Scommetto di no: 24 racconti brevi
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Anteprima del libro
Scommetto di no - Bruno Confortini
Scommetto di no
24 racconti brevi
Bruno Confortini
Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2016
Copyright Bruno Confortini, 2016
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788868152154
Il racconto Come una gondola è stato pubblicato in una raccolta di racconti di AA.VV. dal titolo Racconti nella rete 2013 - Lucca Autori, a cura di Demetrio Brandi, Nottetempo, Roma, 2013.
Copertina di Giancarlo Pasquali
www.minimalinc.it
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 - 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 - (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
info@meligranaeditore.com
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Indice
Frontespizio
Colophon
Licenza d’uso
Bruno Confortini
Copertina
Presentazione
Il portachiavi azzurro
scommetto di no
Non c’è il mare a Marrakech
Minestra
Ormai
Come una gondola
Biscotti
Stuzzicadenti
Come un bimbo il suo orsacchiotto
I quaderni di Sara
Sconosciuti in treno
Modella di piede
Un enorme scherzo ammantato di qualcos’altro
A che ora parte l’aereo?
Ma davvero non avete mai visto Sara?
Zitti zitti e con l’aria in faccia
Farfalle
Neanche fosse agosto
Purè
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Grazie per il rispetto verso il duro lavoro di questo autore.
Bruno Confortini
Sessant’anni, è nato e vive a Vicchio (Firenze). Giornalista pubblicista, è autore di vari volumi di storia locale e sport.
È anche scrittore di racconti, poesie e haiku e ha ottenuto riconoscimenti a vari premi letterari nazionali.
Questa è la sua prima raccolta di racconti.
Contattalo:
bconfortini@gmail.com
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Presentazione
In questa raccolta di racconti, Bruno Confortini si affaccia discreto alla finestra di esistenze silenziose, che potrebbero essere quelle di tutti noi.
Col cuore in prima fila, osserva partecipe Sara che vive la sua vita come un luna park fuori stagione.
Ci emoziona quando racconta di Paolo, nel suo mondo diverso, mentre lucida la scarpa di Mario che non tornerà più.
E ancora a Lesole ci fa sorridere con Jasper che scodinzola felice, messaggero di giorni nuovi, forse meno tristi.
Come fa Sara sui suoi quaderni, l’autore cerca di scrivere in bella grafia avvertendoci che la vita in fondo altro non è che un enorme scherzo ammantato di qualcos’altro e allora vale proprio la pena di avventurarsi in queste storie di tutti e perdersi in cose inutili, perché alla fine forse, chissà che davvero non ci sia un happy end.
Chi scrive scommette di no... Ma avrà ragione? Non ci resta che scoprirlo.
Demetrio Brandi
Presidente del Premio Letterario Racconti nella Rete
Il portachiavi azzurro
Uscì di casa fischiettando. Era contento che fosse finalmente tornato il sole.
Sul marciapiede opposto stava camminando l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere.
Quanti anni erano passati? Vent’anni esatti erano passati dall’ultima volta che l’aveva visto. Vent’anni! Roberto Stefani smise di fischiettare. Stava sognando? Strinse i pochi spiccioli che teneva nella tasca della giacca di stoffa marrone.
Si fermò, lo sguardo fisso puntato sull’altro lato della strada. I passanti lesti e indaffarati del sabato mattina lo urtavano passandogli accanto. Uno spintone lo scosse. Con fatica prese a seguire l’uomo atletico dai riccioli neri che camminava sull’altro marciapiede. Vent’anni! Fu come se solo allora si rendesse conto di quanta vita fosse passata, e si trovò all’improvviso a guardarci dentro, come in un frullatore acceso.
Che aveva fatto in quei vent’anni? Sono andato a letto presto, avrebbe risposto, mentendo, se qualcuno glielo avesse chiesto. Come il personaggio del film. Invece ne erano successe di cose (altroché se ne sono successe, eh?).
Acqua passata, pensò (è la vita, baby). Ora c’erano quei riccioli neri che camminavano sull’altro lato della strada. Ora la sua vita era tutta lì, in quel pezzo di strada, e se la sentiva scorrere addosso, come una pioggia fitta.
Fece qualche passo, attraversò la strada e si avvicinò con discrezione mischiandosi alla folla.
Era cambiato, certo, il ricciolino. Il ragazzino non c’era più, c’era un uomo adesso. Ma l’aria sicura, l’andamento dondolante, da bulletto, gli era rimasta.
E il fisico era sempre robusto, sportivo. Forse giocava ancora a calcio.
La loro comune passione, il calcio. A volte, nell’altra vita, gli era capitato di ripensarci, fra lacrime e whisky. E rivedeva un gol: giornata di sole, stadio pieno, un tiro preciso e delicato, gol di ricciolino, braccia al cielo e capriole. La felicità. In quell’immagine erano concentrati tutti gli anni buoni della loro breve vita insieme.
Camminava come un automa, tenendo gli occhi fissi su quei riccioli neri.
Ehi, stia attento dove mette i piedi!
gli gridò in faccia un tizio indispettito.
(lo stai perdendo, non lo vedi? se ne sta andando, è questo che vuoi?).
No, non era questo che voleva. Non l’avrebbe fermato né ci avrebbe parlato (e poi era tutto un sogno, no?) però non voleva perderlo, non ancora.
Lo guardò andare e venire dai negozi. Faceva spese, come qualunque altro quel giorno. Però che strano, pensò, non l’aveva mai visto prima nel quartiere, eppure erano anni che ci abitava. Quasi dieci, dopo la Francia (e Place des Vosges...), dopo il Messico. Dieci anni di vita tranquilla, da pensionato, fra bar, edicola e giardinetti. Poche parole con tutti, come piaceva a lui; ma tutti lo conoscevano e un saluto lo scambiavano ogni tanto. Ricciolino dov’era stato fino ad allora?
(ehi, vuoi farti vedere? davvero vuoi che ti veda e magari ti parli e ti domandi di Parigi, del Messico? se è questo che vuoi, fai un altro passo, dai, toccagli la spalla e digli ciao ricciolino, son qua... come butta? passati bene questi vent’anni? e dai che festeggiamo e ci prendiamo un caffè
).
Si era avvicinato troppo, se l’altro si fosse voltato l’avrebbe visto. E non voleva essere visto. Perché una cosa la sapeva, sogno o non sogno: la partita era finita tanti anni fa: game over. Una pagina già scritta: male, bene, boh; ma già irrimediabilmente scritta (sei davvero sicuro?).
Si fermò di colpo per mettere fra sé e l’altro qualche metro ancora. Si asciugò una lacrima. Riccioli neri entrò in una tabaccheria. Un cartellone pubblicitario invitava a mettere i soldi in una banca famosa. Soldi, sorrisi e denti bianchi. Non proprio la sua vita, pensò.
Una giovane donna che teneva per mano una bambina dai capelli nerissimi lo sfiorò ed entrò nella tabaccheria dove c’era lui.
Perché lo capì subito? Perché seppe subito che quei tre erano insieme?
Attese che uscissero. Sudava freddo (fai pena, lo sai? Vai a comprarti il giornale che è meglio, vai al bar - buon giorno, fa caldo eh - vai, va via che è meglio... che senso ha quello che stai facendo? Lascialo in pace, lasciali in pace). Qualche minuto e uscirono tutti e tre, mano nella mano. Gli sembrò un girotondo festoso. La bambina sorrideva. È meglio che torni indietro, pensò, ma non lo fece. Lo stomaco gli bruciò forte e tossì. L’eccesso di tosse lo trattenne. Qualche passante si voltò a guardarlo.
Anche la bambina si voltò e lo fissò per un attimo, poi tornò a saltellare mano nella mano in mezzo ai due adulti. Continuava a seguirli, ma le sue gambe erano colonne di cemento. Qualche isolato, poi al numero 24 di uno stabile nuovo, ricciolino tirò fuori dalla tasca della giacca un portachiavi azzurro e girò la chiave nella toppa. I tre entrarono nella casa senza voltarsi, se l’avessero fatto l’avrebbero visto lì, in mezzo alla strada, come un albero spelacchiato e triste. Immobile, li guardò entrare. Una luce si accese, sentì le urla di gioia della bambina e il jingle allegro di un cartone animato. Ristette qualche secondo ancora, indovinando le ombre dietro alle tendine bianche. Poi tutto si annebbiò, quasi a svanire. Lentamente girò le spalle, alla casa, a suo figlio (ancora, lo stai facendo ancora...) e se ne andò.
Roberto Stefani morì il 5 giugno del 2007 nel suo appartamento di Via Micheli 12 in un paesino sul lago di Garda.
Considerate le circostanze della morte il giornale locale gli dedicò qualche riga di cronaca. Un vicino, preoccupato per non averlo visto da qualche giorno, aveva avvertito la polizia. I poliziotti, entrati a forza nell’appartamento, lo avevano trovato morto seduto sull’unica poltrona della casa. Il cronista riportava nel suo articolo un particolare curioso: il morto stringeva nella mano destra un portachiavi azzurro. A seppellirlo ci pensò la parrocchia. Di lui, scriveva il giornale, si sapeva poco. Era arrivato in paese da due anni. Un brav’uomo. Una cosa comunque era certa, il vecchio Stefani non aveva parenti da avvertire. O almeno così pensarono tutti.
scommetto di no
siamo nel 2010 oggi lo so ma tanto tempo fa ma non mi chiedete quando perché mica lo ricordo ero dentro un treno e non avevo voglia di dormire anzi stavo leggendo e chissà quante volte l’avevo letto tante volte l’avevo letto il mio racconto preferito un treno in cima al mondo di uno scrittore del Sud America che non so dove si trova non ricordo bene non ho tanta memoria e poi che c’entra sapere chi è che ha scritto l’importante è leggere e che ti piaccia il racconto e quello mi piace e lo stavo leggendo anche quella volta lì perché come ho detto lo leggo spesso e leggendolo pensavo che avevo dormito anche troppo in quegli anni non dormito nel senso di chiudere gli occhi e sognare no anzi dormivo poco io c’erano volte che non riuscivo proprio a chiudere gli occhi che poi mi frizzavano e diventavano rossi insomma non dormito in quel senso ma dormito come dorme chi non si accorge che il mondo è cattivo e crede che invece sia buono e pensa che le persone siano tutte buone e invece no no no no è brutto e cattivo il mondo e allora avevo deciso via via via di lì via dalle persone che ce l’avevano con me ma non riuscivano a prendermi e a uccidermi pensavo dentro al vagone che dondolava e che saliva saliva saliva e io ero dentro al treno e non mi avevano preso eh no sono sempre vivo pensavo e se non fossi vivo come potrei scrivere questo che scrivo e raccontarvi quello che vi sto raccontando io grande scrittore anche se nessuno dice quando mi vede lui è un grande scrittore o compra i miei libri perché nessuno vuole pubblicarli perché sono tutti cattivi ma un giorno vedranno che sono un grande scrittore io ma per tornare al racconto se no poi mi perdo in cose inutili e a volte mi frega perdermi in cose inutili come mi diceva sempre il babbo non perderti in cose inutili combina qualcosa nella vita benedetto figliolo ma forse era maledetto figliolo perché poi partiva sempre qualche ceffone anche quando non ero più piccolo ma grande ormai poi il babbo è morto e sono rimasto in casa da solo e cercavo di non perdermi in cose inutili ma non c’era neanche più il babbo a dirmelo e non era facile fare cose utili che poi non ho mai capito cosa volesse dire se devo essere sincero ma insomma ora sto scrivendo questo racconto e non devo raccontarvi la mia vita che magari neanche ve ne frega qualcosa devo raccontarvi cosa mi è successo e perché sono qui ma dove sono non ve lo dico perché ve lo dico alla fine come fanno i grandi scrittori che il segreto lo svelano solo alla fine e anch’io lo farò con voi insomma ero su treno e leggevo un