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Transmutancia
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E-book320 pagine4 ore

Transmutancia

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Info su questo ebook

Messico, 1931. Nella piccola provincia di Palenque, una famiglia di agricoltori partecipa al funerale di una madre morta dopo aver dato alla luce Judith. Cresciuta dalla zia, la bambina è affidata al monastero del villaggio dove riceve una buona educazione. Tuttavia la sua linea della vita è segnata profondamente: sogna e crede di compiere una misteriosa missione che la metterà di fronte a numerose realtà più o meno immaginarie. Un guaritore curandero, che vive nell'alta Amazzonia, riesce a penetrare il suo silenzio e si accorge che Judith porta con sé un segreto ancestrale. 
Questo romanzo parla della realtà terrena e del mistero dell'esistenza. Scopre la storia demistificata di un'umanità lacerata che ha perso il significato dei suoi sogni. Oggi, costruendo la propria vita nell’ignoranza, gli uomini continuano a vivere come se non fossero mai morti, ma muoiono come se non avessero mai vissuto. Questi momenti di dubbio e di crisi esistenziali ci portano al cuore delle verità provenienti dal mondo ultraterreno. E così tutte le domande abbondano nel profondo di noi stessi. E se non esistesse davvero nulla, se non l'Amore che ha creato tutto?
LinguaItaliano
EditoreBookness
Data di uscita10 apr 2024
ISBN9791254894804
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    Anteprima del libro

    Transmutancia - Claude Jamael Sciortino

    INTRODUZIONE

    Questo libro è un viaggio che mi ha portato a scrutare le profondità dell'animo umano, a esplorare i confini della coscienza e a rivelare la luce che risplende in ognuno di noi. Ambientata nel suggestivo scenario del Messico, a partire dal 1931, questa storia nasce dal desiderio di risvegliare le coscienze e di offrire un'esperienza di trasformazione.

    Al lettore viene offerto uno sguardo intimo sulle vite dei personaggi, ognuno dei quali riflette un pezzo della complessa tessitura dell'esistenza umana. Dalla tragica cerimonia funebre nel cimitero di Palenque al misterioso destino di Judith, ho cercato di tessere una trama che rispecchi le sfide, le gioie e le sofferenze che tutti noi incontriamo nel nostro cammino.

    Judith, la protagonista enigmatica di questa storia, incarna il potere del risveglio interiore e la scoperta della propria natura divina. Attraverso il suo viaggio, ho voluto invitare il lettore a esplorare le profondità della propria anima e a riconnettersi con la propria essenza più autentica.

    Ho dato voce alla nostra essenza ancestrale, raccontando di un nettare vivente generato dall'essenza stessa della creazione, dalla Grande Madre delle galassie.

    Sono gli Dei senza tempo, i Padri Ancestrali, che hanno plasmato mondi e abissi dalle ricchezze infinite, depositando il nettare della vita in ogni angolo dell'universo. Ma questo processo ha subito successivamente una travagliata discesa e caduta dell’umanità nel mondo delle apparenze.

    Con una storia avvincente che mi auguro possa coinvolgere il lettore stimolandone la sua profonda sensibilità, ho cercato di trasmettere un messaggio di speranza e di guarigione, invitando ognuno ad abbracciare la propria luce interiore e a lasciarsi guidare dal potere trasformativo dell'amore e della consapevolezza che riporta nuovamente in equilibrio le forze eterne presenti in ciascuno di noi.

    Transmutancia o il nettare degli dei non è solo un libro, ma un invito a un viaggio interiore, un'opportunità per esplorare il divino che risiede dentro di noi e per abbracciare la bellezza e la complessità della vita umana. Con profonda gratitudine e passione, vi invito a lasciarvi trasportare da questa storia e a scoprire la luce che brilla nel profondo del vostro essere.

    Parte prima

    LA PROPRIETÀ DEI TEHILAT

    Capitolo 1

    La nascita di Judith

    Messico, 1931. Nel cimitero della piccola provincia di Palenque una cerimonia funebre volge al termine. Due uomini depositano nella fossa una corona di rose bianche: Alla nostra compianta Alicia.

    Da lontano qualcuno pronuncia in tono solenne:

    «Affinché tu sia libera da ogni peccato, poiché Dio Padre ti ha richiamato presso di lui, che la Santa Trinità, nel nome del Signore, nella sua bontà e nella sua misericordia, ti benedica nel suo santo nome. Che guidi la tua anima piena d’amore verso la grazia dello Spirito Santo. Alicia, vai in pace. Nel nome del Padre pieno d’amore, del Figlio e del soffio mariano dello Spirito pieno d’amore.»

    Poi il prete benedice la bara, che viene calata adagio nella fossa, mentre parenti e amici cantano in coro l’Ave Maria e ognuno di loro regge una candela accesa, completando gli ultimi riti per la defunta. Tutto finisce con qualche singhiozzo che si sente qua e là e ciascuno riprende il cammino della vita, offrendo l’ultimo conforto all’afflitto Don Abelardo e a sua sorella Anna che l’accompagna velata di nero.

    I due rimasero orfani quando erano ancora bambini. I genitori, per raggiungere il paese più rapidamente, avevano preso una strada scoscesa perdendo il controllo dei cavalli: il calesse scivolò sul bordo della strada, rovesciandosi e trascinando con sé i passeggeri e il carico lungo un precipizio di una quindicina di metri. Abelardo aveva nove anni. Anna, di otto maggiore di lui, gli fece da madre, sebbene fosse ancora troppo giovane per affrontare la vita. Comunque l’eredità della famiglia permise loro di sopravvivere e Anna maturò in fretta: per gestire il capitale ereditato e perpetuare le tradizioni che erano state loro tramandate, spinse il fratello a seguire studi di agronomia.

    Abelardo raggiunse il risultato che lei aveva sperato e terminò gli studi, costituiti soprattutto da apprendistato presso noti agricoltori della zona. Come madre sostituta Anna cercava di guidarlo quanto meglio poteva, affinché un giorno lui diventasse l’amministratore della proprietà dei Tehilat. E poiché era una persona responsabile, aveva superato il dolore della perdita dei genitori immergendosi nelle varie faccende che ricadevano naturalmente su di lei, la maggiore.

    Il suo carattere si era indurito ed era diventata severa, sia nei confronti dei lavoratori che l’aiutavano nello sfruttamento delle terre, sia nei confronti del fratello, ancora immaturo, che dipendeva da lei. Il suo intimo desiderio era di partire e stabilirsi a Città del Messico per vivere un’esistenza da cittadina, e invece la proprietà di Palenque e la responsabilità verso suo fratello rappresentarono anni di sacrifici. Si ripeteva che un giorno lui avrebbe potuto sostituirla e gestire da solo la proprietà agricola. Infatti alla fine dell’apprendistato, sicuro delle sue conoscenze, Abelardo poté finalmente aiutarla nella gestione della proprietà. Poco dopo la fine del suo percorso di formazione si sposò con Alicia, la cui casata ‒ come tradizione voleva ‒ apparteneva alla sua stessa etnia messicana. Era l’ambiente ideale per fondare una famiglia e gestire un’attività proficua che permettesse di far fronte ai bisogni di tutti. Questa donna amabile e sensibile doveva aiutare Abelardo a insediarsi come legittimo erede del patrimonio familiare.

    Anna pensava di potersi ritirare dalla gestione nel giro di tre o quattro anni, giusto il tempo necessario a suo fratello per organizzare la sua nuova vita con l’arrivo di sua figlia, Judith. Ma un anno dopo il matrimonio, dopo aver assaporato i piaceri del primo amore, una fatalità imprevista cambiò il destino di Abelardo: Alicia morì di parto e lui si ritrovò, a 28 anni, vedovo e padre di famiglia. Questo dramma sconvolse i piani di Anna e prolungò a tempo indeterminato la sua presenza nella proprietà. Abelardo era sotto choc a causa della perdita della moglie e adesso bisognava anche occuparsi della piccola Judith.

    Abelardo aveva troppo bisogno di aiuto dalla famiglia, cioè da sua sorella, e perciò, quando ricevette i primi salari, per ringraziarla della sua presenza preziosa le fece costruire un piccolo alloggio confortevole all’ingresso della tenuta, affinché potesse partecipare anche lei alla vita delle future famiglie della proprietà dei Tehilat. Queste terre aride, che i loro genitori avevano coltivato per tanti anni, si erano arricchite dell’humus, dell’acqua e del sole rosso del Messico; il loro lavoro aveva anche creato occupazione per i poveri, fino a quel tragico epilogo. Il loro fiorente commercio aveva acquistato una buona reputazione nella regione.

    Anna dirigeva i dipendenti nei loro rispettivi compiti: lavorava nei campi e nello stesso tempo gestiva la raccolta del mais, occupandosi anche delle vigne e degli alberi da frutto. Abelardo era l’amministratore che si occupava dell’esportazione agricola all’ingrosso, verso i mercati dei villaggi più lontani. Era dunque molto spesso in viaggio e quindi assente per diversi giorni.

    E così Anna dovette riorganizzare la propria vita quotidiana per occuparsi della piccola Judith, poiché il padre, disorientato, le aveva lasciato momentaneamente la responsabilità dell’educazione di sua figlia nell’attesa di riprendersi.

    In un primo momento la culla della neonata accompagnava Tia Anna dappertutto, ovunque andasse all’interno della tenuta: in cucina o nei campi, la cesta in vimini dentro la quale riposava la nipote era sempre vicino a lei, su un tavolo o sotto un albero da frutto. Quando, talvolta, doveva assentarsi all’improvviso, affidava la piccola a Miguel, il sordomuto custode della proprietà del quale aveva assoluta fiducia: arrivato molto giovane in quella famiglia, lavorava lì dai tempi i cui i suoi genitori erano ancora vivi e faceva il giardiniere ormai già da molti anni. Col tempo, Anna e Abelardo avevano imparato a comunicare con lui col linguaggio dei segni e in un certo qual modo era stato, per così dire, adottato dalla famiglia.

    Quando Anna era sopraffatta dal lavoro e non si rivolgeva a Miguel, affidava per breve tempo Judith ad altre persone, ragazze della regione di Palenque e dintorni, ma non tardò a comprendere che bisognava cercare una balia a tempo pieno. Questo nuovo ruolo di madre le richiedeva molto tempo e attenzione e le creava problemi nella gestione della proprietà. Fu alla prima donna semplice e di bella presenza proveniente dalla capitale che Anna affidò il compito di balia e di aiuto nell’amministrazione: la fece alloggiare in una stanza per gli ospiti e le affidò una parte delle sue responsabilità. Così Anna condivise con Carmen, la nuova governante, l’educazione della nipote.

    Questo sostegno arrivò nel momento in cui scoppiarono diversi conflitti sociali e politici che spinsero i contadini a emigrare. Nella speranza di offrire ai propri figli una vita migliore, la popolazione locale fu costretta a spostarsi verso villaggi più ricchi per cercare di vivere più decentemente e ottenere un lavoro che garantisse un pasto e un tetto. Durante questi disordini fece la sua comparsa la stazione radio. Le sue trasmissioni erano frammezzate da informazioni di ogni genere riguardanti le guerre e gli scontri civili contro i regimi polizieschi, e questi grandi momenti di ascolto aprirono lo spirito umano ad altri tipi di comunicazione. Inoltre, grazie a questa novità, la musica, la danza e le canzoni inedite contribuirono in modo inatteso alla diffusione di un mezzo di condivisione che creava il ritmo di un nuovo soffio vitale, generando grandi momenti di conforto e soddisfazione, cambiando così l’aspetto del mondo.

    Mentre lottava contro la penuria alimentare, questo mondo fatalista ridotto in miseria e stanco dei conflitti cercava di sfuggire al terrorismo e ai colpi di stato. Lungo le strade di campagna il rinnovamento dei distretti apriva passaggi molto più trafficati verso la metropoli. Cercando di sopravvivere, i commercianti dovettero adattarsi a divenire venditori ambulanti che proponevano qualunque cosa: dalle spille da balia al cioccolato, fino ai cotton fioc. Col tempo queste regioni povere parteciparono all’economia locale in modo più stabile, con negozi dalle architetture più accoglienti, che esponevano i loro prodotti artigianali insieme a ceramiche e tessuti tradizionali.

    E fu grazie a questi scambi mercantili tra paesi vicini che i trasporti moderni si svilupparono, in seguito, lungo percorsi più vasti. Stranamente, tutti questi sconvolgimenti contribuirono a orientare lo sguardo del mondo verso scambi urbani diversi. Presto le prime corriere sostituirono i viaggi in calesse e a cavallo e fu istituita una fermata obbligatoria a un chilometro dal villaggio di Palenque, proprio davanti alla proprietà della famiglia. Il rifacimento della strada principale che portava alla tenuta permise così, in meno di un anno, l’estensione commerciale del patrimonio dei Tehilat.

    Nonostante le sue numerose escursioni nel mondo esterno, Abelardo cominciava a sentirsi stretto nel suo mondo quotidiano. I giorni che passava lontano dalla proprietà di famiglia, benché faticosi e necessari per il commercio dei raccolti, rappresentavano, nonostante tutto, momenti di presa di coscienza e di respiro. Tuttavia non avrebbe mai immaginato di dover sostenere una prova tale da infliggergli una vita di lavoro nella proprietà di famiglia senza Alicia. Lei gli mancava terribilmente e le sue crisi di tristezza gli facevano perdere la bussola. Cercava sempre più di allontanarsi da questa sorella autoritaria che, assegnando i lavori che ognuno doveva portare a termine, gestiva e organizzava da sola la vita della proprietà.

    Anna e Carmen si occupavano benissimo di sua figlia Judith, ma Abelardo si trovava molto a disagio nel suo ruolo di padre e la vista della neonata non faceva che rinfocolare la sofferenza per la perdita di Alicia. Un giorno, in occasione di uno spostamento per organizzare delle consegne presso i soliti commercianti, incontrò degli investitori europei che avevano sentito parlare molto bene di lui e della coltivazione delle terre. Questi uomini d’affari gli proposero un posto come direttore, con una buona remunerazione, per la creazione di un’importante società d’esportazione di legno esotico in Ecuador e lui chiese che gli fosse concesso un po’ di tempo per la risposta. L’opportunità di questo viaggio apriva tante alternative e pensò che il destino gli stava offrendo questa sfida su un piatto d’argento. Voleva allontanarsi dalle tradizioni familiari e da Anna, che poteva continuare la gestione della proprietà da sola come aveva già fatto quando lui era più giovane. Quando annunciò a sua sorella la possibilità che gli era stata offerta, lei rispose con rabbia.

    «Quindi, fuggi di nuovo dalle tue responsabilità? Lascerai che gestisca la proprietà da sola?»

    «Non fuggo, vado per lavorare duramente e aiutarti finanziariamente. È una buona opportunità professionale per me, sento la necessità di lasciare per un po’ questo paese. Sai bene quanto questi ultimi mesi sono stati duri per me, dopo che Alicia...» 

    Abelardo si interruppe e lo sguardo cupo della sorella si fece più tenero. Il silenzio si insinuò tra di loro. Poi, come stuzzicata da una mosca, Anna tornò alla carica:

    «E Judith? Che farai di tua figlia? Immagino che non partirai con lei! Non pensi che lei vorrebbe conoscere suo padre?»

    «Senti, Anna, tornerò fra alcuni anni, non parto definitivamente. Tu e Carmen vi occupate di lei meglio di quanto possa fare io. E per ciò che riguarda la gestione della tenuta, prima che io parta ti troverò qualcuno che mi sostituisca.»

    «Ti appoggi sempre sugli altri. Cosa vuoi che ti dica? Ormai sei un uomo. Va’ in Ecuador, se questo può aiutarti, ma non chiedere né il mio parere né il mio assenso.»

    Parlò con un tono freddo e tornò alle sue faccende, senza dargli il tempo di ribattere. Si sentiva presa al laccio. Ancora una volta si trovava obbligata a gestire tutto da sola: lo sfruttamento della proprietà e l’educazione della nipote. Capiva i dolori di suo fratello e il suo bisogno di viaggiare, di lasciare la casa paterna, ma come sempre lui vedeva solo le proprie disgrazie. Aveva pensato un solo momento che anche lei desiderava partire? Non voleva un’esistenza ordinaria: sposarsi, avere una famiglia e dei figli non aveva per lei alcun significato. L’eredità di queste tradizioni così tribali non figurava nel suo ideale di vita, inoltre gli uomini troppo maschilisti della regione non le avrebbero mai permesso di affermare il suo carisma, come faceva il fratello. Doveva ancora una volta abbandonare il proprio desiderio di andare a vivere a Città del Messico. Trovava Abelardo egoista e irresponsabile e, anche se capiva il suo dolore, rendendosi conto che, in realtà, il destino da mesi lo perseguitava, non poteva impedirsi di provare della collera nei suoi confronti. Tutto ricadeva ancora una volta sulle sue spalle e si sentiva prigioniera del proprio destino.

    Quanto ad Abelardo, anche se si sentiva colpevole nei confronti della sorella, nel suo intimo sapeva che avrebbe accettato il contratto di quegli investitori. Questa partenza per lunghi anni avrebbe avuto ripercussioni psicologiche e morali sulla sua famiglia che non poteva ignorare, ma al tempo stesso si vedeva offrire tante possibilità che non poteva rifiutare. Aveva sete di questa autonomia di cui avrebbe beneficiato lontano dai suoi. La sua età lo incoraggiava ad affermarsi come uomo libero, senza vivere all’ombra di sua sorella che aveva fatto, e ancora faceva, tanto per lui. Incupito da tanti lutti e sfortuna, sapeva che all’estero sarebbe riuscito a voltar pagina sulla sua esistenza in Messico. Tutte le responsabilità che sua sorella si era assunta per lui lo rendevano immaturo e troppo dipendente da un ambiente sicuro.

    Pur sapendo che ancora una volta avrebbe scaricato tutte le sue responsabilità sulle spalle di lei, intendeva assumersene altre, formarsi, scoprire e crescere lontano da tutto ciò che aveva fino ad allora conosciuto.

    C’era Judith, naturalmente. Ma questa paternità era così pesante! E anche la felicità di avere una figlia era sentita con una sorta di pena e inquietudine, soprattutto quando questa gioia che la nascita doveva generare celebrava, invece, la morte del suo primo e grande amore. Alicia non c’era più. Inoltre questa coppia così complice portava il ricordo misterioso che Abelardo doveva ora sopportare, da solo, come un fardello. Nascondeva un segreto confuso riguardo alla nascita della figlia e non poteva parlarne a nessuno per paura di essere preso per pazzo o irragionevole. A causa di tutto ciò era necessario partire. Così trovò rapidamente degli agricoltori che lo sostituissero nella tenuta, a fianco della sorella contrariata. Avrebbe cominciato la sua nuova vita con un lungo viaggio in Ecuador e si sarebbe occupato dell’esportazione di legno esotico per delle imprese in Europa. È così che, alla fine di quell’anno, tra angoscia, rimorsi, eccitazione e responsabilità Abelardo lasciò la tenuta di famiglia dei Tehilat.

    Capitolo 2

    L’educazione di Judith

    La partenza di Abelardo creò un vuoto nella proprietà dei Tehilat, che Anna colmò presto riprendendo con mano di ferro l’organizzazione di ciascuno: gli operai agricoli, Miguel il giardiniere, come pure Carmen, la tata di Judith. Dopo tutto, aveva fatto andare avanti la proprietà per parecchi anni quando il fratello era ancora bambino e aveva un’idea precisa dei doveri che ciascuno di loro doveva compiere. I primi tempi ce l’aveva col fratello che era partito, ma ben presto lo sfruttamento del terreno agricolo era decollato e aveva potuto servirsi di un numero maggiore di aiutanti per le raccolte e i vari lavori sulle terre di famiglia. Andava molto d’accordo con Carmen, che colmava Judith di molte attenzioni e molto affetto.

    Quanto ad Abelardo, sembrava felice del suo nuovo lavoro: viaggiava molto, incontrava persone nuove, guadagnava bene e mandava ogni mese dei soldi alla sorella. Con un po’ di distacco, ora lei comprendeva meglio il bisogno di suo fratello di essere autonomo e di condurre la propria vita lontano da loro. Anche se non lo perdonava del tutto, apprezzava sempre più la compagnia di questa nipotina che portava un po’ di leggerezza in quella famiglia che aveva conosciuto tante disgrazie. Anche se lavorava molto, cominciava ad attaccarsi a questa bambina e a adattarsi, con l’aiuto di Carmen, al suo ruolo di madre adottiva. Una ventata fresca e di gioia aleggiava quando, a fine giornata, ritrovava Judith nella sua culla, con i suoi grandi occhi blu e i suoi sorrisi seducenti.

    Gli anni passarono e la bambina diventò presto una ragazzina, che stupiva le persone per la precocità, l’intelligenza e la velocità. Non perdeva una parola di ciò che la sua Tia Anna oppure Carmen le dicevano o le spiegavano sull’attività agricola, le stagioni e la raccolta dei frutti. Era sempre rapita e stupefatta nell’osservare e comprendere i meccanismi della natura. Appena fu in grado di camminare, passava lunghe ore a osservare gli operai agricoli che lavoravano e ad andare a zonzo tra i campi, ridendo di cuore e correndo dietro agli insetti, ai conigli, meravigliandosi della bellezza dei fiori che coglieva sul suo cammino. Si era sempre sentita in comunione con la natura.

    A cinque anni, sua zia e soprattutto Carmen le insegnarono i rudimenti della scrittura e della lettura. Era saggia e autonoma, cresceva in un ambiente di adulti ed era molto matura per la sua età. Un giorno Carmen espresse ad Anna le proprie inquietudini. Secondo lei, Judith era molto sola.

    Appena finite le lezioni andava a passeggiare per i campi che si estendevano davanti alla casa. Non si era preoccupata di queste piccole scorribande fino al giorno in cui l’aveva sorpresa a discutere da sola e a ridere a squarciagola sotto un albero.

    «Judith...» le domandò la governante «Cosa ti fa ridere? A chi parli?»

    «Carmen! È l’albero...» le rispose Judith. «Mi racconta come gioca col vento per far volare via gli uccelli dai suoi rami!»

    «Cosa dici, mia cara? Sai bene che gli alberi non parlano. Che immaginazione, suvvia!»

    «Ma sì! Parla dentro la mia testa e mi dice che quando ci sono troppi nidi su di lui e un nuovo uccello vuole costruirne un altro, allora chiede al vento di scuotere i rami perché vada su un altro albero. Ah! Ah! È buffo, no?»

    «Sì, Judith, vieni. Si sta facendo tardi, devi andare a dormire.»

    «Sapevi che il vento è amico degli alberi?»

    «Ne riparleremo domani. Su, vieni a letto.»

    Più Judith cresceva, più le due donne rimanevano mute di fronte a queste affermazioni così fantastiche e astratte. La bambina era molto affezionata, e la teneva sempre vicino a lei, a una bella bambola di paglia con un grazioso vestito che la zia le aveva regalato per il compleanno e che lei stessa aveva confezionato. Tempo dopo, la bambola si perse e Judith – che allora aveva sei anni – era molto triste e la richiedeva spesso. Anna e Carmen l’avevano cercata dappertutto, senza trovarla. Alcune settimane erano già passate, quando, un bel giorno, al risveglio Judith corse dalla zia.

    «Tia! Tia! So dov’è la mia bambola!»

    «Ah, sì?» rispose Anna. «L’hai ritrovata?»

    «No, non ancora, ma so dov’è. Ho fatto un sogno, l’ho vista: è nel capanno degli attrezzi degli operai. Nel sogno la bambola mi ha chiamato e mi sono ritrovata davanti a lei: è sul tavolo da lavoro in mezzo agli arnesi. Possiamo andare a cercarla, Tia, per favore?»

    «Senti, Judith, ho molte cose da fare oggi e non credo che il tuo sogno...»

    «Per favore, Tia...» la supplicò la bambina.

    Anna finì per cedere e andò rapidamente alla rimessa del giardino, che serviva agli operai come deposito degli arnesi, per vedere se la bambola era lì. Mentre stava per uscire dalla rimessa, poiché non aveva visto niente, sbuffando di irritazione e chiedendosi perché mai avesse dato ascolto alle storie fantasiose di sua nipote, scorse tra due arnesi posati sul banco da lavoro un pezzo di stoffa: era il vestito della bambola.

    Restò perplessa e rese la bambola alla nipote.

    «La mia bambola! Grazie, Tia!»

    Anna non disse nulla e la lasciò alle cure di Carmen per andare a lavorare. Quella bambina continuava a stupirla.

    Quando Judith compì sette anni, Anna cercò una scuola che potesse darle una buona educazione. Si ricordò che Alicia, la madre di Judith, prima di morire le aveva parlato di un convento di suore carmelitane a qualche

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