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La verità comoda
La verità comoda
La verità comoda
E-book374 pagine4 ore

La verità comoda

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Info su questo ebook

Nella discarica di Pietramelina a Perugia viene ritrovato il cadavere di una ragazzina che, secondo il medico legale intervenuto sul posto, sembrerebbe deceduta per strangolamento. A scoprirlo è stata una piccola rom, intenta a frugare tra i rifiuti, alla ricerca di qualche oggetto utile da riciclare. Purtroppo la vittima non ha nulla addosso che possa aiutare gli inquirenti ad identificarla, né chi l'ha rinvenuta è in grado di riferire particolari utili per scoprirlo. Poiché nei giorni successivi non si fa avanti nessuno per denunciare la scomparsa della ragazzina, le indagini procedono a rilento. Ma, proprio quando il commissario Anselmi, responsabile della squadra omicidi della Questura di Perugia, è ormai convinto che, senza ulteriori novità, il caso sarebbe rimasto insoluto, una serie di fortuite circostanze gli consentono, prima di identificare la vittima e poi di mettersi sulle tracce dell'assassino. La verità comoda è un thriller sul pregiudizio e su come, molto spesso, si sia disposti ad accettare come veri dei fatti piuttosto che altri, soltanto perché confermano le nostre convinzioni oppure perché evitano che al dolore si aggiunga altro dolore.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835826224
La verità comoda

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    La verità comoda - Domenico Carpagnano

    LA VERITÀ COMODA

    di Domenico Carpagnano

    Prima edizione: gennaio 2018

    Tutti i diritti riservati 2018 BERTONI EDITORE

    Via G. Rossa - Zona Ind. S. Sabina, Perugia (Pg)           

    Coordinamento editoriale: Jean Luc Umberto Bertoni

    Editing ed impaginazione: Barbara Bracci e Daniele Nizzi

              Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Questo libro contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o utilizzato in alcun altro modo, ad eccezione di quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo libro non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita o altrimenti diffuso senza il consenso scritto dell’autore o dell’editore. In caso di consenso, non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Immagine di copertina di Paola Balducci

    Domenico Carpagnano

     LA VERITÀ 

    COMODA

    A Mollica, il mio micio. 

    L’unico per il quale non ho difetti.

    "L’aspetto del signor Squeers non era attraente. 

    Egli aveva soltanto un occhio, 

    e il pregiudizio popolare ne vuole due." 

    (Charles Dickens, Le avventure di Nicholas Nickleby)

    I

    Non sté nind da fé pensò Pietro Bollino. I mecn sa ccom a l’ameic. C’ vu vdé c’ sa bbon, a sptté quenn t’abbsogn’n. 

    L’impianto di climatizzazione delle carrozze era saltato e, con quel caldo umido e appiccicoso, l’aria era diventata bollente. 

    Per fortuna il viaggio durava solo mezzora.

    Arrivato alla stazione di Perugia, scese dal treno con la giacca così zuppa di sudore che sembrava incollata al suo corpo. Per andare in centro avrebbe potuto prendere l’autobus, ma preferì il minimetrò, che aveva il capolinea a non più di un centinaio di metri da casa sua. Di solito non era affollato ed era anche più veloce.

    Al professore – così lo chiamavano i suoi vicini – proprio non riusciva di pensare in italiano. Quando parlava, cercava in tutti modi di non tradire le proprie origini, ma non sempre aveva successo. Soprattutto quando era sotto stress o fuori di sé. 

    Se non c’era nessuno ad ascoltarlo era tutta un’altra storia: si lasciava andare. La sua madrelingua era il dialetto. Era come se gli venisse normale di pensare e di imprecare in pugliese. Era cresciuto in campagna e là, così si giustificava, s’ perl accom s’ meng.   Senza etichette.

    Per non parlare poi del suo tentativo di correggere l’accento: era stato una guerra perduta. Quando gli capitava di risentire la registrazione della sua voce, non la riconosceva. Diceva che gli sembrava di ascoltare uno dei tanti comici pugliesi famosi in televisione o al cinema e ne rideva di gusto.

    Aveva una cinquantina d’anni e un aspetto stanco, ma faceva di tutto per non farlo vedere. La vita lo aveva segnato e le cicatrici faticavano a rimarginarsi, ma non gli piaceva condividere certi tormenti. Quello che più lo disturbava era il fatto che gli altri potessero compatirlo.

    Aveva smesso di parlare del passato molto tempo prima, ma non per questo lo aveva dimenticato. Non c’era giorno della sua vita che, da sveglio o nei sogni, non continuasse a riviverlo come il più doloroso dei cilici.

    Negli ultimi dodici anni aveva girato in lungo e in largo l’Italia. Ogni anno presentava all’Ufficio Scolastico una domanda di trasferimento in una città diversa. Era chiaro che andava alla ricerca di qualcosa… e quando gli chiedevano cosa, rispondeva serafico a scola bbon, parafrasando scherzosamente la buona scuola del governo Renzi. Ma mentiva. Mentiva spudoratamente. Non era quello che stava cercando.

    Perugia era solo l’ultima delle città in cui si era trasferito. Circa un anno prima aveva preso casa in via Floramonti, una stradina senza marciapiedi, lunga non più di una trentina di metri, forse anche meno, che collegava la signorile via Oberdan alla panoramica via Marzia. La parte iniziale della strada era così stretta che una macchina e un pedone insieme non riuscivano a passarci. Nei primi metri del vicolo, i palazzi, anziché in verticale, salivano obliqui, dando l’impressione che volessero incontrarsi. Sembravano voler sfidare le leggi della fisica.  

    Prima di aprire il portone, fermò lo sguardo sulla lapide che l’amministrazione comunale aveva posto il 25 aprile 2005 sul muro del suo palazzo e lesse lentamente.

    Nei seminterrati di questo edificio la polizia del regime fascista segregò e torturò gli antifascisti perugini...

    Chissà di quante di queste violenze erano stati testimoni silenziosi quei muri e chissà quante storie – immaginò – avrebbero potuto raccontare se solo avessero potuto parlare. Gli sembrò di sentire le grida strazianti di quei poveretti che, per non tradire i compagni, avevano messo in conto di dover rischiare la vita, e le risa sprezzanti di quegli aguzzini che godevano a vederli soffrire, curiosi di scoprire quale fosse la loro soglia del dolore, oltre la quale si sarebbero finalmente decisi a confessare anche ciò che non sapevano, purché le sevizie finissero.

    Gli venne da pensare che, in quel caso, ‘confessare’ non fosse proprio la parola più appropriata. 

    Ier’n l’alt ca s’avev’n cumbssé, non le vittime di quelle torture, ma la polizia di regime e i suoi uomini. 

    Pur non essendo un credente, contro ogni logica non disdegnava l’idea che potesse esserci un’entità superiore in grado di giudicare chi si fosse macchiato di crimini così ignobili, magari facendola franca in vita; salvo poi riconsiderare la questione e concludere che, se non fossero stati proprio gli uomini a fargliela pagare, quelli là sarebbero rimasti impuniti. 

    Se, anziché il generico riferimento alla polizia del regime fascista, l’amministrazione comunale avesse almeno indicato sulla lapide i nomi degli uomini – sia dei mandanti che degli esecutori – che avevano commesso quei terribili delitti, questo già sarebbe stato un risarcimento minimo per quelle povere vittime e per i loro familiari.

    Lui, antifascista e libertario convinto, per un attimo si mise nei panni degli aguzzini. Cercò di immaginare cosa potesse spingere un uomo a torturarne un altro e cosa provasse nel momento in cui lo brutalizzava. Andò alla ricerca di una ragione, anche di una sola che potesse in qualche modo giustificarlo. «La religione? La politica? No» si disse convinto, «nessuna delle due. E la vendetta? No, neanche quella!» fu la risposta che si diede, forse con meno convinzione. 

    Come in un incubo si vide al buio, in un lurido sgabuzzino di quel palazzo, mentre brandiva minaccioso un coltellaccio da macellaio insanguinato. Al centro della stanza, seduto di fronte a lui, con le mani e i piedi legati, c’era un uomo, o forse una donna. Non riusciva a distinguere bene i lineamenti del suo viso e, comunque, non gli pareva di averlo mai visto prima. O forse sì. Alle sue spalle, c’era sua moglie fuori di sé che gli urlava con tutto il fiato che aveva in corpo: «È lui, è lui! Fallo parlare lo zingaro e, se non parla, ammazzalo questo cane!»

    «Ma non è uno zingaro» le diceva lui. «Guardalo bene!» 

    Lei si avvicinava per guardarlo, gli alzava il capo chino con la mano e subito dopo, forse perché aveva riconosciuto la persona, scappava via terrorizzata gridando: «È morta, è morta!»

    «Buongiorno» gli disse sorridendogli una ragazzina in attesa davanti all’ascensore. 

    La fissò sorpreso con l’intensità di chi si è appena svegliato da un incubo. Se non fosse stato per quel saluto, non si sarebbe neppure accorto di lei. Si guardò le mani e tirò un sospiro di sollievo. Del coltello insanguinato non c’era nessuna traccia.

    Una volta ripresosi, ricambiò il saluto.

    A occhio e croce la ragazza aveva quindici anni, sedici al massimo. Aveva i capelli raccolti a mo’ di nodo sulla parte alta della testa, forse per evitare che si bagnassero per il sudore ed era abbigliata succintamente, come quell’insopportabile caldo estivo e la sua giovane età pretendevano; inoltre il viso era macchiato da un trucco pesante, assolutamente improprio per un’adolescente. Addosso aveva un profumo di pessima qualità. Pareva spruzzato sul suo corpo per coprirne il sudore più che per profumarlo con la sua fragranza. 

    Gli fece venire in mente Angela, sua figlia. Dovevano avere pressappoco la stessa età e, benché fossero passati già dodici anni da quando l’aveva vista l’ultima volta, il suo ricordo continuava a procurargli sempre lo stesso identico dolore. Quello che più gli faceva male era che se l’avesse incontrata per strada non sarebbe stato neppure in grado di riconoscerla. 

    Si chiese come avrebbe reagito se l’avesse vista conciata come la ragazza che gli stava di fronte. Ma fu solo il pensiero di un attimo.

    «A che piano si ferma?» chiese lei cortese.

    «Al terzo.»

    «Ah, anch’io.» 

    Incuriosito per la coincidenza e anche perché a ogni piano c’erano solo due appartamenti, uno di fronte all’altro, le chiese da chi stesse andando.

    «Sono la nipote della signora Rondine» gli rispose pronta la ragazza.

    «Oh, la vedova Rondine. Non sapevo che avesse dei nipoti. Perlomeno non qui a Perugia.»

    «Effettivamente sono solo di passaggio. Sono appena arrivata e ho pensato di farle una sorpresa.»

    A Pietro non sfuggì il suo accento straniero.

    «Non mi sembri italiana.»

    «Infatti lo sono solo per metà. Mio padre è tedesco, mia madre è di Perugia e io ho sempre vissuto in Svizzera.»

    «Vedrai che farà piacere a tua nonna... è una così brava donna.»

    La ragazza, dopo aver assentito con un impercettibile sorriso, prese a trafficare con il suo cellulare, come per dirgli che il terzo grado a cui era sottoposta non era di suo gradimento e che non era il caso di insistere oltre.

    Il professore colse il messaggio e smise di fare domande.

    La signora Rondine era un’anziana signora che viveva da sola in un appartamento sul suo stesso piano. Il marito era morto molti anni prima e comunque Pietro, che in quel palazzo abitava da appena un anno, non lo aveva mai conosciuto. Era molto riservata e per nulla invadente, anche se – un po’ per l’età, un po’ per la solitudine – non disdegnava di scambiare qualche parola con lui quando le capitava di incontrarlo. 

    Nonostante abitasse in centro, non se la passava molto bene. Se non fosse stato che arrotondava i suoi introiti affittando una camera a turisti o a studenti, con quel poco che riceveva di pensione difficilmente sarebbe riuscita ad arrivare a fine mese. 

    Mentre l’ascensore saliva al piano, a Pietro parve di ricordare che, in qualche occasione, la signora Rondine gli avesse detto di non avere figli, per cui non poteva essere la nonna di quella ragazza, ma al massimo la zia. 

    Eppour pensò, quenn l’è ditt ‘Vedrai che farà piacere a tua nonna’, non m’è ditt nind. 

    Considerata la sua età, quell’adolescente non poteva nemmeno essere la figlia di una sorella della donna o del suo povero marito, ammesso che ne avessero mai avuta una… e non poteva neppure essere la figlia di un fratello, visto che, secondo le informazioni, il padre della ragazza era tedesco. 

    E poi quella sua cadenza. Se non gli avesse detto quali fossero le sue origini e avesse dovuto indovinarne la provenienza, l’avrebbe certamente associata più all’est Europa che non alla Germania o alla Svizzera; non c’era alcuna traccia nella sua voce del suono gutturale tipicamente tedesco.

    Per sciogliere i dubbi gli sarebbe bastato chiederglielo ma, vista la sua reazione precedente, pensò che non fosse il caso. Dopotutto, che la signora Rondine fosse la nonna o la zia – e, se sì, da parte di chi – per lui non faceva alcuna differenza.

    Quando l’ascensore arrivò al piano, la salutò e si avviò verso il suo appartamento. 

    Entrato in casa, si tirò la porta alle spalle e posò le chiavi nel portaoggetti. Era ormai entrato in cucina, quando ebbe un ripensamento. Curioso di vedere la reazione di sorpresa della vedova una volta che avesse visto la nipote, ritornò sui propri passi e guardò fuori attraverso lo spioncino.

    La solitudine è un animale feroce e i momenti in cui si riesce ad avere la meglio su di lei meritano sempre di essere festeggiati. Così lui si aspettava che la ragazza le saltasse addosso e la riempisse di baci e che rimanessero avvinghiate in un lungo e dolce abbraccio...

    Ciò che vide, però, non fu esattamente quello che si era immaginato di vedere. 

    La ragazza suonò il campanello per quattro volte di seguito, come fanno i ragazzini per dire alla mamma che sono tornati e, senza aspettare che qualcuno la facesse entrare, prese dalla borsa le chiavi e aprì la porta da sé. Ovviamente nulla escludeva che quelle chiavi potesse avergliele date la stessa signora Rondine, ma ciò che Pietro trovò strano fu il fatto che il portachiavi fosse assolutamente identico a quello che aveva visto mille volte nelle mani della sua anziana vicina. Non si contavano le volte in cui aveva preso benevolmente in giro la vedova per quel portachiavi così ingombrante e dai colori così vivaci.

    «Vedrà professore, quando arriverà alla mia età, questo sarà il solo modo che avrà per ricordare dove ha riposto le sue cose» si schermiva la donna.

    Probabilmente aveva ragione chi gli diceva che era diventato paranoico e sospettoso di ogni cosa ma, paranoia o no, decise di chiarire subito la questione. Se non l’avesse fatto, non sarebbe stato tranquillo per il resto della giornata e probabilmente quella notte avrebbe finito per non chiudere occhio. Non se la sarebbe perdonata se fosse successo qualcosa alla vedova e non avesse fatto nulla per impedirlo.

    Non sapeva ancora quale scusa si sarebbe inventato, ma qualcosa gli sarebbe certamente venuto in mente.

    Suonò alla porta della sua vicina. 

    Mentre attendeva che gli aprisse, udì prima delle voci indistinte e poi, dopo un prolungato silenzio, si sentì osservato attraverso lo spioncino. Era come se dall’interno di quella casa non avessero ancora deciso se rispondergli o meno.

    «Sì?» gli chiese infine una voce dall’altra parte della porta.

    Pietro, riconoscendola, tirò un sospiro di sollievo. 

    «Buongiorno signora Rondine, sono il professor Bollino, il suo vicino» le rispose e poi, dovendo giustificarsi, s’inventò la più classica delle scuse. Forse la più banale, ma anche la più verosimile. «Mi perdoni se l’ho disturbata, ma mi sono accorto solo adesso di essere rimasto senza zucchero. Non è che può darmene un po’?»

    «Attenda un attimo. Vado a prenderglielo» gli rispose con freddezza insolita la donna. 

    Pietro fu turbato dal comportamento della vedova. Non era mai capitato che non gli aprisse la porta e che lo lasciasse in attesa sul ballatoio senza invitarlo ad accomodarsi. Era sempre così affabile e cordiale con lui, in cerca delle scuse più improbabili pur di scambiare quattro chiacchiere. Gli parve di sentirla, come tante altre volte, dire: «Sa, professore, quando si è soli, se non si parla con qualcuno, va a finire che ci si parla da soli e si diventa matti.»

    L’ultima volta che l’aveva incontrata era stato un paio di giorni prima e si erano fermati a parlare per strada. Lui era preoccupato perché avrebbe dovuto organizzare una festa di addio al celibato per un amico e non aveva la minima idea di come fare; lei gli aveva detto che non era il caso di stare in pena per questo. 

    «Ma di cosa si preoccupa, professore? Fossero questi i problemi!» 

    Gli aveva consigliato di rivolgersi all’agenzia Amici in piazza IV Novembre. 

    «Non dovrà preoccuparsi di niente. Faranno tutto loro e vedrà che figurone farà con il suo amico!» gli aveva detto contenta di essergli stata utile.

    Pietro, non nascondendo il proprio stupore per quell’informazione, l’aveva presa in giro, strappandole un sorriso.

    «Prima o poi dovrà spiegarmi come fa a conoscere quest’agenzia, signora Rondine. Lei non me la racconta giusta, mi nasconde certamente qualcosa.»

    «Mio caro» si era lasciata andare la vedova, «non si faccia ingannare dalla mia età. Quando mi deciderò a scrivere la storia della mia vita, scoprirà cose che la stupiranno.»

    «E cosa aspetta a farlo? Sarò il suo primo lettore...» le aveva risposto Pietro, divertito.

    «Oh, non è certo il tempo che mi manca. Anzi, di quello ne ho più di quanto non mi basti. La verità è che non sono mai stata brava con la penna.»

    «Se è per questo posso aiutarla io» si era offerto il professore. «Lei mi racconta la sua storia e io gliela metto nero su bianco.»

    «Non è detto che non accada...» gli aveva sorriso possibilista la vedova. «Ma ora vada» lo aveva congedato accarezzandogli il braccio, «non stia a perdere tempo con una vecchia signora come me.»

    Mentre aspettava lo zucchero sul pianerottolo, ripensò a quella conversazione e a quanto lo avesse incuriosito e al tempo stesso turbato. Più si invecchia e più si è portati a credere di aver vissuto una vita che meriti di essere raccontata. Anche quando, in realtà, non è stata nulla di speciale. Forse è perché temiamo che dopo la morte non ci sia più nessuno che si ricordi di noi. 

    «Se non lasci nulla dopo di te» gli aveva detto quella volta la vedova, «sei destinato a morire due volte. Sì, perché non si muore una volta sola, caro professore, ma due. Una, quando veniamo a mancare fisicamente, e l’altra quando di noi non si ricorderà più nessuno. Guardi me, per esempio. Io non ho più nessuno. Sa cosa significa? Che quando arriverà la mia ora, sarò morta due volte.»

    Quelle parole, così confidenziali, non parevano uscite dalla bocca della stessa donna che lo aveva lasciato in attesa sul ballatoio.

    «Lei non ha parenti? Chessò degli amici?» aveva continuato la vedova. «La vedo sempre da solo...»

    Mentre lo diceva, pareva preoccupata più per lui che non per sé. 

    Pietro avrebbe voluto abbracciarla, ma non lo fece. Era come un’automobile con il freno a mano tirato e non era ancora pronto a raccontare la sua storia.

    «Sono tutti al mio paese» le aveva risposto evasivo, sperando che non insistesse oltre.

    «Buon per lei. Se li tenga stretti, solo così potrà sopravvivere alla sua morte.»

    Quelle parole, così affettuose, colpirono nel segno.

    Per fortuna, quel giorno, a schermargli gli occhi c’erano i suoi occhiali da sole.

    P’ derm u zucch’r pensò Pietro, sempre più convinto di avere fatto la cosa giusta, m’ va japrì a port, accssì vdeim ci è stat! 

    Sentì il rumore della catena di sicurezza che veniva inserita e, dopo un po’, la porta fu aperta per quel poco che la catenella potesse consentire. La signora Rondine allungò la mano e, attraverso il pertugio, gli porse alcune bustine di zucchero. Sembrava imbarazzata e al tempo stesso dispiaciuta. Era come se quella visita non se l’aspettasse e non fosse per nulla contenta di averla ricevuta.

    «Sta bene, signora Rondine?» le chiese premuroso Pietro.

    «Certo, certo» gli rispose la donna col tono di chi aveva fretta di troncare la conversazione ancor prima che cominciasse.

    «Ho conosciuto sua nipote» azzardò l’uomo per scrutarne la reazione.

    «Mia nipote?» gli rispose la signora come se non capisse di cosa stesse parlando.

    «Sì, poco fa siamo saliti insieme in ascensore. Mi ha detto che è venuta a trovarla.»

    «Ah, sì, come no, mia nipote. Mi scusi professore, ma ora devo proprio andare. Non mi sento molto bene e vorrei rimettermi a letto. La saluto…»

    «Certo, certo, signora Rondine. Mi scusi ancora… se ha bisogno di qualcosa o che le chiami qualcuno, non ha che da chiedermelo.»

    «Grazie, grazie. Non ho bisogno di nulla» gli fece quella tirandosi dietro la porta.

    Rientrato in casa, Pietro aveva più dubbi di quanti non ne avesse avuti prima di bussare alla porta della sua vicina. Di solito era lui a inventarsi le scuse più improbabili per chiudere la conversazione, ma non era stato così quella volta. Quei suoi modi così scortesi non li riconosceva affatto.

    Fino a quando non avesse trovato una giustificazione a quelle incongruenze, il tarlo del dubbio non gli avrebbe dato pace. 

    Si attaccò al telefono e chiamò Sara, la donna che ogni giorno si occupava di tenere in ordine casa sua e, un paio di volte alla settimana, anche quella della vedova. Quando si era trasferito a Perugia, era stata proprio la signora Rondine a suggerirgliela. 

    Aveva vent’anni meno di lui e, benché le avesse dato subito del tu e le avesse chiesto di fare lo stesso con lui, Sara non aveva mai smesso di dargli del lei, costringendolo a non insistere oltre per evitare di essere frainteso. 

    Dopo alcuni squilli finalmente gli rispose. 

    «Buonasera professore.»

    «Ciao, Sara. Spero che vada tutto bene. Senti, volevo chiederti se sai come sta la signora Rondine.»

    La donna non nascose la sua sorpresa per quella domanda così diretta. Era la prima volta che Pietro s’informava dello stato di salute della vedova e parve preoccuparsene.

    «Perché me lo chiede? Le è successo qualcosa?»

    «No, no» si affrettò a tranquillizzarla Pietro. «È solo che oggi l’ho vista così diversa dal solito.»

    «Ma non è partita?»

    «Perché? Sarebbe dovuta partire?»

    «Così sapevo. Ieri mi ha telefonato per dirmi che andava via per qualche giorno e che non ci sarebbe stato bisogno che io andassi a casa sua. Mi ha anche detto che mi avrebbe richiamata lei quando rientrava.»

    «Ti è sembrata normale?»

    «Direi di sì, anche se negli ultimi tempi sta capitando sempre più spesso che mi dica di essere in partenza e che non ha bisogno che le vada a pulire la casa.»

    «Che tu sappia, ha una nipote?»

    Se Sara gli avesse confermato che ne aveva una, pur continuando a non capire come mai la vedova fosse stata così scortese nei suoi confronti, non avrebbe avuto più alcun motivo di preoccuparsi della sua sicurezza. Probabilmente era per davvero ammalata.

    «Penso di no» fu la risposta della donna, che continuava a non capire il perché di tante domande.

    «Lo pensi o ne sei sicura?» la incalzò insoddisfatto il professore. 

    La sua era stata una domanda secca e voleva che la risposta lo fosse altrettanto.

    «Direi che ne sono certa, salvo che» Sara mise le mani avanti «non mi abbia mentito. La signora Rondine, quelle poche volte che ne abbiamo parlato, mi ha detto che i suoi parenti sono tutti morti da un pezzo e che, per scambiare qualche chiacchiera, le è rimasta una sua vecchia conoscente e quelli a cui affitta le camere… quando ci sono e sempre che abbiano voglia di perdere del tempo con lei.»

    Era quello che il professore voleva sentirsi dire. Sara gli aveva appena confermato che quella ragazzina aveva mentito quando gli aveva detto di essere la nipote della sua vicina di casa.

    «Sai chi è questa sua conoscente?» le chiese, risoluto.

    «No, non me lo ha mai detto» lo deluse Sara. «Qualche volta ho perfino pensato che volesse tenermela nascosta di proposito perché rappresentava un pezzo della sua vita che non voleva condividere con nessuno e di cui era gelosa. Nelle poche occasioni in cui sono stata presente alle loro telefonate, per impedirmi di ascoltare quello che si dicevano, mi ha allontanata con una scusa.»

    Pietro sbuffò per la frustrazione. Era chiaro che bisognava agire. Cercare ulteriori conferme sarebbe stato solo tempo perso.

    «Hai le chiavi dell’appartamento?»

    «Ovviamente sì, professore!»

    «Allora, passa da me, per favore. Devo parlarti. Ah, e porta con te le chiavi.»

    «Quando, professore?»

    «Appena puoi, Sara.»

    Chiuso il telefono, Pietro aveva il respiro pesante. Accostò una sedia alla porta e ci si mise seduto, in modo da percepire ogni minimo rumore proveniente da fuori. 

    Dopo mezz’ora, sentì aprire la porta della signora Rondine. Guardò attraverso lo spioncino e vide uscire un uomo. Aveva un aspetto distinto. Giacca, cravatta, borsa da lavoro. Se lo avesse incontrato per strada, avrebbe giurato che fosse un professionista. Un avvocato, un notaio o qualcosa del genere.

    Non gli sembrò che avesse un’aria pericolosa e, in un certo senso, il fatto che uscisse dalla casa della sua vicina, riuscì in qualche modo a tranquillizzarlo. In presenza di quell’uomo, la ragazzina non avrebbe certamente potuto farle del male. 

    Sicuro che fosse qualcuno a cui la vedova aveva affittato una camera, pensò che avrebbe potuto chiedergli informazioni sulle sue condizioni di salute. Gli sembrò una buona idea ma, mentre stava per uscire per andargli incontro, fu assalito dal dubbio che potesse essere d’accordo con la ragazza.

    No, no, non poteva essere. Un uomo così distinto, con giacca, cravatta e borsa da lavoro, non poteva essere un delinquente. Dove si è mai visto un ladro vestito in quel modo?

    Appoggiò la mano sulla maniglia, deciso ad aprire la porta, ma esitò ancora. Per quanto gli sembrasse improbabile che quei due, così diversi fra loro,  potessero

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