique que j’aime,

    Du fond du gouffre obscur où mon cœur est tombé.

    Del resto, ricavare da tutta l’opera di Baudelaire, dalle sue prime poesie e da altri suoi scritti giovanili, fino ai suoi ultimi appunti di Mon cœur mis à nu, ο ai suoi ultimi poemetti in prosa, ο alle sue note sarcastiche sulla Pauvre Belgique, una visione e una soluzione unitaria di questi problemi, è impossibile, tanto egli veramente oscilla fra la protesta e la preghiera, fra la rivolta e la fiducia. E in questa oscillazione continua si dilacera, senza trovare mai appagamento definitivo in una delle due posizioni. Più facile è coglierlo, nelle sue poesie, nelle sue riflessioni, in alcuni momenti di accettazione ο di ripiegamento, sull’una ο sull’altra. Il suo satanismo , come la sua fiducia in Dio, non sfociano mai in cieco fideismo; non hanno mai nulla di dogmatico, di esclusivo. Il poeta della Révolte non è un révolté permanente, ed arriva anche a chiedersi: «Se livrer à Satan, qu’est-ce que c’est?» (Fusées, XIV, 21).

    6. L’arte

    L’opera di Baudelaire non sarebbe veramente quel nodo obbligato di tutte le fila della poesia, dal primo Romanticismo ai giorni nostri, se questa sua sintesi di elementi, con le necessarie riduzioni e scorie, e questa sua dilacerata situazione, non si fosse realizzata in un’arte originale, e soprattutto composta, almeno nelle Fleurs du Mal, in un disegno preciso. C’è anzitutto in lui la chiara coscienza dell’arte come impegno tecnico- basilare, come mestiere di espressione, di linguaggio, con trucchi, puntelli, rattoppi, anche: l’ arte come una faticosa marcia di avvicinamento al culmine della creazione perfetta, che rimane un miraggio, un Assoluto irraggiungibile (La Beauté, La Mort des artistes, Le «Confiteor» de l’artiste), quale magica misura di volontà e di frenesia, di interventi razionali su un’essenza misteriosa. Egli parlò della poesia come di una «sorcellerie évocatoire», in cui il poeta, con tutti i mezzi, anche artigianali , che ha a disposizione, mette in movimento una specie di sortilegio. In questa opera di mistificazione, rigorosa e tragica, in cui il poeta deve far come le parti di un altro - parlò del poeta come di un farceur, di un jongleur, ο anche di un magicien, di uno chimiste (e si pensi al suo interesse per i saltimbanchi, i buffoni, e si rilegga La Muse vénale) -, la materia, anche incandescente, viene plasmata, fissata, senza perdere la sua forza originaria. L’alchimia, il gioco di prestigio che Baudelaire vuole realizzare, è spesso una «alchimie de la douleur», cioè un’alchimia alla rovescia, in cui si muta l’oro inferro, il paradiso in inferno; ed è una reazione scientifica, chimica, su una materia morale, che ha perciò i suoi residui, le sue impurità (la poesia di Baudelaire non è una poesia pura, come volle vederla Valéry, e pour cause). Sono celebri le sue parole al notaio Ancelle, in una delle sue ultime lettere (18 febbraio 1866):

    Faut-il vous dire, à vous qui ne l’avez pas plus deviné que les autres, que dans ce livre atroce, j’ai mis tout mon cœur, toute ma tendresse, toute ma religion (travestie), toute ma haine? Il est vrai que j’écrirai le contraire, que je jurerai mes grands Dieux que c’est un livre d’art pur, de singerie, de jonglerie; et je mentirai comme un arracheur de dents.

    Ma è soprattutto nell’ordine strutturale di questo unico, «atroce» libro di poesie che Baudelaire raggiunge il colmo della sua arte. Escludere che le Fleurs du Mal abbiano una loro architettura interiore, che poggia saldamente sulle sei sezioni in cui sono ripartite, è negare lo spirito stesso della poetica baudelairiana. È certo un’architettura costruita in fieri, cioè che si è venuta realizzando man mano e negli stessi modi in cui si attuava la sua poesia, per una combinazione della volontà e del mistero, e che ha avuto le sue fasi di assestamento, le sue incertezze, i suoi progetti, i suoi titoli provvisori (si veda qui appresso la Premessa). E non è una struttura rigida, in cui nulla possa essere spostato, tolto, aggiunto (fu modificata e definita meglio dalla prima alla seconda edizione, e non soffrì molto della soppressione delle sei poesie condannate). Ma è l’impianto fondamentale, è l’ordine in progressione che il libro intende creare in uno spazio estetico-morale, che è indispensabile alla sua validità, alla sua stessa esistenza. Non è una suddivisione tanto per dare respiro al lettore, ma la ricomposizione di una linea sinuosa di svolgimento, un grafico fìtto di sussulti, di cadute, d’impennate, dalla nascita maledetta del poeta (Bénédiction) alla Morte come epilogo poetico-morale. Si abbia presente la dichiarazione di Baudelaire, in una lettera a Vigny (del dicembre 1861, quindi da riferirsi alla seconda edizione):

    Le seul éloge que je sollicite pour ce livre est qu’on reconnaisse qu’il n’est pas un pur album et qu’il a un commencement et une fin. Tous les poèmes nouveaux ont été faits pour être adaptés au cadre singulier que j’avais choisi.

    Baudelaire ha scritto altri libri, notevolissimi e importanti, che basterebbero da soli a fare un grande scrittore. Abbiamo citato più volte lo Spleen de Paris, cinquanta poemetti in prosa, dalla qualitàdents e dalla resa poetica peraltro assai disuguali, e in cui tuttavia tenta e instaura una nuova maniera di prosa lirica, che ha una sua grande ricchezza di immagi ni, e una sua musicalità, «sans rythme et sans rime», com’egli spiega, e in cui traduce e traveste, in visioni, in apologhi, in quadri realistici ο simbolici, moti di bontà (Le Vieux Saltimbanque) e impulsi perversi (Le Mauvais Vitrier), sogni e allucinazioni, improvvise illuminazioni della coscienza, sullo sfondo non sempre chiaramente indicato dell’ «enorme città». E abbiamo ben presenti, naturalmente, i Paradis artificiels, che, al di là dell’esperienza della droga (oggi così terribilmente attuale), sono soprattutto un’altra testimonianza poetica della sua volontà di sottrarsi alla condizione umana, di perdersi nel suo «goût de l’Infini», ma anche qui con la ferma, amara consapevolezza della vanità del tentativo compiuto, se non nel senso di fare, anche di questo, poesia. Né dimentichiamo altre sue opere minori, come la giovanile novella La Fanfarlo, per esempio, ο le sue note intime, le Fusées e Mon cœur mis à nu, di un estremo interesse per chiarire molte sue posizioni, come abbiamo visto. Non dimentichiamo soprattutto che Baudelaire non è soltanto uno dei più grandi poeti dell’èra moderna -forse il più grande -, ma anche una delle coscienze critiche più vigili del fatto poetico, anche in rapporto alle altre arti, alla pittura, alla musica: i suoi Salons, i suoi saggi su Delacroix, sul Peintre de la vie moderne (Constantin Guys), su Wagner, come quelli su Hugo, su Gautier, su Banville, i suoi studi su Poe, hanno indubbiamente ancora oggi un loro grande valore, storico e critico, non solo in rapporto alla personalità stessa di Baudelaire.

    Ma è innegabile che tutti questi altri suoi scritti prendono luce dalle Fleurs, si reggono a raggiera su quel centro. È proprio dei poeti lirici ed essenziali come Baudelaire realizzarsi pienamente in un solo libro (altro che la stérilité che gli rimproverava Leconte de Lisle!), e svilupparne se mai altrove qualche motivo. Non può non colpire, e specie dopo la prima edizione delle Fleurs, la grande quantità di «progetti» che accumulò Baudelaire (come del resto un altro poeta essenziale: Vigny) senza terminarne che assai pochi. Per lui era impossibile una ripetizione quasi gestuale della poesia, sia pure in altre direzioni (come per Hugo, per esempio); tutto era pensato e scritto in funzione di quel libro, e quando tentava di staccarsene, era come se volesse sottrarsi alla legge eh’egli stesso aveva istituito, e finiva per forza per circondarsi di «relitti». E in realtà, cosa poteva dire ancora Baudelaire dopo la mirabile chiusa del Voyage? L’ultimo ciclo non solo, ma tutta la sua opera, si saldava su quella spettrale visione d’un vascello fantasma che salpa verso i lidi dell’ignoto per

    Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!

    In questo échec, in questo marasma, sul piano umano-psicologico, perfettamente controbilanciato da una réussite nell’ordine della realizzazione artistica, la parabola poetica terminava, come stava per compiersi di lì a qualche anno, nella terribile afasia, il destino umano di Baudelaire.

    Massimo Colesanti

    Roma, 10 ottobre 1998

    ¹ Tutto era stato già preso nel campo della poesia. Lamartine aveva preso i cieli, Victor Hugo aveva preso la terra, e più della terra. Laprade aveva preso le foreste. Musset aveva preso la passione e l’orgia splendente. Altri avevano preso ìl focolare, la vita rustica ecc. Gautier aveva preso la Spagna e i suoi forti colori. Cosa restava? Quello che Baudelaire ha preso. Vi è stato come costretto.

    ²Poeti illustri si erano spartite da un pezzo le province più floride della poesia. Mi è parso piacevole, e ancora più gradevole per la difficoltà dell’impresa, di estrarre la bellezza dal Male.

    ³ Per dipingere queste decomposizioni che gli fanno orrore, egli ha saputo trovare quelle sfumature morbidamente ricche della putredine più o meno avanzata, quei toni di madreperla e di turbine che ghiacciano le acque stagnanti, quelle rose tisiche, quei bianchi doratici, quei gialli di fiele e di travaso di bile, quei grigi plumbei di brume pestilenziali, quei verdi velenosi e metallici che puzzano di arseniato di rame, quei neri fumosi slavati dalla pioggia lungo muri gessosi, quei bitumi ricotti e bruciacchiati in tutte le fritture dell’inferno, così eccellenti per servire da sfondo a qualche testa livida e spettrale, e tutta quella gamma di colori esasperati spinti al massimo grado, che corrispondono all’autunno, al tramonto del sole, alla estrema maturità dei frutti, e all’ora estrema delle civiltà.

    ⁴ Bisogno di uscire da se stessi, di dimenticare il proprio io in un’altra carne.

    ⁵ Debbo dire a voi, a voi che non l’avete compreso più degli altri, che in questo libro atroce ho messo tutto il mio cuore, tutta la mia tenerezza, tutta la mia religione (travestita), tutto il mio odio? È vero che scriverò il contrario, che giurerò per tutti gli Dei che è un libro di arte pura, di scimmiottatura, di destrezza, e mentirò come un cavadenti.

    ⁶L’unico elogio che sollecito per questo libro, è che si riconosca che non è un mero album, ma che ha un inizio e una fine. Tutte le poesie nuove sono state fatte per essere adattate al quadro singolare che mi ero scelto.

    Nota biobibliografica

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    LA VITA

    Charles-Pierre Baudelaire nasce il 9 aprile 1821, in rue Hautefeuille a Parigi, da Joseph-François Baudelaire, funzionario del Senato, e dalla sua seconda moglie, Caroline Archenbaut Defayis (o Dufays). La madre ha 28 anni, il padre 62 e morirà sei anni dopo.

    La madre di Baudelaire sposa in seconde nozze, nel 1828, l’ufficiale Jacques Aupick, insignito della Légion d’honneur e cavaliere di Saint-Louis. Aupick, nominato nel 1831 tenente colonnello, viene inviato a Lione e si fa raggiungere dalla moglie e dal figliastro, che segue gli studi al Collège Royal. Nel 1836 il colonnello Aupick ritorna a Parigi, e nel 1837 Baudelaire ottiene il secondo premio per la composizione in versi latini al concorso generale presso il collegio Louis-le-Grand, che frequenta dall’anno precedente.

    A questo periodo risalgono le sue prime composizioni poetiche. Per il rifiuto di consegnare al professore un biglietto passatogli da un compagno durante la lezione, nel 1839 viene espulso dal Louis-le-Grand. Alcuni mesi dopo supera gli esami di baccalauréat, e nel 1840 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza e dà inizio a una vita libera, stringendo amicizia con artisti e letterati. Ha una relazione con Sarah, una prostituta cantata da molti scrittori. Baudelaire viene convinto nel 1841 a partire per un lungo viaggio da Aupick (promosso nel frattempo generale), preoccupato per la vita dissoluta del figliastro. Si imbarca a Bordeaux diretto a Calcutta, ma durante uno scalo all’Ile Bourbon, decide di non proseguire il viaggio e ritorna in Francia. Maggiorenne, entra in possesso nel 1842 dell’eredità paterna. Lascia la famiglia, si stabilisce all’Ile-Saint-Louis, inizia la relazione con l’attrice mulatta Jeanne Du vai.

    Nel 1843 si trasferisce all’Hotel Pimodan, vicino al Club dei fumatori d’hashish, che frequenta; comincia a indebitarsi, conosce Gautier, Hugo, Sainte-Beuve. Per desiderio di suo marito, nel 1844 la signora Aupick si rivolge al tribunale perché Baudelaire sia dichiarato incapace di gestire i propri beni. Gli vengono assegnati un mensile e un tutore, il notaio Ancelle. Reagisce dichiarando di respingere qualsiasi attentato alla sua libertà.

    Nel 1845 escono, in maggio, il Salon de 1845, e su «L’Artiste» il sonetto À une dame créole, prima poesia pubblicata da Baudelaire. In giugno tenta di suicidarsi con un pugnale. Vive alcuni mesi con la madre, in Place Vendôme, ma il tentativo di riconciliarsi con lei e con Aupick fallisce. Si trasferisce in un albergo di rue Laffitte.

    Su diverse riviste nel 1846 compaiono Le Musée classique du Bazar Bonne-Nouvelle, Choix de maximes consolantes sur l’amour, Le Jeune Enchanteur, Conseils aux jeunes littérateurs e Salon de 1846. Annuncia Les Lesbiennes, primo titolo di quelle che saranno Les Fleurs du Mal, e l’anno successivo pubblica La Fanfarlo. Aderisce ai moti rivoluzionari del 1848. Fonda «Le Salut public» (due numeri) e passa poi alla «Tribune Natio naie», rivista di tendenze più moderate. Ultima impresa del Baudelaire socialista è la partecipazione ai moti insurrezionali di giugno 1848. Esce in luglio su «La Liberté de penser» la sua prima traduzione da Poe (Révélation magnétique) e, in settembre, Le vin de l’assassin.

    Nel 1851 pubblica il saggio Du vin et du hachisch e undici poesie con il titolo Les Limbes. Tra l’estate e l’autunno pubblica il saggio su Pierre Dupont e Les Drames et les Romans honnêtes. Il 2 dicembre partecipa, malgrado l’evoluzione in senso moderato delle sue idee politiche, ai moti contro il colpo di Stato di Luigi Napoleone.

    È del 1852 la pubblicazione, sulla «Revue de Paris», del saggio Edgar Allan Poe, sa vie et ses ouvrages, e della traduzione del Corvo di Poe. Il 9 dicembre scrive una lettera, non firmata, a Madame Sabatier, La Présidente, con la prima delle poesie a lei dedicate, À celle qui est trop gaie.

    Aupick, ormai senatore, vive tra Parigi e Honfleur, in Normandia, ove ha acquistato una casa, la maison-joujou, che per Baudelaire diverrà, dopo la morte del patrigno, il luogo mitico e impossibile del ritorno e dell’abbandono all’ombra della madre. Il 28 gennaio 1854, in una lettera all’attore Tisserant, espone il progetto di un dramma, libero adattamento di Le Vin de l’assassin, anche sotto l’influenza del Demone della perversità di Poe, di cui pubblica la traduzione. In luglio, amore per l’attrice Marie Daubrun. Nel 1855 appaiono, nella «Revue des Deux Mondes», diciotto poesie di Baudelaire con il titolo Les Fleurs du Mal. Gli scritti d’arte Exposition universelle de J855\ De l’Essence du Rire et généralement du comique dans les arts plastiques, Ingres e i due primi poemetti in prosa Le Crépuscule du soir e La Solitude completano l’elenco delle pubblicazioni di quest’anno. Nel 1856 esce un’edizione in volume della sua traduzione delle Histoires extraordinaires di Poe, precedute da un suo importante studio critico. Nel marzo 1857 pubblica le Nouvelles Histoires extraordinaires, sempre nella sua traduzione da Poe. In aprile muore il generale Aupick; la madre si ritira a Honfleur. Il 25 giugno appaiono Les Fleurs du Mal’, ma dopo pochi giorni il volume viene sequestrato per oscenità: nel processo penale che si celebra il 20 agosto, Baudelaire e gli editori vengono condannati, per oltraggio alla morale pubblica, a pene pecuniarie e alla soppressione di sei poesie. Il 24 agosto pubblica, in «Le Présent», sei poemetti in prosa, con il titolo Poèmes nocturnes.

    Nella «Revue contemporaine» Baudelaire pubblica, il 30 settembre 1858, De l’idéal artificiel - Le Hachisch. Vive tra Parigi e Honfleur, presso la madre: la morte del patrigno ha ridato nuovo spazio al loro rapporto, di una straordinaria profondità e complessità. Il 13 marzo 1859 appare su «L’Artiste» lo studio dedicato a Gautier, nell’aprile La Genèse d’un Poème, traduzione della Filosofia della composizione di Poe, e in luglio il Salon de 1859. Nel gennaio 1860 pubblica nella «Revue contemporaine», Enchantements et tortures d’un mangeur d’opium, seconda parte di Les Paradis artificiels, che appariranno in volume nel successivo mese di maggio, dedicati a una donna, J.G.F., non identificata. Il 13 gennaio 1860 si manifesta la prima crisi del male che lo porterà alla morte («una crisi singolare, qualcosa come una congestione cerebrale», scrive alla madre). Il 17 febbraio scrive una lunga e appassionata lettera a Wagner; il primo aprile dell’anno successivo pubblicherà il suo saggio Richard Wagner et «Tannhàuser» à Paris. Nel gennaio 1861 Baudelaire si separa da Jeanne - e non è la prima volta - e ritorna a vivere da solo, alloggiando nell’Hotel de Dieppe. Sono del 1861, dominate da presentimenti e da volontà di morte, alcune delle lettere più tenere e disperate scritte da Baudelaire alla madre. In febbraio appare la seconda edizione di Les Fleurs du Mal, vengono pubblicati in seguito scritti di critica letteraria e d’arte (Réflexions sur quelques-uns des mes contemporains e Peintures murales d’Eugène Delacroix à Saint-Sulpice), e nove poemetti in prosa. In dicembre presenta la sua candidatura all’Académie Française, inutilmente. Alfred de Vigny sembra essere il solo a sostenerla, e Sainte-Beuve gli consiglia di ritirarla; lo farà l’anno seguente.

    Nel 1862 progetta di fare un libro dal titolo Mon cœur mis à nu. Il 14 aprile muore l’odiato fratellastro Claude-Alphonse, per emorragia cerebrale. Su «La Presse» appaiono venti poemetti in prosa, preceduti dalla dedica ad Arsène Houssaye. Nel settembre 1863 pubblica il grande studio L’Œuvre et la vie d’Eugène Delacroix, e poi l’ importantissimo testo di critica d’arte, Le Peintre de la vie moderne. Nel 1864 pubblica sei poemetti in prosa con il titolo Le Spleen de Paris; la raccolta si arricchirà, nel dicembre, di nuovi testi pubblicati sulla «Revue de Paris». In aprile Baudelaire decide di lasciare la Francia e il 24 giunge a Bruxelles, e alloggia all’Hotel du Grand Miroir. Si è impegnato per un ciclo di conferenze, di cui tre sul tema degli eccitanti (Paradis artificiels), che legge in pubblico tra il maggio e il giugno. L’ambiente provinciale di Bruxelles e del Belgio (una «caricatura» della Francia), l’insuccesso delle conferenze e l’incomprensione generale, esasperano Baudelaire che inizia il pamphlet, violentemente satirico, Pauvre Belgique!, che, frammentario, apparirà in gran parte postumo. Nel 1865 dominano nuovi presentimenti di morte. Nel febbraio 1866 Poulet-Malassis pubblica a Bruxelles Les Épaves. Il 15 marzo, mentre visita con Félicien Rops la chiesa di Saint-Loup a Namur, Baudelaire è colpito da un attacco di paralisi con gravi sintomi di afasia.

    È trasportato in luglio a Parigi, dove muore un anno dopo, il 31 agosto 1867. Viene sepolto nel cimitero di Montparnasse, accanto al patrigno.

    LE OPERE

    Baudelaire pubblicò la maggior parte dei suoi scritti su riviste e giornali, altri non li dette alle stampe; le opere edite in volume, ο in plaquette, durante la sua vita, sono le seguenti:

    Salon de 1845, Paris, Labitte, 1845.

    Salon de 1846, Paris, Lévy, 1846.

    Histoires extraordinaires (trad, da E.A. Poe), Paris, Lévy, 1856.

    Nouvelles Histoires extraordinaires (trad, da E.A. Poe), Paris, Lévy, 1857.

    Les Fleurs du Mal, Paris, Poulet-Malassis et De Broise, 1857.

    Les Aventures d’Arthur Gordon Pym (trad, da E.A. Poe), Paris, Lévy, 1858.

    Théophile Gautier, Paris, Poulet-Malassis et De Broise, 1860.

    Les Paradis artificiels, Paris, Poulet-Malassis et De Broise, 1860.

    Les Fleurs du Mal (II ed.), Paris, Poulet-Malassis et De Broise, 1861.

    Richard Wagner et «Tannhàuser» à Paris, Paris, Dentu, 1861.

    Eureka (trad, da E.A. Poe), Paris, Lévy, 1863.

    Histoires grotesques et sérieuses (trad, da E.A. Poe), Paris, Lévy, 1865.

    Les Épaves, Amsterdam [Bruxelles], A l’Enseigne du Coq [Poulet-Malassis], 1866.

    Un anno dopo la morte del poeta, nel 1868, già fu preparata e pubblicata una prima edizione di tutte le sue opere, e da allora, nell’arco di più di cento anni, numerosi sono stati i tentativi di offrire il quadro completo della sua produzione. Ma, specie per la scoperta di nuovi scritti, editi e inediti, e anche per i criteri filologici adottati, queste edizioni non sono mai risultate, fino a non molti anni fa, veramente complete e corrette. Sono citate qui appresso, in ordine cronologico, tutte le edizioni più importanti, sia di Œuvres complètes, sia di singole opere:

    Œuvres complètes (quattro volumi, più tre volumi di traduzioni da Poe, a cura di CH. ASSELINEAU e TH. DE BANVILLE - i cui nomi tuttavia non appaiono -, con una notice di TH. GAUTIER), Paris, Lévy, 1868-70. È un’edizione importante perché, anche se con molti e vari errori, e priva di vere e proprie œuvres posthumes, raccoglie per la prima volta in volume numerosi scritti sparsi in riviste:

    I. Les Fleurs du Mal, 1868 (è la terza edizione, e raccoglie, oltre a Les Épaves, anche altre poesie che passeranno in gran parte delle edizioni successive con il titolo di Additions de la troisième édition).

    II. Curiosités esthétiques, 1868 (comprende, tra l’altro, il Salon de 1859, Exposition universelle de 1855 e De l’essence du Rire).

    III. L’Art romantique, 1868 [1869] (comprende, tra l’altro, le Réflexions sur quelquesuns des mes contemporains, i saggi su Delacroix e su Wagner, e alcuni articoli di critica letteraria).

    IV: Petits Poèmes en prose. Les Paradis artificiels, 1869 (raccoglie anche le novelle La Fanfarlo e Le Jeune Enchanteur).

    Souvenirs, Correspondance, Bibliographie, Paris, Pincebourde, 1872 (un volume a cura di ASSELINEAU, POULET-MALASSIS, COUSIN e SPOELBERCH DE LOVENJOUL).

    Œuvres posthumes et Correspondances inédites, Paris, Quantin, 1887 (un volume, preceduto da uno studio biografico a cura di E. CRÉPET); pubblica, tra l’altro, per la prima volta, Mon cœur mis à nu e Fusées.

    Lettres (1841-1866), Paris, Mercure de France, 1906 (a cura di F. GAUTIER, il cui nome non appare).

    Œuvres posthumes, Paris, Mercure de France, 1908 (un volume a cura di F. GAUTIER e J. CREPÉT); ha il merito, tra l’altro, di arricchire il gruppo degli articoli di critica letteraria e d’arte.

    Douze poèmes de Charles Baudelaire, publiés, en facsimilé, sur les manuscrits originaux de l’auteur, avec le texte, en regard, des mêmes pièces, d’après les éditions des Fleurs du Mal (a cura di A. VAN BEVER), Paris, G. Crès, 1917 (si veda qui appresso la nostra Premessa alle FM).

    Œuvres complètes, Paris, Éditions de la «Nouvelle Revue française», 1918-37 (dodici volumi, di cui gli ultimi cinque di traduzioni da Poe, a cura di F.F. GAUTIER e, successivamente, di Y.-G. LE DANTEC). È la prima edizione critica, ma non è stata

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