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Un'infanzia quasi felice
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Un'infanzia quasi felice
E-book133 pagine1 ora

Un'infanzia quasi felice

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Info su questo ebook

Un gruppo affiatato di amici che si affaccia sulla soglia dell'adolescenza gioca a calcio in un cortile di Roma-Ostiense e si avventura sul Lungotevere. La loro è un’infanzia spensierata. Finché, l’8 giugno 1985, un evento drammatico imprime una svolta improvvisa alle loro vite.

Costretti a lasciare il palazzo in cui sono cresciuti, gli amici si perdono di vista. Trent’anni dopo, la morte in circostanze misteriose di uno di loro li costringe a interrogarsi su quanto è accaduto nel lontano 1985. Riaffiorano così esperienze ed emozioni che avevano rimosso, e le loro convinzioni iniziano a vacillare. Mentre fanno i conti con il proprio passato, si prepara l’atto finale di un dramma che nessuno di loro ha saputo capire.

Sullo sfondo emerge il mondo degli adulti: la madre di Massimo, che sa di basilico; la signora Rosa, piena di vita e di ammiratori; Ahmed e il suo vocione, che rimbomba nelle scale; il padre di Anna, che non riesce più a leggere; Fatima, con i suoi capelli lucenti.

Ambientata nella Roma popolare, tra segreti inconfessabili e misteri inquietanti, la narrazione, condotta sul filo dei ricordi, offre uno spaccato umano che commuove e disturba, attrae e respinge.

LinguaItaliano
Data di uscita17 apr 2019
ISBN9788869345050
Un'infanzia quasi felice
Autore

Elisa Lyon

Elisa Lyon vive a Milano. Docente universitaria, ama la montagna, i gatti e i libri.

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    Anteprima del libro

    Un'infanzia quasi felice - Elisa Lyon

    Elisa Lyon e Angelo Meis

    Un’infanzia quasi felice

    Romanzo

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, aprile 2019

    Isbn 9788869345043

    e-Isbn 9788869345050

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Foto di copertina: gasometro, Roma

    Disegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    www.eureka3.it

    Elisa lyon

    Vive a Milano. Docente universitaria, ama la montagna, i gatti e i libri.

    Angelo Meis

    Vive ad Abbiategrasso. Laureato in Storia, lavora all’Università di Milano e scrive racconti e romanzi dall’età di sette anni.

    A Roma la bellezza si perde in qualcosa di struggente, una sensazione che mi circola nel sangue mentre percorro la strada che mi porta a casa. La via che mi accompagnò per parte della mia vita. La vita di prima.

    Dedica

    Restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,

    le luci nel buio di case intraviste da un treno:

    siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno...

    Incontro - Francesco Guccini

    Roma, 7 novembre 2017

    Un uomo di quarantatré anni vive circa quindicimila giorni. Di questi se ne ricorda nei dettagli qualche decina. Il resto diventa una massa informe di eventi. Ma, proprio per come è finita, ricordo tutto del sette novembre, dal mio risveglio al momento in cui l’autobus 170 arrivò in via degli Stradivari. Era il giorno in cui avevo deciso di far luce, una volta per tutte, sul mio passato. Un trascorso che avevo rimosso e che ora, dopo anni, era tornato all’improvviso, come se avesse consapevolmente scelto di farlo. Solo lei poteva aiutarmi a capire. L’avrei vista, quella sera, magari senza nemmeno riconoscerla. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che ci eravamo incontrati.

    Dovevo trascorrere la giornata in qualche modo, ingannando l’agitazione che sentivo nello stomaco. Passeggiai lungo il Tevere, osservando gli argini verdastri, cercando con il corpo il sole. Sulla riva sinistra arrivava una donna e per un attimo mi guardò. Portava con naturalezza due occhi fondi e gialli, un passo svelto, una sciarpa arancione al collo. E io pensai a com’era bello e brutto il Lungotevere, a come poteva ispirare due sentimenti contrapposti nel medesimo istante. Da un lato la donna, dall’altro io. Chissà quali storie diverse e chissà quante cose in comune, se solo ci fossimo incontrati.

    Poi andai in centro. Vagai, seguendo il flusso della gente e i rumori della strada. Ricordo quel ragazzo dal viso lungo e dalla giacca troppo corta, la signora con il cane, l’uomo che masticava rumorosamente un panino con la porchetta, tra via dei Serpenti e via Panisperna, dove l’edera si china sui passanti. Nel cielo terso si addensavano nubi scure, si rincorrevano sfilacciandosi, sospinte dal vento. Mi fermai all’incrocio e osservai prima il Colosseo, poi Santa Maria Maggiore. Una in alto, uno tanto in basso da sembrare piccolo piccolo. Come pare gigante l’Anfiteatro Flavio, invece, visto dai Fori Imperiali.

    Quindi sottoterra, in un vagone della metropolitana, tra due cinesi dai pantaloni stracciati, una ragazza con lo zainetto firmato dagli amici e una donna con un taglio degli occhi che ricordava Tippi Hedren, nonostante il caschetto di capelli neri. Mi sorrise o almeno mi piace pensarlo.

    A Testaccio, dopo essere passato accanto alla piramide, andai a mangiarmi una Cacio e Pepe e mi sembrò meno pepata del solito.

    Il pomeriggio in stazione Termini a leggere un libro. Intorno un andirivieni continuo. Nessuno mi rivolse la parola, né io tentai di attaccare discorso. Avevo in mente solo di parlarle, quella sera, e avere da lei una conferma di quanto sospettavo. Il tempo sembrava non passare mai.

    Uscii all’aria aperta e passeggiai fino a che decisi di prendere il 170, proprio in via degli Stradivari, appena dopo Ponte Testaccio, per arrivare in anticipo all’appuntamento. Si mise a piovere, una pioggia pesante e sporca. Vedevo le auto parcheggiate disordinatamente, i cassonetti e un sacco dell’immondizia buttato più in là nella carreggiata. Poi, ad un tratto, la pioggia smise di cadere, l’autobus sbucò dal ponte e la gente iniziò ad accalcarsi alla fermata. Intorno a me un uomo di mezz’età, dal viso scarno, un ragazzo con la felpa scura e il cappuccio a coprirgli il viso, una donna dall’aspetto vagamente famigliare, con un tatuaggio vistoso, una specie di serpente che si arrampicava lungo il braccio. Mi sentivo osservato, teso, volevo parlare con qualcuno. Pensai a mio fratello, era giusto che anche lui sapesse.

    Lo chiamai. Il telefono squillò a lungo, ma non rispose. Né alla prima chiamata, né alla seconda. Con il cellulare ancora in mano mi avvicinai all’autobus e finii sotto le sue ruote.

    Annamaria

    L’ho riconosciuto subito, appena ho visto la foto nella sezione della cronaca. Non che io legga i giornali. E chi li compra più? È stato un caso, una di quelle coincidenze che ti fanno venire la pelle d’oca, se ci pensi: il Messaggero aperto proprio su quella pagina, al bar, mentre bevevo un caffè. La foto di un uomo, lì in mezzo, a guardarmi dritto negli occhi. Era lui, la persona in piedi accanto a me, in metropolitana, due giorni fa. Uno zainetto separava di qualche centimetro i nostri visi, e io gli sorrisi. Mi ricordava Giovanni, l’amico inseparabile del primo piano, prima che mi trasferissi con i miei a Trastevere. Le partite a calcio in cortile, il primo bacio. Avrei voluto dirgli qualcosa. Ma se poi non era lui? Aveva i suoi occhi grigio-verdi, il viso affilato attraversato da un mezzo sorriso, ma lo sguardo era diverso. Lontano, assente. Fu forse proprio per il senso di colpa che provavo guardando quell’assenza che decisi di seguirlo, e seguendolo cercavo nella testa le parole. Delle parole.

    Salì lentamente le scale, uscì nel sole di mezzogiorno, proseguì fino in via Mastro Giorgio e si sedette al tavolo di un ristorante all’aperto. Mi accomodai poco distante, facendo finta di leggere il menù. Vedevo i suoi capelli scuri, le spalle un po’ ricurve, e dal movimento della testa intuivo che gli occhi rincorrevano le formazioni fantasiose degli uccelli migratori nel cielo terso. Macchie puntiformi che si ricomponevano e scomponevano freneticamente, come viaggiatori ubriachi diretti verso il caldo. Sei tu? gli avrei potuto chiedere, l’hai poi ritrovata la palla giallo-rossa, quella con le firme dei giocatori?. Ma ogni volta che girava il suo sguardo verso di me abbassavo gli occhi e mi trovavo a contemplare i sanpietrini. Prima che decidessi il da fare pagò il conto e lasciò il ristorante. Lo seguii fino alla sala d’attesa di Termini, dove per un tempo che sembrò interminabile fece finta di leggere un libro. Mezz’ora sulla stessa pagina, lo sguardo fisso su un qualche punto del foglio.

    Finché, a un certo punto, decisi di andarmene, sentendomi ridicola. Ricordo che il cielo della sera allungava le ombre sul pavimento dell’atrio e lo dipingeva di un rosa pallido. Una volta fuori, nel piazzale gremito di gente e valigie, notai le nuvole scure e dense avanzare, circondando gli spicchi di azzurro. I ricordi si affollavano nella mia testa, disordinatamente. Credevo di aver dimenticato tutto e invece eccoli lì, ad accavallarsi e a reclamare uno spazio.

    Ora, leggendo l’articolo, so che si trattava davvero di Giovanni. È morto poco dopo aver lasciato la stazione, cadendo dal marciapiede mentre passava un autobus. A saperlo prima, forse le parole le avrei trovate. Gli avrei detto, ti ricordi? e l’avrei baciato come quella volta, quando ci eravamo nascosti mentre giocavamo a nascondino. Ti ricordi? Ero caduta dalla bici e mi avevi messo un cerotto sul ginocchio. Ti avevano rubato la palla e io ti avevo regalato, per consolarti, il mio Topolino. E non importa se non eri tu. Avrei potuto baciarti comunque e dirti, Rimani.

    Giulio

    Ho sempre amato partire dall’Hartsfield-Jackson di Atlanta. C’è un che di rasserenante nel vedere, dal finestrino dell’aereo, le case in legno bianco circondate dalla foresta dipinta di colori autunnali.

    È tutto diverso appena salgo sulla coincidenza, a Parigi, e osservo la fredda struttura del Charles de Gaulle. È così, all’improvviso, come ci si ricorda a un tratto di non aver spento il gas o di aver scordato il portafoglio nella giacca messa a lavare, che realizzo di viaggiare verso il funerale di mio fratello. Non so descrivere esattamente cosa provo al pensiero di non rivederlo più; del resto ci siamo parlati di persona solo due o tre volte, negli ultimi trent’anni. Mi perdo nella cornice del finestrino, pensando a come siamo messi di fronte a scelte decisive senza aver la minima idea di quanto lo siano. Se solo avessi risposto al telefono, quel pomeriggio, forse ora non sarebbe morto.

    Mentre l’aereo sorvola le Alpi immagino mia moglie e mia figlia, rimaste negli Stati Uniti, poi fa capolino nei pensieri la mia famiglia di Roma, scomparsa un pezzo dopo l’altro negli anni in cui ero distante.

    Ad attendermi agli arrivi c’è un lontano cugino, deve tornare al lavoro e me lo fa capire guardando più volte l’orologio, impaziente di lasciarsi alle spalle questa storia. Non siamo così diversi, dopotutto, ed è forse per questo che con lui sono più caloroso del dovuto. Mi accompagna al taxi e, salutandomi, mi dà il portafoglio e il cellulare di mio fratello; oggetti che Giovanni aveva indosso al momento della morte e che la polizia ha

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