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Claroquesí. Cartoline dalla Rivoluzione
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E-book157 pagine2 ore

Claroquesí. Cartoline dalla Rivoluzione

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Info su questo ebook

Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione è la storia di un viaggio lungo chilometri di asfalto e carta, tra le province della República de Cuba, attraverso la lenta Carretera Central.
È qui, nelle casas particulares di Luis, Nelson, Germán e Martha, che la rubía, la morecita e la pequeña incontrano gli strascichi del Periodo Especial e i prodromi della Cuba che si prepara al dopo Castro.
In tasca hanno solo un indirizzo, scribacchiato a mano: quello di Christina, che le aspetta nella scarnificata Centro Habana. L’incontro, nel buio della prima notte cubana, è l’inizio di un cammino a ritroso tra politica, aspettative, passioni, ricordi. Mondi.
Un viaggio lungo dodici tappe, tra le campagne silenti di Matanzas, Cienfuegos, Ciego de Ávila, tra dondoli di paglia, razionamenti e riscatto.
Un attraversamento fatto di storie, luoghi e volti, dedicato, idealmente, ad altrettanti eroi della Revolución cubana. Per restituire il senso dell’andare.
A chi va, e a chi resta.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2018
ISBN9788827560266
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    Anteprima del libro

    Claroquesí. Cartoline dalla Rivoluzione - Manuela Iannetti

    Martí

    1. Camilo Cienfuegos

    Buio, caldo, umidità.

    Tre parole per una sensazione. La prima. Respiro profondamente ma l’aria sbatte contro di me con qualcosa di fisico, nella notte tropicale. Non dormo da quasi venti ore, ho addosso l’odore di Air France e nelle orecchie il rumore dei motori, che accompagna il ritmo di sinapsi rallentate.

    Negli occhi ho un arabesco, nero, trasparente. La prima immagine dopo l’atterraggio me la regalano le calze velate di una hostess di terra. Mi colpiscono perché non c’è nulla di elegante in quelle gambe, né qualcosa di vagamente occidentale nel portarle così naturalmente. Sopra le calze c’è una divisa, è verde smeraldo. Come imparerò presto, non c’è moda, a Cuba. L’ingresso nel paese corrisponde all’uscita dal mondo occidentale quale io lo conosco, nella mia testa. E ingresso e uscita sono separati dalla barriera dell’immigrazione, venti cubicoli schierati uno di fianco all’altro come una potenza di fuoco, una linea di mischia.

    Siamo in centinaia ma tutti pazientiamo, in file improvvisate. Bivacchiamo, per stanchezza e senso di imponderabilità. Ore fatte d’innumerevoli minuti. Pare che ci fotograferanno, dicono le mie due compagne di viaggio. Mi sento a disagio... Ingressi e uscite mi sembrano sempre degli esami, a cui arrivare preparati. E io non so se lo sono, se si possa dire di esserlo, mai o qualche volta.

    Nell’attesa infinita di minuti pazienti, chiamo Christina, ma una voce mi dice che in questo momento non può ricevere telefonate. Quindici ore fa mi sarei preoccupata di questa seccatura. Adesso, il fatto di avere un appuntamento con una sconosciuta nel cuore della notte in una città da due milioni e mezzo di abitanti, mi lascia vagamente indifferente. Ho un sonno pazzesco, fame e sete azzerate, e poi dobbiamo cambiare i soldi, prendere un taxi, capire quelli che sono legali e quelli che non lo sono, arrivare nel quartiere di Centro Habana, dove abbiamo prenotato una habitación con tres camas, una camera con tre letti. E prima mi devono fotografare e intanto aspetto. Da oggi e fino a quando potrò, farò una sola cosa alla volta. Qualcuno provvederà al resto e sento che è un buon pensiero.

    Nel mio fuso mentale sono le tre di notte. Ormai abbiamo quasi fatto il giro dell’orologio. Qui è buio davvero, ma nello stanzino dietro il bagno scorgo qualcosa: è un poster di Fidel. Fa un po’ effetto, il primo che scorgi, poi i poster diventano come i crocifissi nelle aule di scuola: sai che ci sono, ma non li vedi più.

    Finalmente arriva il mio turno. Ripasso mentalmente la lezione, ma non ce n’è bisogno: mi sorridono, imprimono il mio volto in chissà quale archivio, timbrano la mia tarjeta turistica, il mio visto, e buenas noches a tutti. Lo zaino è talmente impacchettato che nessuno si sogna di perquisirmi. Si limitano a guardare che ci sia l’etichetta che testimonia la provenienza aerea e poi mi lasciano andare. Al di là della porta c’è il solito trambusto da arrivi e partenze. Il più è fare lo slalom tra le voci assordanti, scovare l’ufficio del cambio e venire dirottati indolentemente su un taxi-pulmino, che ci scorta in città.

    La strada per la Ciudad de La Habana è immersa in una notte fioca; accanto a noi qualche sagoma di auto d’epoca, pullman stracolmi, stazioni deserte. Non so dove sono, non so dove sto andando, né a casa di chi. Ma credo di stare bene. Il taxista tace, la musica è spagnola ma in qualche modo conosciuta. Passiamo di fronte a un grande slargo, almeno così sembra, perché non si vede quasi nulla, tranne il profilo illuminato di Che Guevara.

    «Plaza de la Revolución».

    Il taxista ha parlato. Evidentemente non è uno che si perde in chiacchiere.

    Accanto a Che Guevara c’è una gigantografia alta uguale, con uno che ha tutta l’aria di essere Bin Laden. Ma è solo il profilo, e qui non sono musulmani, e tanto il taxista non risponde, per cui mi tengo il dubbio. Imparerò ad ammirare quel volto, e a sorridere delle vie associative che il mio cervello sceglie, ignaro ancora di essere in un luogo dove la storia è storia solo degli ultimi sessant’anni, e il prima e il resto chi lo sa.

    Il tassista non sa bene l’indirizzo, nel senso che non sa arrivarci. Chiede ripetutamente, persino a due che vanno su un risciò, e a noi non sembra un buon segno. Invece è normale, e i ragazzi-bici sono ottime guide, perché tortuose sono le strade di Centro Habana. Quando il taxi si ferma, non facciamo in tempo a scendere che veniamo rificcate dentro l’abitacolo, con gentilezza. Christina, dal balcone, ci saluta agitando la mano e mostrando con un cenno muto del capo che la situazione è sotto controllo. Sul taxi intanto è salito anche Luis. Andremo da lui, per stanotte. «Bueno, bueno. Hola chicas, buenas noches».

    E vabbè. Andiamo da Luis. Son qui per conto di un catanese conosciuto su internet con cui ho parlato una volta per telefono. Figuriamoci se mi scompongo dopo ventitré ore di veglia se non dormo a casa di Christina. Che tanto mica la conosco, poi.

    Forse il taxi ha i finestrini anneriti, ma la città sembra deserta, fantasma. Credo sia l’effetto del sonno che scende e che rende tutto annebbiato. Come in quella pellicola dove Al Pacino interpreta un commissario di polizia e lo mandano in Alaska, e lui soffre di insonnia e tutto il film, quando ci sono le soggettive, è virato sul rosso, con i contrasti vividissimi, fino a percepire ogni singolo particolare delle stoffe, degli alberi, dei pavimenti, ma senza visione di insieme. Particolari senza contesto, neuroni concentrati sull’essenziale, antinebbia vicino alle ruote per fare i metri necessari e non uno di più.

    La Habana però è davvero scarnificata. Non so dove siamo capitate, ma quando scendiamo ci sono bambini che giocano davanti alla porta, sotto il bagliore fioco di lampioni a basso consumo. L’asfalto è sconnesso e sommerso dalla polvere. È buio, ma è anche illuminato, e la sensazione è come di una luce depotenziata.

    Finalmente entriamo. Martha ci accoglie in un appartamento dal soffitto altissimo. Ci sono due pappagalli, la TV accesa, un soggiorno modesto. Luis ci fa strada nel retro. Non ho capito se lui e Martha abitino insieme, forse no, forse a La Habana sono tutti parenti. L’alloggio di Martha ricorda quella della nonna della mia amica leccese. Una casa in lungo, verso l’interno, con l’uscio proprio sulla strada.

    La camera è piccolissima. Matrimoniale e lettino, due metri al massimo di soffitto. Soffocante. Il bagno è privato, ma è fuori dalla stanza. Tanto l’acqua non c’è, per cui devi comunque chiamare Martha tutte le volte.

    Non importa, a me basta avere un tetto sopra la testa, e una specie di balcone da cui far passare dell’aria. Però è interno cortile, e noi siamo al piano terra. Abbiamo un attico al contrario, penso. Una tromba delle scale a cielo aperto, da cui arrivano suoni, rumori, risate, profumi.

    Luis è battagliero. Vuole portarci a mangiare l’aragosta, vuole sapere dove vogliamo andare domani, a chi deve telefonare. È un po’ insistente, o forse sono io che lo sento incombente. Vorrei dirgli che non è per lui, ma dopo quasi due giorni di veglia, altrettanti aerei, tram, auto, taxi, navette, diecimila chilometri, zaini in spalla, dodici ore di voli complessivi e almeno otto ore sospese (che l’ansia vuole il suo tributo, fatto di anticipo) tra uno scalo e l’altro nel gate parigino... siamo un po’ provate e che vorrei vedere lui al nostro posto, sbarcare, per esempio, a Milano.

    Ma non lo dico. Lui non è scortese, è solo stupito che non siamo organizzate e che così lui non potrà aiutarci. Domani lavorerà… Perché non vogliamo approfittarne?

    Alla fine ci facciamo accompagnare a comprare almeno dell’acqua. Io sento i morsi della fame, ma non c’è nulla intorno, né saprei peraltro dove andare: fino a ieri sera lavoravo e compilavo report sintesi e prospetti, il tempo di leggere la guida non l’ha avuto nessuno. Meglio così. Sarà scoprire le cose, passo passo.

    Cerchiamo di capire come si possa telefonare. Luis insiste: vuole farlo per noi. Non ho voglia di spiegargli che dobbiamo cavarcela senza aiuto, oggi e soprattutto da domani, quando lui non sarà più al nostro fianco; o forse lo dico, ma lui non si offende. Ha i baffi sottili e un profumo dolce. Compriamo l’acqua, tra un gruppetto di ragazzi e di ragazze che chiacchierano di fronte a un piccolo bancone. Per un attimo sembra di stare a casa, e io provo lo stesso imbarazzo di quando passo tra due ali di sconosciuti.

    Luis ci riaccompagna, Luis ci saluta. Martha scompare, ma la televisione resta accesa. Non capisco cosa trasmettano, ma sembra che lo guardino tutti, in tutte le case. È l’unico chiarore che proviene dall’interno degli edifici.

    Mi accascio. Siamo di poche parole. Ipotizziamo un itinerario di massima per domani, pronunciamo battagliere dichiarazioni di intenti e ci spegniamo, lentamente. Faccio fatica a parlare, non ho nemmeno la forza di spogliarmi ma so che sono arrivata, e sono felice. Acqua, casa, letto. Apro la finestra per fare entrare la prima notte tropicale, il profumo di pane, le voci della strada.

    Domani leggeremo la cartina. Domani sapremo.

    Domani.

    ​2. Carlos Manuel de Céspedes

    Il mattino arriva stropicciato, dopo una notte trascorsa a rigirarsi nel letto, alla ricerca vana di un po’ di riposo. Dovrebbero scrivere sulle confezioni di melatonina che nulla possono contro le TV cubane, in particolare quella del terzo piano.

    Nelle narici sento l’onnipresente profumo di pane, dentro la stanza si avverte un’aria umida che si taglia con il coltello. Desisto dall’accendere il condizionatore. Troppo rumore gratuito e luci accese a festa. Credo siano le tre del pomeriggio, italiane. Qui invece sono più o meno le nove di mattina. Il fuso orario che aggiunge un po’ di vita mi piace. Però, per continuare a vivere su due paralleli, decido di mantenere per il momento un orologio europeo.

    Adesso ho veramente fame. In cucina Martha non c’è, e questa cosa che non sai mai dove siano le persone che poi spuntano all’improvviso è davvero bizzarra. Luis aveva millantato una specie di colazione, ieri sera, ma forse non siamo state molto espansive e ora ci ritroviamo in una specie di castigo, condannate a cercare in solitudine cibo e orientamento.

    Martha, che sbuca dietro i pappagalli muti, ci dice che il mare sta a destra, uscendo. Che davanti, tutto dritto, c’è il Capitolio (e quindi il caffè, traduco mentalmente io). A sinistra, il quartiere della Veja Habana e, a destra, quello di Centro Habana, in cui ci troviamo. Poi, se arrivi sul Malécon, il lungomare che abbraccia la baia, ti è tutto chiaro.

    Non a noi, ma comunque usciamo. Procediamo a memoria, verso le vie in cui vediamo brulicare un po’ di gente. Fa fresco, l’aria è pungente, tutti sono indaffarati, c’è un discreto caos. All’angolo con calle Neptuno c’è una cafetería. Il proprietario, José, ci fa grandi gesti e manda baci. Assomiglia a Compay Segundo e anche a un trafficante d’armi, però molto vecchio. Ci sta simpatico, lo salutiamo con la mano aperta, un gesto infantile e bonario, da nipoti.

    Lungo il marciapiede, intanto, si avvicina Maria. È affabile, rumorosa, rotonda e dopo quattro chiacchiere e un po’ di chilometri ci porta con sé nella vana ricerca di un caffè. Ma è troppo presto, forse, per poter mettere qualcosa sotto i denti: la città si sta risvegliando piano piano. Maria ci fa vedere un tesserino, è una guida, ha dei parenti in Italia (chi non ne ha, qui?) e si offre di accompagnarci ancora un po’ in giro così, senza pretese, mostrandoci qua e là i capisaldi del quartiere: la Casa de la Música, la bodega dove comprare la carne per

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