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Il Bambino di Pietrelcina
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E-book243 pagine3 ore

Il Bambino di Pietrelcina

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Info su questo ebook

Il bambino di Pietrelcina è un romanzo storico italiano di ultima generazione.

Un viaggio meraviglioso attraverso i rapporti che il piccolo e poi giovane, Francesco, quotidianamente instaura con Cristo Gesù e con la Madonna. Cornice protagonista di questo romanzo: il Sannio d' inizio secolo. Una terra mai colonizzata, madre di Santi e Streghe ad un tempo, la cui storia è scritta con maggior verità, più sui volti della gente, che nelle pagine di eminenti storici. Un popolo quello sannita, che con i suoi caratteri straordinariamente puri, nel bene e nel male, ha contribuito, come la terra con un seme, a dar vita a questo grande, eroico "Cappuccino", considerato dal Mondo, il più grande mistico del nostro tempo. Al di là del suo contenuto misterico, questo romanzo, è una perfetta mescolanza di elementi storici e, più che elementi d'invenzione, elementi tratti da un'analisi si spera, leale e sempre ispirata, comunque, mai guidata dai gratuiti fini pratici. Una teologia vicina alla gente, che affronta il problema della "predestinazione alla missione divina di ogni creatura" senza veli, cercando di arrivare a chiunque, attraverso il racconto degli sconvolgenti fenomeni che dimostrano la veridicità dell'accaduto, affrontando i concetti colonnari di questi argomenti.

Sergio Pacelli

Autore dal 1967. Premio Antonio Petito 1977 (consegnato da Diego Fabbri), elogiato dalla critica come autore e regista al Festival di Cannes '93. Antropologo, documentarista, regista inviato speciale per televisioni di stato in Siberia, Bulgaria, Russia, Mongolia, Turchia, Georgia. Esperto qualificato di antropologia della recitazione, e di tecniche di recitazione innovative. Autore di 93 opere teatrali, 56 film e 23 sceneggiature. Direttore dell'Accademia cattolica D'Arte Drammatica, è stato il primo autore nella storia della nostra Repubblica ad essere rappresentato presso la camera dei Deputati.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2016
ISBN9788822879486
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    Il Bambino di Pietrelcina - Sergio Pacelli

    IL BAMBINO DI PIETRELCINA

    di Sergio Pacelli 

    CAPITOLO 1 

    Introduzione

    Quando si scrive un romanzo, si passano molte ore, a volte giorni, mesi, se non anni, in compagnia dei personaggi che animano la storia che si sta raccontando.

    Quando la storia è realmente accaduta, poi, essa è animata non da personaggi, ma da persone; le quali, per altro, possono essere diventate personaggi per la loro intelligenza, per la loro unicità, ma ciò non toglie che esse hanno realmente vissuto una loro esistenza.

    In questo caso lo scrittore prova un certo imbarazzo ad entrare nelle loro vite.

    A volte, nel racconto, mancano dei piccoli pezzi, dei collegamenti; e ciò che è stato scritto su quella persona da altri autori, ciò che è stato detto o raccontato, comunque, ciò che l’autore sa, non è sufficiente a colmare il vuoto.

    Ed allora entra in gioco la coscienza di chi scrive, che deve badare a non strumentalizzare la vita di chi si sta raccontando, poiché questo vorrebbe a banalizzarla per scopi, casomai pratici.

    Bisogna ricercare la verità di quei momenti, di quegli avvenimenti di cui non si hanno notizie, analizzando sentimenti, emozioni, rapporti, pensieri inespressi, intenzioni e così via.

    Appare chiaro che, in questo caso, quella dello scrittore, è una grande responsabilità morale.

    Io non ho conosciuto Padre Pio da Pietrelcina, però ho trascorso la mia infanzia in poco più di un villaggio ad una manciata di chilometri dalla terra che lo ha visto nascere.

     Il suo cognome: Forgione, era il cognome di un mio compagno di scuola alle elementari. Ho conosciuto vecchi, donne, bambini, giovani, uomini, insomma tanta gente che ha calpestato la sua stessa terra.

    So come camminava; cosa mangiava; conosco il suono della sua lingua; conosco le storie che si raccontavano; il cielo stellato di quella parte del Sannio; i colori, gli odori delle erbe selvatiche; i volti scavati dal sole e le pietre, le tante pietre di quella terra, arida e generosa ad un tempo.

    Tutto ciò, insieme a tutto quanto ho potuto leggere, studiare su di lui, non è stato sufficiente ha colmare quei vuoti.

    Comunque, ciò che ho scritto non è frutto di fantasia, ma di analisi, spero leale e mai guidata da fini pratici.

    Per poter scrivere della sua infanzia, ho vissuto per molti mesi con lui ed in questi mesi ho imparato ad amarlo a tal punto, da portarlo ora nel cuore per sempre con me. Vi restituisco la sua infanzia, così come io l’ho vista.

    ***

    Il primo interrogativo che mi sono posto, è stato:  Da dove inizia veramente la storia di una creatura?  In questi tempi in cui ci dibattiamo per stabilire

    l’attimo in cui nasce la vita nel ventre di una madre e lo facciamo come ragionieri ad un bilancio che vogliono che quadri ad ogni costo; sentendoci, casomai, liberi da ogni colpa se solo interveniamo prima di quello che consideriamo lo "start-up; in questi tempi, dicevo, questo interrogativo potrebbe da solo reggere l’architettura narrativa di un romanzo.

    In realtà non c’è verso di dimostrare che la vita nasca o che essa muoia.

    Di certo c’è che essa si presenta ai nostri occhi.

    Qualora la vita nascesse, è comunque infantile ritenere che il suo inizio, come l’inizio della storia di una creatura, avvenga proprio e soltanto nel momento in cui noi riusciamo a riconoscere la vita stessa come tale.

    La bellezza della verità nascosta nell’interrogativo: da dove inizia la storia di una creatura, unione di spirito e corpo?, è protetta, quindi, da un dolcissimo mistero che regala, come ogni cosa che viene da Dio, a ciascun viaggiatore del pensiero, la certezza di non essere un mistero, ma, appunto, soltanto una semplice verità.

    ***

    Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, non nasce per conoscere dapprima la vacuità dissoluta del mondo, per poi raggiungere, attraverso un viaggio catartico, la santità.

    Egli nasce con troppe cose da fare per poter sprecare il tempo nella tomistica conoscenza del percorso da compiere.

    Dal primo vagito, alle visioni dei primi anni dell’infanzia, all’accettazione della lotta con l’Oscuro nella fanciullezza e così via sino alla donazione totale di se stesso, Padre Pio ci dà l’idea di una creatura che non è mai uscita dall’Eternità.

    Questo romanzo si ferma ai suoi primi quindici anni. Più che raccontare la sua infanzia e la sua adolescenza, prende spunto da fatti ed avvenimenti familiari, per osservare da vicino e, per quanto sia possibile, con una analisi rispettosa e, speriamo, ispirata, questo grande dono che Dio ha voluto concederci, come al solito, non senza perché.

    La presenza di questo Apostolo del Popolo, ha corretto la traiettoria di tantissime vite; ed in ognuna di esse ha fatto ciò che avrebbe fatto un asteroide che colpisce un pianeta impazzito, per riportarlo nell’orbita.

    ***

    Da dove inizia la storia di questa creatura se non dalla mente di Dio?

    Il mio romanzo inizia, però, soltanto dalle piogge che portano i semi dai quali nascono le erbe amare; le stesse che Maria Giuseppa, sua madre, raccoglie per portarle sulla mensa della sera in cui suo figlio Francesco viene concepito.

    Io non ho potuto salire più in cima! Ecco perché la storia di questa Creatura, nel mio romanzo, inizia da lì:

    CAPITOLO II 

    L’incarnazione

    Le montagne del Sannio sono inconfondibili. Di solito si stagliano contro il cielo terso, reso purissimo dal clima continentale di quella terra. Eppure non è difficile vederle reggere un cielo nero e minaccioso. In quei villaggi, aggrappati ai monti come un rampicante ad una parete, tutto sembra avvertire con sofferenza l’arrivo di una tempesta.

    Siamo nel 1886. Il Sannio è ancora un mondo a parte; si può ben dire: non colonizzato.

    Una piantina di erba selvatica tra le rocce del terreno brullo, si dibatte percossa dal vento; mentre la pioggia inizia a cadere, dapprima a grosse gocce, poi imperiosa e violenta.

    La lotta della piantina diviene ben presto impari. E’ una creatura avvinghiata alla terra, nell’estremo tentativo di salvarsi e cerca di proteggere con le foglie i suoi poveri semi, come una madre in una tempesta, farebbe con i suoi figli.

    La pioggia sui monti ora è torrenziale ed il rumore fragoroso della tempesta, provoca l’avvilimento della piantina.

    L’acqua che si fa strada tra le rocce, la estirpa dalla madre terra e la trascina via in un torrente di fango, sino ad un minuscolo pianoro nel quale la inghiotte in un gorgo.

    ***

    Ora è sereno. 

    Il sole sorge sempre dalle stesse montagne ed un vento leggero, che scuote appena le erbe, ora ingiallite, del campo, sfiora la terra e va a ritrovare il piccolo pianoro dove è stata inghiottita la piantina, come chi vuol rendere omaggio a chi, sino all’ultimo, ha lottato per la propria esistenza.

     Non sembra esserci vita, ma ad uno sguardo più attento, appare qualche minuscolo buco sul terreno.

    Come il gioco di un bimbo, il vento prende a seguire, spingendo il volo irregolare di una farfalla nei campi; poi si ferma e sembra guardare le minuscole ali che si allontanano, sino a perdersi: è un settembre ancora innamorato dell’estate.

    Il minuscolo pianoro, ora è rigoglioso di erba di campo. Le erbe amare selvatiche, inconsapevoli di dover contribuire a ricoprire un’anima, si lasciano muovere lievemente dal vento.

    Una mano di donna le sceglie con naturale sapienza ed è lei: Maria Giuseppa, la futura mamma di Francesco (P.Pio), che le sta raccogliendo.

    E’ sola in un campo collinare di straordinaria rigogliosità.

    Rapita dal rumoroso silenzio della natura che la circonda, dopo aver raccolto le erbe, siede all’ombra di un basso pruno.

    Poggia le erbe in grembo, scioglie i capelli, liberandoli dal fazzoletto che li raccoglie.

    Il sole è ancora alto, ma sta discendendo; la donna, serena, mastica una foglia dell’erba raccolta ed arriccia il naso sorridendo per il sapore amaro, ma piacevole; poi, appagata, affonda in quella pace, coadiuvata dal vento che, colmo di odori, viene annusato e quasi catturato dalla capra dei Forgione, che si dispone a favore di aria ed innalza la testa.

    Il vento continua a carezzare la terra, lasciando ondeggiare il velluto delle erbe più tenere e basse.

    Lo sguardo della donna spazia nel campo, per poi ritornare alle erbe che ha in grembo e che noi ritroviamo la sera nella sua casa; sono le stesse che sono state condite in un grande piatto di terracotta, il quale, insieme a del formaggio, a del pane e a del vino, imbandisce la povera mensa dei Forgione.

    La casa di Grazio Forgione e di sua moglie Maria, è molto piccola; sono un paio di stanzette, ma senza porta tra di loro, che fanno da camera da letto, da cucina e, insomma , da casa.

    Un bimbo (Michele, primogenito) di circa quattro anni, dorme pacifico nel suo lettuccio con le braccine alte sul cuscino.

    Grazio Forgione, il capofamiglia, usando dell’acqua che è in un grosso bacile, si sta rinfrescando a torso nudo, dopo la dura giornata di lavoro.

    La moglie osserva compiaciuta il suo uomo, lanciandogli uno sguardo sottocchio, mentre lui infila una camicia e raggiunge la tavola. Siede, riempie i due bicchieri, spezza il pane, attende sua moglie. La donna termina le sue faccende e siede anch’essa.

    I due, dopo il segno di croce, con rituale delicatezza iniziano a mangiare attingendo con la forchetta dall’unico grande piatto sulla tavola.

    Sul volto della donna è stampato un sorriso sotterraneo, come chi è consapevole della bellezza e dell’importanza del momento.

    Grazio, dopo un gustato sorso di vino e dopo uno sguardo un po’ incuriosito, ma comunque divertito, per l’atteggiamento di sua moglie, pensa che sia giunto il momento di aprire un certo discorso e le parla con la seriosità di un desiderio impossibile:

    - Per la terra della Piana.... Mi ci vorrebbe proprio un cavallo!

    La donna gli risponde senza mutare il suo atteggiamento e senza dare alcun peso alle reali difficoltà che vi sono per l’acquisto di un cavallo.

    Maria con quel suo strano sorriso, gli parla come se fosse estremamente semplice:

    - Compralo!

    Grazio le lancia uno sguardo un bel po’ interrogativo, come chi pensa che il suo interlocutore stia divertendosi, in qualche modo, alle sue spalle.

    Incuriosito, vuole verificare questo suo sospetto:

    - E un carro!...Si, anche un carro mi serve!

    E’ difficile cogliere in fallo una donna che ha un piano preciso in testa; perciò Maria continua a rispondergli senza mutare atteggiamento:

    - Comprala!

    L’uomo si sente alquanto preso in giro, ma non reagisce, disarmato dall’enigmatico sorriso di sua moglie.

    I due fanno ancora qualche boccone di quell’erba amara così piena di vita e di dolcezza. Grazio continua a scrutare sua moglie, divertito e stimolato dal suo atteggiamento, ma cerca di non darlo a vedere.

    La donna si rende conto che forse è giunto il momento di prendere l’iniziativa: si alza da tavola, per scomparire, poi, dietro l’arco dove c’è un gran letto in ferro battuto, con lenzuola ruvide di lino, di un colore inequivocabile di bucato:

    - Cavallo e carro..... Carro e Cavallo. Comprali tutti e due!..... Può darsi che stasera .... Nessuno ti dica di no!

    Grazio appare alquanto sorpreso dall’esplicito invito di sua moglie; si attarda ancora qualche attimo al suo bicchiere ed alle ultime foglie di quelle erbe, che porta alla bocca con grande gusto; poi, felice per essere desiderato, si alza; si porta verso il piccolo arco; guarda sua moglie ed un dolcissimo sorriso gli invade il volto.

    ***

    Il gran piatto in terracotta, vuotato del suo contenuto di erbe del campo, vede spegnere , per consunzione, lentamente il cero che è sul tavolo.

    CAPITOLO III 

    Il sogno di Maria

    Siamo nel campo collinare dei Forgione.

    Il basso pruno, all’ombra del quale Maria è solita fermarsi, è circondato da variopinti fiori di campo.

    Si legge nell’aria il maggio odoroso dei paesi del Sannio.

    La donna con il suo cesto di erbe amare, mentre sorveglia le tre pecore del suo gregge al pascolo, siede affaticata; poi con serena felicità, si carezza la grossa pancia che preannuncia una nascita imminente.

    Si guarda intorno; vorrebbe sdraiarsi. Le piacerebbe un sacco stendersi nell’erba per sentire da vicino la fragranza del campo, ma la sua pancia è più che ingombrante, eppure le dà un senso di allegria. Si gira ancora intorno; è capricciosa: vuole farlo. Qualche tentativo, poi vi riesce.

    L’erba l’accoglie e quasi scherza con lei per nasconderla.

    Maria, dopo essersi tirata via una pietra da sotto al fianco, che rendeva scomodo il suo giaciglio, guarda il cielo e si perde in uno spazio senza pareti.

    I suoi occhi vedono il cielo, disturbati, scherzosamente, dai fili d’erba che si sporgono e si ritraggono sul suo volto, sospinti dal vento.

    Coinvolta sino infondo dalla serenità di quest’immagine, si lascia andare ad un dolce stato di dormiveglia, che ben presto la trasporta nel mondo del sogno.

    Nella luce improbabile di quello strano mondo che ci vede, il più delle volte, protagonisti e spettatori di noi stessi, Maria vede la grande fontana, giù nella valle, dove le donne del piccolo borgo, sogliono attingere l’acqua da bere e, raccolta che l’hanno in un’anfora di terracotta, portano la stessa sul capo, su per le ripide scale di pietra sino al paese, con un equilibrio fantastico, che non impedisce loro alcun movimento.

    Eccola che si vede nell’ultimo tratto di scale, quando sta andando verso la grande fontana.

    E’ snella e dritta come un fuso, com’è quando non aspetta una creatura.

    Incrocia alcune donne che, dopo aver attinto l’acqua alla fonte, ora salgono le ripide scale verso il centro abitato, con le loro anfore sul capo. Le saluta con un cenno ed un sorriso che non nascondono garbo ed amicizia; le donne rispondono allo stesso modo e si allontanano.

    Nel suo sogno, lei si gira intorno meravigliandosi ora di essere completamente sola.

    Continua la sua discesa verso la fonte e, nonostante la solitudine che la circonda, non sembra avere alcun timore.

    Ha raggiunto il portico della grande fontana. Di solito quel luogo è frequentato da tutte le donne del paese che attingono acqua o fanno il bucato. Ora è deserto.

    Il rumore dell’acqua che sgorga dal cannello principale con allegra abbondanza e va a tuffarsi nella vasca sottostante, limpida e colma, ghermisce la sua attenzione.

    Nel sogno le appaiono le sue mani che reggono l’anfora per i due manici. Il recipiente inizia a riempirsi e si riempie di fresca, limpida acqua.

    Ma.... Qualcosa di terribile sta accadendo: il cannello smette di dare acqua e la vasca sottostante si essicca rapidamente.

    Il volto di Maria si rabbuia in un triste interrogativo.

    La donna prende la sua anfora e si volge per andar via; ma alle sue spalle, sul limitare del portico della fontana, vi sono molte donne, silenziose, ma imploranti nello sguardo, con le loro anfore vuote; il più vestite di nero o di scuro.

    Maria restituisce, terrorizzata, gli sguardi; poi afferra la sua anfora come per proteggerla e fa per andare; ma dopo qualche passo nota che i volti delle donne, ad ogni suo movimento, si invecchiano a vista d’occhio.

    I loro corpi si rinsecchiscono come piante senza acqua; tendono a scomparire nelle vesti e nei grandi scialli, che si piegano su se stessi, sino a ricoprire niente di più che esigui mucchi di cenere e sabbia.

    Un vento rumoroso, padrone, radente la terra, si alza d’improvviso e porta via la sabbia, la cenere e le vesti.

    Altre donne vengono avanti; raccolgono le anfore lasciate dalle prime; prendono i loro posti; ma i loro corpi iniziano anch’essi ad invecchiarsi, a rinsecchirsi.

    Maria non riesce ad assistere inerte alla sofferenza di tante creature; si fa avanti con la sua anfora, pronta a sacrificarla e con la sua acqua, che, però, stranamente non termina mai, colma le anfore delle donne che le si avvicinano.

    I loro corpi, alla pari delle anfore, sembrano riempirsi di nuovo di Spirito.

    I loro volti rivivono, ringiovaniscono.

    Il sorriso ritorna sulle loro labbra, nei loro occhi, mentre Maria continua e continua il suo lavoro.

    ***

    La donna si risveglia dolcemente; tocca subito la sua pancia per assicurarsi che ci sia; ride tra sé, poi faticosamente si drizza seduta; ma la sua gioia si muta in smorfia di dolore per una gran fitta che sente nel ventre, tanto forte e sconvolgente che la riduce a testa bassa.

    Vorrebbe urlare, ma non né ha la forza.

    La bocca spalancata, gli occhi sgranati; il sudore che, a

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