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L'illusione della fenice
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E-book228 pagine3 ore

L'illusione della fenice

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Info su questo ebook

Il romanzo è diviso in tre storie che si svolgono in luoghi geografici diversi e in momenti storici differenti. Tre vicende che narrano di amore, sofferenza, vita, speranza, cadute e rinascite. I protagonisti sono legati da qualche filo visibile e da molti invisibili, come i personaggi di uno spettacolo di marionette fatte muovere da un abile burattinaio. Ma cosa possono avere in comune Sara, una contadina sedicenne rimasta suo malgrado incinta, che vive nel periodo del dopoguerra a Mosorrofa, un piccolo paese della Calabria, aggrappato all’Aspromonte, con Amy, un’attrice che lavora nel mondo del porno nella Los Angeles degli anni 90, con Sadie, una neolaureata con il massimo dei voti alla facoltà d’ingegneria del Politecnico di Zurigo nel 2034?
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita18 nov 2018
ISBN9788833661759
L'illusione della fenice

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    Anteprima del libro

    L'illusione della fenice - Demetrio Verbaro

    riservati

    PROLOGO

    Mentre scrivo questo libro, nel 2018, più di sette miliardi di persone abitano il pianeta Terra. Se si calcola che ogni giorno ne muoiono circa duecentomila e ne nascono altrettante e, se si comincia a contare dall’uomo primitivo fino ai giorni nostri, continuando per gli anni futuri, si arriva a un numero talmente vasto che la mente vacilla di fronte alla sua grandezza, facendo fatica persino a pensarlo, a concepirlo.

    Ogni unità di quell’immenso numero rappresenta un essere umano, un individuo speciale, unico, originale, con una storia diversa dalle altre, solo sua. Fantastiliardi di vite che hanno vissuto, stanno vivendo e vivranno.

    L’essere umano è complesso, sa essere razionale e logico, ma anche passionale e istintivo. Non gli basta sapere che il sole sorge sempre da est e tramonta a ovest, non si accontenta di sapere che la Terra è rotonda ed è composta per il 71% dal mare degli oceani. Vuole di più, brama di più. Spinto da un’inestinguibile curiosità vuole conoscere la risposta ad alcune domande fondamentali: sapere se è solo nell’Universo, sapere come la vita sulla Terra è cominciata e quando finirà, sapere perché è venuto al mondo, comprendere qual è il suo scopo.

    La sua intera esistenza è improntata su questa costante ricerca di risposte esaurienti che dissipino tutti i suoi dubbi.

    Nel passato, quando qualcuno proponeva una risposta valida a queste domande fondamentali, la si accettava come verità, ma il lento trascorrere degli anni la trasformava da verità assoluta a verità relativa, fino a declassarla a bugia. Pensiamo ai nostri antenati: essi credevano che il nostro pianeta fosse un disco piatto galleggiante nell’oceano, poi però il greco Anassimandro seminò l’idea che la Terra fosse invece un corto cilindro e questo influenzò le generazioni successive talmente tanto da concepire l’idea che potesse esistere, dall’altra parte del pianeta, un altro mondo i cui abitanti detti " Antipodi" vivevano a testa in giù.

    Poi arrivò Pitagora che espose per primo il concetto di sfericità del mondo, ma nonostante questo, poiché nessuno osava varcare le colonne d’Ercole e proseguire lungo l’Equatore, per due millenni continuò il dibattito sull’esistenza o meno della misteriosa popolazione degli Antipodi e su come fossero fatti. Fu solo con i grandi navigatori ed esploratori, Magellano, Vasco da Gama, Colombo, che le congetture sull’esistenza degli Antipodi ebbero finalmente fine. Non esistevano.

    Gli Antipodi erano per i nostri antenati ciò che gli alieni sono per noi. Prima o poi qualcuno, dovessimo aspettare anche noi due millenni, varcherà le colonne d’Ercole dello spazio, attraverserà l’Equatore dell’Universo, e solo allora sapremo dell’esistenza o meno degli alieni.

    Ma anche se un giorno le generazioni future avranno finalmente le risposte che da sempre noi esseri umani cerchiamo, una volta che avranno il potere della conoscenza, mi chiedo: saranno finalmente felici? Si sentiranno davvero completi? O la natura umana eternamente curiosa e insoddisfatta avrà la meglio e andranno alla ricerca di nuovi dubbi e domande?

    In questo libro vi narrerò tre storie i cui protagonisti hanno in comune una spasmodica ricerca di qualcosa che va oltre una vita canonizzata, la curiosità di arrivare all’essenza di ogni cosa, quella voglia di giungere alla profondità dell’anima in cui mai nessuno è arrivato veramente in fondo, lasciando da parte la razionalità e spingendosi oltre i limiti del buon senso, come moderni esploratori delle potenzialità infinite insite nell’essere umano.

    Ma quanto saranno disposti a spingersi oltre per la conoscenza? Quanto saranno disposti a sporgersi dal burrone per vedere cosa c’è sotto? Quanto vorranno scendere in un pozzo di cui non si vede il fondo? Quanto saranno disposti a sacrificare loro stessi, pur di varcare le colonne d’Ercole dell’anima? Consci che una volta superato il punto di non ritorno non si può più fare retromarcia, avranno ancora il coraggio di continuare il loro viaggio?

    Queste tre storie sono legate da fili visibili ma anche da molti fili invisibili, come i personaggi di uno spettacolo di marionette fatte muovere da un abile burattinaio.

    Sono tre vicende ambientate in tempi storici e luoghi geografici diversi, ma che hanno tutte un inizio comune riconducibile al 27 settembre 1934, a Mosorrofa, un piccolo paese in provincia di Reggio Calabria aggrappato con forza all’Aspromonte.

    Un timido sole baluginava in lontananza divorato dal cielo nuvoloso, non c’era né luce né calore, finché i raggi non si aprirono in una miriade di petali di mimosa sferzando il giorno come lame infuocate e liberando l’azzurro del mattino.

    Ma Sara non aveva tempo per ammirare la bellezza del cielo, lei vedeva solo la disperazione della sua situazione, gli occhi fissi su quella pancia cresciuta troppo in fretta.

    Il parto era l’unico momento in cui una donna poteva gridare il proprio dolore senza vergognarsi, ma dalla bocca di quella ragazza, che aveva compiuto da poco sedici anni, non usciva neppure un lamento. Non poteva farsi scoprire, nessuno doveva sapere. Per questo si era nascosta in montagna. Gli intensi rumori della natura coprivano i suoi sospiri soffocati.

    I suoi occhi verdi trasudavano sofferenza, tanto che parevano scurirsi ogni volta che una contrazione la faceva sussultare.

    «Spingi più forte!» gridò rivolta a se stessa. «Tiralo fuori!»

    Ogni movimento del bambino le agitava la mente, come se fosse punta da migliaia di aghi. La donna si affannava col viso madido di sudore, il suo respiro diventava più corto e veloce e continuava a ripetersi: «Spingi più forte. Fallo uscire!»

    Passarono diverse ore. Le prime luci del pomeriggio riscaldavano con tepore il difficile parto. Il sole, libero finalmente dalle nubi, era diventato un grande disco rosso, i suoi raggi colorarono di rubino il cielo, il suo riflesso illuminò il paese che si abbarbicava con tenacia alla collina, le case si stagliavano contro di esso come fuochi d’artificio. Ma Sara non poteva sentire il calore del sole, lei sentiva solo dolore, non poteva chiudere gli occhi e abbandonarsi al piacere di quel tepore, poteva solo cercare di partorire il più presto possibile, sapeva che il tempo era un nemico e che più ore passavano più sarebbe stato impossibile sopravvivere per il suo bambino.

    Avrebbe dovuto sentirsi sollevata visto che non lo voleva. Nonostante la sua giovane età era riuscita a nascondere la gravidanza a tutti: al padre, alla madre, al ragazzo con cui l’aveva concepito. Non era stato facile visto che era molto magra, ma fortunatamente non aveva preso tanti chili durante la gravidanza e inoltre aveva un padre geloso che le faceva indossare vestiti molto coprenti anche d’estate.

    Ma adesso che si trovava in una sperduta capanna di campagna, sola, senza che nessuno sapesse dove fosse, all’improvviso ebbe paura. Non per sé stessa, ma per il nascituro. Per quell’essere che durante la gravidanza aveva maledetto, per quella creatura che portava in grembo e che la faceva piangere ogni notte al pensiero che le avrebbe rovinato l’esistenza, per quella nuova vita che nei giorni precedenti aveva pregato non fosse mai esistita.

    Adesso per la prima volta aveva paura per il suo bambino, amava il suo bambino, voleva il suo bambino.

    Per la prima volta era impaziente di vederlo, trepidava nell’attesa di sentire il suo respiro, fremeva dalla voglia di tenerlo tra le braccia.

    Per la prima volta chiese a Dio di farlo nascere.

    Ma le sue preghiere rimanevano inascoltate, il tempo passava velocemente e la situazione non migliorava. Lacrime di preoccupazione scorrevano dal suo cuore spezzato per la sorte di suo figlio che appariva sempre più segnata.

    Il suo bianco vestito decorato con fiori blu, quello che indossava alle feste, l’unico bello che possedeva, l’unico che le piaceva, era imbrattato di sangue e terriccio. Lo interpretò come un segno negativo e si lasciò andare, esausta, crollando al suolo. Chiuse gli occhi e smise di spingere. Non sentiva più gli uccelli cantare, non sentiva la melodia del vento tra le foglie. Non sentiva più niente.

    «Forse sto svenendo o peggio: morendo» vaneggiò con debolezza, come se i suoi pensieri fluttuassero nella sua testa.

    Con uno sforzo s’impose di aprire gli occhi: l’azzurro del cielo feriva il suo sguardo chiaro, la natura era davvero silenziosa, non era stata una sua impressione.

    Per qualche secondo tutto sembrò sospeso, come se niente importasse davvero, come se non fosse reale, come i secondi che seguono al risveglio da un brutto sogno e sembra di trovarsi in un limbo e non sai dove ti trovi, se sei ancora nel sogno o già tornato alla realtà.

    Avvertì il bambino muoversi dentro di lei, vide il suo piedino che dilatava con disperata debolezza la pelle della sua pancia.

    S’inginocchiò carponi e inarcò la schiena, come una pecorella smarrita, poi prese un respiro profondo e spinse con tutta la forza che aveva.

    Restando nella stessa posizione, abbassò il bacino, accucciandosi sopra un improvvisato letto di foglie, diede un’ulteriore spinta, lunga, dolorosa, squarciante e finalmente alle 15:59 suo figlio venne alla luce. Era una femminuccia.

    Non piangeva, non si muoveva, non viveva.

    Era morta in fretta, senza neanche vivere, lasciando il mondo esattamente come era prima.

    La madre si avvicinò a quel corpicino inerme, pallido come una paura irrazionale, sfiorò la sua guancia, poggiò l’indice su quelle labbra esangui da cui non usciva un respiro, poi guidata da un istinto primordiale, usando il palmo della mano, premette con forza nel petto.

    Passarono diversi minuti e la donna senza sosta continuava a battere quel piccolo torace, instancabile, la sua bocca si contrasse in una smorfia immonda fino a prorompere in un urlo lacerante, ancestrale, contemporaneamente dalla gola della piccola eruppe un pianto senza lacrime.

    Era viva.

    La ragazza raccolse quel fagotto e lo portò al seno. Sentì una scarica di magia. La piccola si addormentò. Lei rimase in quella posizione, immobile, finché la sua bimba non aprì gli occhi e la guardò.

    «Ciao amore mio» le disse in lacrime.

    Nonostante Sara fosse ignorante in medicina, guidata da un puro istinto animalesco diede un’ultima spinta ed eliminò la placenta dal suo corpo.

    Con uno sforzo mentale s’impose di alzarsi, prese la cesoia e recise il cordone ombelicale, lavò via dalla bambina il sangue e l’asciugò con cura, poi prese la cesta dove raccoglieva le uova delle galline, la scosse per eliminare la lordura, la coprì con una coperta e vi adagiò la bambina.

    Nonostante fosse stremata, scese nella fiumara, costeggiandola.

    Mentre camminava si rese conto che non le aveva dato nemmeno un nome. Ci pensò e ripensò ma non riusciva a trovarne uno che le stesse. Quando le venne in mente smise di camminare, si sedette sopra un grosso masso incrostato di muschio, la guardò e le sussurrò con voce rotta: «Ti chiamerò Mary.»

    Un sorriso colorò il volto della bambina.

    La madre rispose con calore: «Stai sorridendo! Allora ti piace.» Poi si lasciò cadere a terra. «Quanto vorrei che tuo padre fosse qui.»

    Sara ripensò con malinconia a Thomas, il padre di sua figlia. Era il suo primo amore e lo sarebbe stato per sempre. Era figlio di Linda, una sua cugina di secondo grado, e di Richard Candbitzer, un soldato austriaco rimasto a Mosorrofa dopo la fine della prima guerra mondiale.

    Sara e Thomas erano amici sin da ragazzini e una volta entrati nell’età della giovinezza si erano giurati amore eterno sotto le fronde di un salice, ma il destino li aveva divisi. La madre di Thomas era morta quando lui aveva appena due anni e poiché il padre era spesso fuori per lavoro, lui fu affidato alle cure della nonna materna. Ma una volta congedatosi dalla vita militare, Richard decise che sarebbe tornato in Austria. Thomas aveva solo sedici anni e fu costretto a seguirlo, giurando però a Sara che presto sarebbe tornato a riprenderla e l’avrebbe portata con sé.

    Ripensare a Thomas l’aveva fatta sentire più forte. Mentre allattava la piccola al seno, le parlò di lui: «È un bellissimo e dolcissimo ragazzo italo-austriaco. Lo amo con tutta me stessa. È partito pochi mesi fa. Un giorno verrà a prenderci. Non sa ancora di te, ma quando glielo dirò sarà felicissimo e ti amerà come ti amo io.» Le diede un bacio sul nasino. «Fino ad allora però dovrai aspettare all’orfanotrofio. Vorrei tanto portarti con me, ma sarebbe troppo pericoloso.» Una lacrima scivolò sul suo viso, fino a cadere sulla fronte della neonata. «È per il tuo bene, amore mio.»

    La ragazza riprese a camminare. Stando attenta a non essere vista, attraversò il paese e si recò in città. Aiutata dalla sera che nel frattempo stava avviluppando il giorno arrivò fino alle porte dell’orfanotrofio.

    Bussò con forza. Incrociò ancora gli occhi di quella bambina per un attimo eterno, bramosa di un ultimo sguardo da imprimere nella memoria, uno sguardo che potesse resistere allo scorrere del tempo. Le sembrava di morire, come se qualcuno le stesse recidendo di netto una parte del corpo. Diede un bacio sulla guancia della piccola. Era così morbida. Inspirò l’odore del suo viso. Era così dolce, sapeva d’infinito. Poggiò la cesta delicatamente sull’uscio e corse via.

    Si nascose dietro un muro che faceva angolo in modo da avere visuale sull’edificio. La porta si aprì, lasciando uscire un fascio di luce. Due suore sbucarono da quel chiarore artificiale.

    Sara non riusciva a distinguere il volto di quelle donne, né sentire cosa si dicevano, ma quando una di esse prese la piccola in braccio, una scossa elettrica le penetrò la mente, scuotendola, e quando l’altra donna si chiuse la porta alle spalle, un’altra scossa, questa volta più intensa, le bruciò il cuore.

    Con le unghie raschiava il muro tanto da insanguinarsi i polpastrelli, mentre con le gambe che cedevano scese a terra, in ginocchio. Si sentiva sconfitta dalla vita e soprattutto sconfitta dalle sue scelte.

    Urlò a squarciagola: «Il suo nome è Mary» e corse via, sperando che le suore l’avessero sentita.

    Quando tornò a casa, suo padre l’aspettava sull’uscio, in piedi. Pasqualino il carbonaio era basso e corpulento, indossava una camicia a quadri macchiata vicino al taschino e pantaloni cachi stretti sotto la pancia da bevitore di vino. Il suo corpo tarchiato e le sue grosse spalle incutevano timore. Il suo volto era martoriato dalle rughe, grandi canyon allargati da anni di ubriacature. Occhi vacui sbucavano da folte sopracciglia, lambite alla punta di ispidi capelli bianchi. I suoi lineamenti ricordavano quelli di un avvoltoio, che si distorcevano ancora di più quando la sua preda era in difficoltà ed era giunto il momento di scendere in picchiata e divorarne la carcassa. Sfilò volutamente con lentezza la cinta e subito i suoi pantaloni cachi si allentarono e la sua pancia si sporse in avanti, libera.

    «Dove sei stata tutto il giorno?»

    Sara non rispose. Una cinghiata le lacerò il braccio destro.

    «Ti ho aspettato tutto il giorno alla carbonaia. Hai idea di che ore sono?» La sua espressione era furente.

    Sara non rispose. Un’altra cinghiata le lacerò la gamba.

    «Con chi eri?» Le sue parole erano intrise di rabbia.

    Nessuna risposta. Cinghiata sulla pancia.

    Istintivamente Sara poggiò una mano nel punto della pancia colpito, non per attenuare la ferita, ma per la dolcezza del ricordo del suo bambino. La ragazza avanzava con la testa bassa, non voleva far vedere a quell’uomo le sue lacrime. Sapeva che se suo padre all’osteria aveva esagerato come al solito con il vino, c’era il rischio che la uccidesse, ma non le importava. Quell’uomo non sapeva che lei era già morta: nel momento stesso in cui aveva abbandonato sua figlia, lei era morta. Non poteva uccidere una persona che era già morta.

    L’uomo riprese fiato per qualche istante, si sedette sulle scale del portico, scuotendo violentemente la testa, alzando gli occhi al cielo, imprecando e ripetendo: «Che cosa ho fatto di male per meritarmi una figlia come questa?»

    Sara lanciò uno sguardo verso la finestra. Nella semioscurità sua madre osservava la scena, inerte, le mani in grembo, il volto ingrigito, gli occhi smorti, i capelli sbiaditi e duri, lo stesso vestito lungo e nero che indossava sempre come se fosse eternamente a lutto. Era una donna succube della vita, succube prima dei genitori e ora del marito, un sacco di carne con un cuore e un cervello che non aveva mai usato.

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