Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Ecce Omo
Ecce Omo
Ecce Omo
E-book257 pagine3 ore

Ecce Omo

Valutazione: 5 su 5 stelle

5/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

'Non si lotta solo nelle piazze' sosteneva Pasolini 'la lotta più dura è quella che si svolge nell'intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti.' E per Martino incontrare Dennis sarà l'occasione per capire che nella guerra per i diritti civili, la battaglia più importante è quella con se stessi.

Insegnante di letteratura italiana in un liceo classico, Dennis invoca per le parole il potere di plasmare l'ethos e le qualità morali di un uomo, affinché l'educazione alla conoscenza non si orienti verso una sterile erudizione ma accresca la riserva di sensibilità e doti umane degli individui, spostando l'angolatura dello sguardo sino all'area di giurisdizione dell'incommensurabile.

Dennis, forte della grazia interiore del maestro carismatico, auspica che le parole escano dal loro status intellettuale e tornino a vibrare come corde del cuore.

Martino, diciassette anni, indole da emotivo e intelletto luminoso, è vittima di scherno da parte della frangia più bellicosa della classe, una gioventù afasica e violenta che nessuna agenzia educativa ha saputo riscattare da un percorso esistenziale adattato sui tropismi di un'umanità schiantata.

Dennis, dal canto suo, ritiene che l'unico modo per debellare il fenomeno del bullismo sia lavorare sulla coscienza individuale dei ragazzi, creando, con le parole e l'esempio, una risonanza nell'alveo più profondo del loro cuore, e restituendogli il coraggio di immolarsi per le proprie passioni. Assunto fondamentale del romanzo è che la forza interiore, temprata sulle virtù, metta sempre al tappeto la prepotenza.

Dennis, col suo insegnamento, si rifà all'etica eudaimonistica degli antichi, ricorrendo alla concezione socratica di virtù dell'anima, il cui unico scopo è il raggiungimento della felicità, che si consegue comportandosi rettamente. Senza individui liberi, educati al valore civico, non può esistere nessuna forma di emancipazione sociale.

Questo comporta una presa di coscienza culturale, di contro a un sentimento demagogico che solletica gli istinti meno nobili, alla ricerca di un consenso facile, privo di spirito etico. Parafrasando Emma Goldman, diremo che la vera emancipazione, prima che nei seggi elettorali e nei tribunali, nasce nell'anima delle persone.

Nel suo percorso di crescita personale, Martino incappa nella sofferenza riconoscendola come unico imprinting che la vita gli abbia fornito, destinato, come si rivelerà, a boicottare ogni legame che tenti di affrancarlo dalla solitudine. Dopo una lite furibonda con la madre, che lo osteggia richiamandolo all'ordine di una condotta sociamente accettabile, le legge il brano del Vangelo secondo Giovanni in cui Ponzio Pilato lascia che flagellino Gesù senza muovere un dito.

Sarà proprio il funerale della madre, l'occasione in cui Martino riuscirà a trovare il coraggio di parlare con Dennis e capire che il dolore, quando non è distruzione, è uno stato di grazia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 lug 2019
ISBN9788831631457
Ecce Omo

Correlato a Ecce Omo

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Ecce Omo

Valutazione: 5 su 5 stelle
5/5

1 valutazione1 recensione

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

  • Valutazione: 5 su 5 stelle
    5/5
    Ho letto Ecce Omo tutto d’un fiato. Romanzo esilarante, ironico, ricco di spunti di riflessione. Trama ben congegnata. Straordinaria sensibilità musicale dell’autrice che ci guida all’interno di un percorso sonoro adatto a palati fini. Tratta il tema del bullismo in modo originale; diverte, sconvolge, rinnova la nostra sensibilità, suggerendo uno sguardo sul mondo che è al tempo stesso di levità e profondità. E ognuno estrapola da questo variopinto affresco umano, perle di saggezza che esibiscono verità cruciali a mo’di aforisma. Da leggere e rileggere!

Anteprima del libro

Ecce Omo - Barbara Ferretti

Wind)

I

Sara Montichiari, giornalista affermata ed esperta economista, vantava una schiera di ammiratori più folta dell’elenco dei sospetti comunisti conservato negli archivi federali di Washington durante la guerra fredda. Il piglio altero e lo sguardo algido si attagliavano perfettamente alla sua bellezza teutonica, e perfino il suo caratteraccio era considerato una virtù: la credenziale migliore per una donna in carriera. Perché Sara Montichiari, sul lavoro, non sbagliava un colpo. Eppure, ci sono individui irreprensibili in ufficio che, tra le mura domestiche, riescono a diventare dei perfetti rompiballe. È un fenomeno osservabile su larga scala. Allo stesso modo di quelle grosse aziende che spendono una fortuna per finanziare progetti di tutela ambientale e poi scaricano materie tossiche nel mare, anche la giornalista dell’anno, da qualche parte, doveva avere i suoi canali di scolo. E comunque, diciamolo pure, l’unico difetto di Sara Montichiari ero io, suo figlio.

A Bagnacavallo, mia madre la conoscevano tutti. Ogni sera percorreva un tratto di via Trento Trieste, tagliando per il sentiero ghiaioso che dal Giardino dei semplici conduce a piazza della Libertà, dietro la porta in legno del complesso dei frati. Rivolgeva un cenno di saluto a chiunque le capitasse di fronte, dal giardiniere all’operaio che ripuliva i tombini. Poi entrava in casa e non si accorgeva nemmeno che io fossi lì.

I chiodi fissi di mia madre erano tre: trovare motivi per darmi del fallito (per questo le bastava un nanosecondo), scrivere articoli di economia politica e ascoltare canzonette sentimentali. Nonostante assomigliasse tanto ad un passatempo stupido, il terzo chiodo fisso fu, in realtà, la sua àncora di salvezza. Si spende una vita intera alle prese con le proprie passioni, mentre si scala la cima delle grandi imprese. E alla fine si decide di perdere la quota conquistata nel tentativo di riacciuffare anche una sola di quelle mere illusioni, che sembravano avere un unico scopo, quello di farti sentire vivo. A mia madre ripetevo sempre la stessa barzelletta quando avevo dieci anni: se ti cade una radio sulla testa, augurati che sia sintonizzata su un canale di musica leggera. Nel corso del tempo, ho capito che a volte sono le cose che non ti aspetti, a salvarti l’esistenza. Invece, per quanto riguarda tutto il resto, non ci ho mai capito granché. Mamma, ad esempio, la detestavo, ma chissà perché, avevo ereditato moltissime delle sue caratteristiche, a parte il fatto che non ero, e mai sarei stato, un homo economicus. Biondo cenere come lei e occhi di un azzurro vetroso; lagnone e vittimista, ma inaspettatamente volitivo; mi vestivo spesso di tutto punto, con il mio adorato gilettino di jersey, sotto il completo di velluto verde che mi aveva portato da Leeds in occasione del reportage sugli italiani impiegati come operai nelle fabbriche inglesi. Per anni, a tavola, non si parlò d’altro: il vituperato Jason Vitale che insorse perché la paga degli italiani era inferiore rispetto a quella degli inglesi. Tra parentesi, mamma difendeva i diritti di tutti, tranne i miei. Ricordo ogni cosa di quel reportage, e Jason Vitale lo sognavo anche di notte. In compenso, ho un ricordo sfocato dei miei diciassette-quasi-diciotto anni. Un po' come quando guardi qualcuno attraverso il vetro smerigliato della doccia: da una distanza ravvicinata non vedi che un flebile riflesso dei tuoi occhi, ma nemmeno da una lontananza siderale saresti in grado di mettere assieme i pezzi di quella sagoma. Nessuna immagine che dipinga contorni precisi attorno alla mia figura, mi soddisfa. E quella della doccia è la prima che mi salta alla mente quando ripenso a me stesso e all’ultima notte della mia adolescenza.

Ricordo che frequentavo l’ultimo anno del liceo e già ero l’ombra di Melissa Jacobi, che se la tirava perché era all’università e guidava l’auto.

Melissa faceva manovra per parcheggiare e sorrideva, sfoggiando una sfilza di denti bianchissimi, mentre io le ricordavo che le era stata consegnata la patente da tre settimane e aveva l’obbligo di prestare tutta la sua attenzione alla strada. Poi udii una botta tremenda sul paraurti posteriore. Melissa inchiodò e mi costrinse a cambiare di posto.

Che cazzo fai, coglione? Sentii qualcuno gridare, dietro di noi.

Cosa? Mi voltai.

Ho detto che cazzo fai!

Guardai Melissa che mi parlò sottovoce. Ti prego, di’ che guidavi tu, se mia madre viene a sapere che ho fatto una cosa del genere, non mi presta più l’auto.

Melissa, ho diciassette anni, se dico che guidavo io, mi arrestano.

Allora? Mi ritrovai quell’uomo di fianco.

Tirai giù il finestrino e cercai di convincerlo con le buone. Mi dispiace, non l’avevo vista. In pratica, stavo parlando con il suo stomaco, il suo giubbotto di pelle e la sua camicia fighetta.

Come puoi essere tanto idiota da non vedermi? Si abbassò e mi guardò negli occhi.

Mi grattai la nuca, paonazzo. Era l’amico del mio professore di letteratura italiana. Meno rotture di balle se avessi steso l’erede al trono della Corona d’Inghilterra.

Melissa uscì dall’auto. Ma se l’abbiamo toccata appena.

Sentite, lasciate stare. Per questa volta passa. Mi strizzò un occhio e accennò un mezzo sorriso. E tu, prima di metterti al volante di un’auto, accertati di avere compiuto diciotto anni. Tornò verso la sua auto. Osservai ogni suo movimento dallo specchietto retrovisore. Diede una gran accelerata in retromarcia e poi partì, sterzando per evitarci. Mi lanciò un’occhiata che mi raggelò. Ed ecco un primo indizio di chi fosse, Niccolò Sartori.

Hai visto come ha cambiato idea appena sono uscita? Mi disse Melissa, gonfiando il petto.

Ha cambiato idea perché mi ha riconosciuto. È l’amico di Dennis Santandrea.

Il tuo professore di italiano? E se glielo racconta?

Glielo racconterà senz’altro. A questo punto ho solo una paura fottuta di risvegliarmi nella bara quando sarò morto. Devo ricordarmi di ficcare nella tasca del merdoso abito firmato che mi infileranno i miei, un coltello a serramanico.

Perché non la pianti di sparare cazzate e approfitti per avvicinarlo e dirgli come sono andate realmente le cose?

E com’è che sono andate realmente le cose? Al volante non c’ero io che sono minorenne, ma c’eri tu che non hai ancora imparato a guidare. Cambia di molto, eh?

Potevamo almeno accordarci per una constatazione amichevole, a quest’ora avremmo il suo numero di telefono.

Per quello gli hai ammaccato il paraurti? La guardai confuso.

Se non sbaglio, mi stavi dicendo qualcosa, prima che la landa disabitata del tuo cuore entrasse in collisione con un pianeta abitato da forme di vita evoluta.

Che le notizie sono due, una buona e una cattiva. Sai, Rossetti, quel mio compagno di classe… Ha letto una cosa che ho scritto sul diario e ha capito che sono gay. Tempo qualche giorno e lo sapranno tutti.

Ok, e la cattiva notizia?

Spalancai la bocca e corrugai la fronte. Era questa.

Il giorno seguente era un venerdì. E il venerdì avevo due ore di Dennis Santandrea. La lezione era stata tutta sulla discrepanza di significato tra l’esperienza vissuta dal poeta e la realtà oggettiva. Per spiegare questo concetto, Dennis aveva letto una poesia su qualcuno morto in guerra, al quale le autorità ufficiali avevano tributato onore. L’avevano chiamato eroe, e lui era morto da vigliacco. Tutti erano lì a portare in trionfo il suo cadavere, e sua madre piangeva. Fuori c’era il sole, e dentro di lei il cielo era plumbeo. Cercava l’anima di suo figlio oltre la volta celeste, e il corpo di suo figlio se l’era divorato la terra. Eccetera.

Alla fine della lezione, Dennis si era allontanato dalla cattedra come esce dal cono di luce della scena un attore shakespeariano.

Seguii il consiglio di Melissa e mi avvicinai a lui. Stava infilando delle carte nella borsa. L’aula era praticamente vuota. Io lo guardavo insistentemente e lui se n’era accorto. Dennis mi notava sempre, come io notavo lui. Credo sapesse che io sapevo che lui sapeva.

Immagino sarà al corrente di quanto è accaduto ieri. Dissi.

Si guardò attorno. Qualcosa.

La colpa era nostra, ma non guidavo io. Le chiedo scusa.

Non chiedermi scusa.

Scusi. Strinsi i pugni. Oh scusi… non volevo dire scusi. Scusi.

Stai tranquillo. Le auto si aggiustano. Come va con tua madre?

Mia madre non posso portarla da un carrozziere. Sorrisi.

Sorrise anche lui.

Esco di casa all’alba per evitare di incontrarla. Continuai. "Quello è il momento che amo di più della giornata. Fuori è notte fonda e gli uccelli cantano. E, ogni volta, penso lo stiano facendo per me. Quella canzone... The birds will sing for us, l’ha mai sentita?"

Ed Harcourt?

Proprio lui. Ero strabiliato. Incominciai a sciorinare a Dennis un numero sconveniente di citazioni ricavate dal pantheon delle mie letture. Non mi fido delle persone che non ascoltano canzoni e che non cantano mai. Lo dice Shakespeare, l'uomo che non ha alcuna musica dentro di sé, che non si sente commuovere dall'armonia di dolci suoni, è nato per il tradimento e per gli inganni. Forse stavo un tantino esagerando.

Lo sapevi che certi volatili, mentre sognano, di notte, ripassano i loro canti?

Io li amo gli uccelli. E questa che cos’era, un’altra delle mie barzellette? Peccato non mi venisse affatto da ridere, anzi, mi stavo piantando le unghie nella carne per cercare di ricordare al mio cervello che il suo dovere era ‘reagire a stimoli reali’ e non, complicarmi la vita, cazzo.

Lui mi guardò sgranando gli occhi e cominciò con lo sfoggiare un repertorio pazzesco di scuse: ora ti devo lasciare, ho un'altra lezione, si è fatto tardi, e giù di lì.

Mi dispiace. Esibii l’espressione più contrita che avessi.

Per cosa?

Ed eccolo subito pronto a dichiarare la propria estraneità a quei ragionamenti da finocchio.

Io intanto ripassavo mentalmente la mia figuraccia: se ‘uccello’ è uguale a ‘membrum virilis’ e i finocchi amano quella parte anatomica e io affermo di amare gli uccelli, allora - deglutisco - mi dichiaro finocchio?

Stavo facendo la sauna nella camicia.

Cercai di uscirne con stile. Per quel sillogismo. Risposi.

Almeno dimostravo di aver studiato Aristotele. Solo che più fissavo la sua espressione, più mi rendevo conto che non era la logica di Aristotele, la cosa alla quale sembrava pensare in quel momento. Sì, lo so, la mia psichiatra avrebbe parlato di regressione al terzo anno di età e mi avrebbe rifilato una pasticchetta per schizofrenici.

Lui sorrise. Sei sicuro di avere capito cosa sia un sillogismo? Se vuoi, una di queste mattine, mi fermo, dopo la lezione, e ti spiego qualcosa, anche se non c’entra col mio corso.

È inutile. Tutti i mali vengono per nuocere, ma io mi convinsi del contrario, come il genio che aveva messo in giro il proverbio. In effetti, la mia preparazione su Aristotele è piuttosto lacunosa. Dissi. Temo che dovremo fermarci un bel po' di volte.

Roveri, il professore di greco, ha organizzato dei corsi pomeridiani per ripassare le lezioni con gli allievi più problematici. Ha già chiuso il numero ma non credo abbia nulla da obiettare se ti inserisco in extremis. Rispose lui.

Problematici in che senso? In quel contesto di idioti e zucche vuote, questo, avrei anche potuto prenderlo come un complimento.

Comunque, Roveri era un settantenne rachitico con la faccia da papa e un tono soporifero, che oltretutto si arrabbiava se non stavi dritto con la schiena o non dicevi ‘buongiorno’ prima di entrare in aula. So che qualcuno era dovuto tornare indietro ed entrare di nuovo, come in una comica di Buster Keaton.

Tra lui e Dennis non c’era gara.

Dennis aveva ventotto anni, i capelli scuri, disposti a morbide ciocche tagliate pari sulla nuca, gli occhi di un blu ipnotico, intensissimo, e un paio di occhiali dalle stanghette sottili, che portava a lezione, e si raddrizzava sul naso con l’indice, quando voleva darsi un tono o quando le situazioni sembravano sfuggirgli di mano. Prima di insegnare, aveva lavorato alla redazione dello stesso giornale per cui lavorava mia madre. Solo che, come tutti quei buoni amici che finiscono per conoscere troppo l’uno dell’altro, ad un certo punto della loro vita, Dennis e mia madre, smisero di salutarsi.

Mi congedai da lui con un cenno della mano e poi lo ritrovai, appena fuori dalla scuola. Non sapevo cosa dire e confidai in una frase di circostanza da parte sua, che non tardò ad arrivare. Hai trovato qualche spunto interessante nella poesia di… Pronunciò un nome mai sentito e io snocciolai quattro cazzate, una dietro l’altra, sapendo bene quali parole avrebbero acceso il suo interesse. Bravo. Disse lui. Sfrutta la tua sensibilità per crescere, e non per chiuderti in te stesso. Non usare la fragilità come alibi, coltivala nel profondo. Sei uno dei miei allievi più promettenti. Non deludermi. Che carico di responsabilità, di quei macigni che se ti cadono in testa non c’è speranza di uscirne vivi. Ero solo pazzo di lui. E di rimando, per la letteratura.

Comunque, la lezione l’avevo imparata: non è un funerale solenne a fare di un uomo un eroe, ma una giusta causa. Immolarsi per un destino in cui non si crede e in cui credono gli altri, pur di fronte a un sacrificio estremo, non riscatta la viltà dal suo corso infame.

La mattina successiva mi alzai all’alba.

Mi lavai, feci colazione, e passai in punta di piedi accanto alla stanza dei miei genitori.

Il telefono cellulare di mia madre vibrò due volte sopra la cassettiera dell’ingresso, e scosse l’armadio a muro, che fece tremare lo scaffale delle medicine, che provocò un tintinnio assordante tra le bottiglie degli sciroppi. Come in una filastrocca russa.

La porta della stanza di mia madre si aprì.

Alle quattro di notte, un telefono squilla per due ordini di motivi: un tuo parente è schiattato improvvisamente, oppure il tuo gestore telefonico ti offre l’opportunità di inviare messaggi gratis fino alla morte.

Le passai accanto e intuii che nessuno era deceduto, almeno fino a quel momento, e che i messaggi gratis in eterno non dovevano averla resa tanto euforica. Mi disse qualcosa con un filo di voce roca e io mi sentii la faccia tirata dalla paura di chi stia per essere sgozzato.

Non ho capito. Dissi, tenendomi il collo con una mano.

Ho chiesto dove diavolo vai fece una pausa tutte le mattine seconda pausa così presto. E poi guai se dicevo che mi trattava come un deficiente.

Comunque, esiste una situazione peggiore dell’essere colpevoli, ed è comportarsi da colpevoli pur non essendolo.

Mi fermo a studiare fuori dalla scuola.

Non ti vedrai mica con quello?

No.

Chi intendi tu? Chiese lei.

Chi intendi tu? Feci io.

Dennis Santandrea.

Ma, mamma, è il mio professore!

So tutto. Smettila.

Smettila tu di ascoltare le mie telefonate.

Quali telefonate? Mi stai dicendo che vi sentite al telefono?

Ero un coglione. Riuscivo ad ingigantire a dismisura colpe che nemmeno avevo. Io mi riferivo soltanto alle telefonate in cui, con Melissa, parlavo di lui. Adesso devo andare.

Mancano tre ore all’apertura delle scuole.

Mamma, vai a letto, per favore.

Assunse un tono lieve e apprensivo come se avesse avuto la gola di burro. Dimmelo se ti mette le mani addosso, Martino.

Non me le mette le mani addosso, vattene a letto. Mi diede un ceffone in testa. Me le metti tu.

Se ero uscito illeso da una discussione con mia madre, voleva dire che la giornata era iniziata bene.

Il sognatore di wildiana memoria non è colui che trova la propria strada alla luce della luna, punito perché vede l'alba prima degli altri? Ero di nuovo in buona compagnia, tra gli scrittori d'elezione di Dennis Santandrea. Durante le sue lezioni, mi imbottivo di aforismi, peggio dello Xanax della mia psichiatra. Almeno non mi sentivo intontito la mattina seguente.

Tirai fuori la bici dal garage. E mentre gli uccelli si dondolavano sui rami degli alberi coi loro canti soavi, flautati, idilliaci, io avevo le lacrime agli occhi. Alzai al massimo il volume dell’iPhone, e scorsi mentalmente le parole di 3 O’clock dei Blonde Redhead. Ripensavo a quanto aveva detto Dennis, al fatto che certi uccelli ripassassero i canti durante la notte. Che secchioni bastardi. Credevo cantassero in mio onore, e invece gli stronzi badavano solo a non sfigurare, la mattina seguente, su questo o quel ramo, dove avevano adocchiato una bella pennuta. Posai lo sguardo sulle fronde dell’albero in cima al viale. La ragazza che puliva la strada mi fissò, puntandomi addosso il palettone con cui raccoglieva foglie e cartacce. ‘Buongiorno’ le dissi. Lei sorrise con gli occhi piccoli della fatica. Ma, alle quattro di notte, mentre faceva la sauna in una tuta da palombara, ‘buongiorno’, proprio, non riusciva a dirlo.

Tra gente della notte ci si capiva, perché quello è il momento in cui i fantasmi dell’inconscio vengono a galla. C’è gente che piange e gente che ripulisce tutto, di notte, ci sono i funamboli che stanno in equilibrio sui loro sogni, e ci sono gli uccelli che usano il canto al posto delle ali.

La testa mi batteva nel punto dove mia madre mi aveva colpito. Cambiai tragitto e, senza rendermene conto, fui costretto a passare accanto a casa di Dennis. Tutto era spento, immobile, irreale. Mi fermai, fissai la sua finestra e pensai agli angoli di quella casa: scanalature, infissi, specchi, e le parole che si scambiavano Dennis e Niccolò, la mattina, appena svegli. Forse, al sopraggiungere dell’abitudine, di tutte quelle cose non ci si accorgeva più, e si smetteva di dare peso anche alle parole. Mentre per me era diverso, le parole di mia madre arrivavano sempre assieme a una manata piena di anelli puntuti. E non potevo proprio non dargli peso.

A un tratto vidi una luce accendersi.

Coi piedi cercai i pedali ma non li trovai. Provai a calmarmi.

Ormai era quasi giorno, il rumore delle auto aveva coperto quello dello stormire delle fronde e quello degli uccelli secchioni.

E io non avevo ancora trovato i pedali.

Conto le persone lungo il corridoio della scuola in modo compulsivo.

Quattro aule prima della mia.

Tre.

Due.

Una.

La cariatide di matematica da dribblare e un paio di teste calde - Rossetti e Contini - che si mettono in mezzo e non mi fanno passare.

E poi, finalmente, entro e lo vedo. Ma Dennis, quella mattina, non mi aveva guardato in faccia nemmeno una volta.

La tradizione della letteratura civile italiana, da Dante fino all’Ottocento di Foscolo e Manzoni, passando prima dal temperamento romantico di Alfieri col suo ‘forte sentire’, approda alla speculazione letteraria e filosofica di Leopardi che ha per oggetto gli stessi temi, ma in una prospettiva esistenziale. E qui c’è tutto il genio di questo poeta e padre del pensiero. Il perché del dolore, del male, della morte. C’è in lui una vera e propria tensione amorosa verso gli eroi del passato: i Patriarchi, gli spartani alle Termopili... Le vicende di Saffo e Bruto sono grandi esempi di forza morale. Leopardi, con la sua lirica insuperata, contrappone le virtù degli antichi alla miseria del reale. Fece una pausa. Occorre considerare l’amore commosso, sensibile e profondissimo per queste personalità eroiche, da una parte, e l’indignazione nei confronti delle ingiustizie e della mediocrità del presente, dall’altra. Gli ideali libertari assoluti di Leopardi non trovano legittimazioni storiche. C’è uno scollamento tra la poesia e la realtà, ma la poesia è forse l’unico filtro che la renda sopportabile. E questo risentimento nei confronti di una realtà vile e gretta, l’amarezza per l’eclissi delle certezze, il profondo divario tra il mondo ideale dei valori civici e ‘il secol superbo e sciocco’, la forte pulsione etica rimasta infeconda, trovano i loro correlati oggettivi nei tropismi della solitudine e della disperazione del suo mondo interiore. Si schiarì la gola. "Rossetti? Hai un sentimento altrettanto nobile da condividere con noi? Mi vai alla pagina dei Canti? Mi cerchi All’Italia e inizi a leggerlo, per favore? Ispirato

Ti è piaciuta l'anteprima?
Pagina 1 di 1