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La Bambola Venuta da Lontano: Il perché
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La Bambola Venuta da Lontano: Il perché
E-book426 pagine6 ore

La Bambola Venuta da Lontano: Il perché

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Info su questo ebook

La Sicilia di quegli anni in cui era nata e cresceva la protagonista del romanzo combatteva una battaglia con un nemico impercettibile che erano le vecchie e nuove ideologie a confronto.

Benedetta è la protagonista della storia. La realtà dove essa cresce è imbevuta di tradizioni millenarie intrecciate di storia di popoli che l’hanno invasa, timbrando l’identità del popolo siculo. È un popolo che alimenta valori per lui irremovibili come lo sono l’onore, la sacralità della struttura famigliare e sociale, nonché la verginità della donna come valore assoluto. Di conseguenza, il ruolo della donna nella famiglia e società è quello di pilastro saldo con connotati nitidi e indelebili dentro canoni ferrei.

Benedetta cresce nutrita di questo nettare, ma sogna un mondo con infinite possibilità da abbracciare. Crede che basti avere tutti lo stesso sogno, con il dovuto rispetto per le creature che popolano il mondo, per riuscire a cambiarlo. Sogna il suo futuro libera da pregiudizi che innalzano confini e presto si rende conto che la sua terra non può venire incontro ai suoi bisogni.
Isolata nel suo mondo psichico, sogna ad occhi aperti con l’unica amica che ha: Behla, la sua bambola. Behla è arrivata nella sua vita da una nazione a lei sconosciuta, determinando le sue scelte e regalandole la certezza che il mondo non è solo la realtà del suo paese.

La sua occasione arriva con un ragazzo venuto dalla Germania.
I due giovani si innamorano e va via insieme a lui, che funge da trampolino di lancio. La vita al di fuori delle sicurezze di provenienza, le tradizioni e la cultura di un altro popolo la portano a isolarsi, ma anche a tirare fuori tutto il positivo dalla situazione in cui si trova.

L’emarginazione dovuta alla non conoscenza della lingua e la conseguente solitudine la porta a circondarsi di altri amici inconsueti: una formichina, un lupo, un fantasma. Sono loro che, attraverso il loro mondo incontaminato, le fanno vedere le infinite possibilità che ha a portata di mano. Si rende conto che per superare le barriere dell’isolamento deve imparare la lingua del posto dove vive. Si accorge che la sua Patria di adozione le offre un’altra identità e prospettiva di vita.

Benedetta sperimenta che la parola solidarietà, la mano tesa, l’incoraggiamento non sono parole teoriche, ma fatti che si ripetono quotidianamente, in silenzio. Alla fine capisce, che le difficoltà, invece che abbatterla, hanno fatto di lei una donna libera. A quel punto decide di ritornare alle origini con il sogno e la speranza di trovare un posto nella terra dove è nata.

L’amore, che arriva nella sua vita inaspettato, riconosce nel suo stile di vita vissuta controcorrente l’importanza del confronto, del camminare insieme anche se per strade e culture diverse, si accorge della ricchezza che ha l’andare alla ricerca di mondi sconosciuti per approdare là, dove ci sentiamo a casa, dove ci viene offerta una casa, e quindi rimettersi in discussione e ripartire.

L’opinione dei lettori

“Una trama poco convenzionale, a dir poco originale. Anche solo per questo “La Bambola Venuta Da Lontano” è un romanzo degno di essere letto. Un romanzo concepito come se non avesse un vero inizio e una vera fine, perché l’uno e l’altra coincidono, sono la stessa cosa, in un circolo magico e profondo. Dopo averlo letto viene spontaneo un ringraziamento per averci permesso di conoscere un mondo.”
Enrico Bistazzoni, Redattore Editoriale
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2021
ISBN9791220292399
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    Anteprima del libro

    La Bambola Venuta da Lontano - Serafina La Marca

    cielo!"

    CAPITOLO 1

    Lui si era seduto sulla spiaggia. Le gambe leggermente divaricate formavano un triangolo, lasciando uno spazio libero su quella sabbia mista a sassi.

    Lei, in piedi al suo fianco, perdeva lo sguardo nell’indaco colore del mare. Era incantata ad ammirare chissà chi, chissà che cosa. Tentare di indovinare i pensieri che in quell’istante la dominavano era impossibile, ma il portamento austero del suo corpo ispirava il desiderio di entrare, anche con forza, dentro quell’anima, che sembrava avere le sembianze di una roccia.

    A distoglierla da quell’estasi contemplativa fu la mano enorme, affusolata e forte di lui, che con gesto deciso ma tenero le afferrò la caviglia facendola scivolare su quel lembo libero di sabbia e di sassi. Le braccia di lui l’avvolsero protettive e lei si sentì sprofondare al centro di un nido sicuro e caldo.

    Benedetta chiuse gli occhi e si lasciò immergere in un mondo fatto solo di quegli istanti magici, colorati di arcobaleno, vissuti nell’irrazionalità, rubati al presente e carpiti al pensiero e all’immagine collettiva. Il bisogno di essere amata, così come lui l’amava, le permise l’abbandono a quella tenerezza provocata dalle carezze fatte ai suoi boccoli neri, quei boccoli che lui non si stancava di ammirare e con cui giocava instancabilmente. Le sue mani, scivolando teneramente lungo i suoi capelli neri, piroettarono Benedetta nel suo mondo al di là dell’orizzonte e lei lasciava, a quelle mani bellissime nella loro nodosità, di regalarle sogni aldilà dei mondi. Ovattata in quella rete di emozioni si immerse in universi dove l’amore, quel sentimento magico, che rende l’umano più vicino al divino era il solo protagonista. Si abbandonò a quelle carezze regalatele dalle sue mani callose trattenendo il fiato, trattenendo il fiato si lasciò trasportare al di là di ogni logica razionale, volare al di là di quel presente che era la realtà che stavano vivendo.

    Non passava giorno in cui non si chiedeva per quale scopo lo aveva conosciuto. Lui così diverso, così lontano dall’idea che fino ad allora, lei aveva avuto dell’uomo. Guardandolo si scopriva a paragonare loro due all’orso e la bambina, e quel giorno sulla spiaggia, sotto quelle mani che le accarezzavano i lunghi capelli neri, pensò che ogni incontro, nella vita di ognuno, è un tassello che si aggiunge all’altro in vista di un fine: No, non siamo un incontro più o meno importante, ma il pezzo mancante dell’una e dell’altro. Amarci così è linfa che pulsa nelle lacune flessuose dell’essere per sentirsi e essere vivi!. Si era stupita lei stessa di quei pensieri espressi così, ad alta voce, alle sue orecchie tuonavano pesanti come macigni e gravi come sentenze.

    Su nel cielo un gabbiano volava verso l’orizzonte e quella linea in lontananza che congiungeva cielo e mare si colorava di rosa.

    Era autunno inoltrato. Il bosco, a pochi chilometri da casa sua si preparava al letargo. Sotto gli alberi di querce e faggi il suolo, coperto di foglie, sembrava un tappeto variopinto. La luce che sbirciava attraverso i rami, ormai spogli, esaltava i colori caldi e tenui di quel prato non ancora del tutto addormentato. Percorrendo quei sentieri a lei famigliari, a Benedetta capitava spesso di scoprire qualcosa che altre volte non aveva captato. Quella volta era stato il fruscio delle foglie sotto le sue scarpe a risuonarle di silenzio e rumore, di pensiero e voce, di vita e morte.

    Il mese di novembre si avviava alla fine. L’inverno già bussava alle porte. L’aria densa dell’estate era diventata trasparente e si rifletteva in uno specchio pulito dalle impurità dei residui della frenesia estiva.

    L’anima, anche lei ha bisogno di andare in letargo, pensava, incamminandosi verso l’auto per tornare a casa. L’idea di un inverno tutto suo la rese felice. Si immaginò con in grembo i suoi gattini, in compagnia del fuoco e della legna che si sarebbe consumata al solo scopo di riscaldarla, si vide già sognare, si vide mentre permetteva ai suoi sogni di volare insieme alla fiamma che danzava nello scoppiettio della legna che ardeva. Sensazioni di felicità, quella era la felicità! Alle banalità del quotidiano non avrebbe permesso di rubare nulla degli spazi intimi, solo suoi.

    Felicità

    Felicità mi baci quando non ti aspetto,

    mi rispondi quando non ti sento,

    ti riconosco quando sei già volata via.

    Era giunta all’auto accompagnata da quei pensieri. Salendo, e prima di girare la chiave che avrebbe avviato il motore, aveva volto lo sguardo a catturare la maestosità di quel paradiso che si estendeva là, fino a dove la montagna definiva il confine naturale tra cielo e terra. Alla sua destra il mare, senza barriera, le offriva la possibilità di penetrare con lo sguardo in quel punto senza inizio e senza fine. Con la mente libera da ogni preoccupazione, aveva girato il capo e aveva guardato avanti, lasciandosi alle sue spalle la natura quieta e docile, accompagnata soltanto dal contagio contemplativo che essa emanava. Il corpo, nell’abitacolo della sua vettura, lo percepiva privo di gravità, galleggiante nello spazio, nel tempo, e adagiato su una nuvola di piume.

    Avviati, si era detta. I tuoi gattini ti stanno aspettando. Amava i suoi animali e la forma di vita che rappresentavano, senza voce né potere, erano per lei l’esempio della possibilità che gli umani avevano di amare gratuitamente per ricevere in cambio dedizione incontaminata. Aveva messo in moto l’auto per avviarsi verso casa. La melodia metallica del motore che rombava copriva il silenzio che regnava intorno a lei, fondendosi nelle sensazioni che le aveva procurato il suo, poco prima vissuto.

    Dietro una curva, le prime luci che illuminavano il paese facevano capolino. Dietro la curva successiva, quel pugno di case adagiate sul pendio della loro rocca sembravano darle il benvenuto. Uno sguardo a quelle case era bastato per far rifiorire in Benedetta, vivo e pungente, il filo conduttore della strada che, chissà quando e chissà da chi, era stata tracciata per lei, e che lei aveva fedelmente percorso.

    Per arrivare a casa doveva attraversare tutto il paese. Procedeva molto lentamente. Poteva permetterselo, la strada era completamente deserta. Se fosse stata una straniera, la sensazione netta che avrebbe provato, nel vedere quello scenario che scorreva davanti ai suoi occhi, sarebbe stata quella di un paese fantasma, non lontano dal crollo dei suoi ruderi spettrali, poco prima che il sipario calasse inesorabilmente seppellendo vita, storie e storia per sempre. Ma lei non era una straniera. Sapeva bene che all’interno di quei ruderi, a prima vista abbandonati, si tramandava il vivere pulsante, tra obbiettivi collaudati dei suoi abitanti.

    Indirizzò lo sguardo alle finestre e non vide nessun segno di vita. Con tristezza sbirciò attraverso quelle persiane rigorosamente chiuse, intravedendo, nonostante lo sbarramento, la personalità arguta della sua gente, di un popolo che lei considerava di acuta intelligenza e di senso di responsabilità incarnata. Segnato nelle insenature profonde dei visi di donne e uomini, non solo lei, ma ognuno vi poteva leggere il passato remoto, il presente sognato e il futuro all’insegna di certezze, senza illusioni da inseguire, senza domande da porsi e senza risposte da attendere. Destino, calamità, volere di Dio. E l’onore? L’onore era la ruota attorno a cui girava e su cui si basava tutta la loro esistenza. Queste convinzioni impacchettate con carta regalo, legate con un indistruttibile fiocco rosso e donate all’effimero vegetare, allo snodarsi del tempo nei secoli, dettavano le leggi del vivere nel susseguirsi delle generazioni.

    L’appartenenza a tante etnie diverse rendeva gli abitanti del paese invulnerabili a qualsiasi tipo di progresso. Non desideravano accogliere nulla di nuovo. Nulla che potesse mettere a repentaglio sicurezze e certezze. E in quanto alle nuove correnti di pensiero, erano convinti che non c’era niente da pensare o rivedere, di migliore di quello che i loro antenati avevano già pensato e nel corso dei secoli valutato e affermato come giusto e buono. In quanto al moderno, nutrivano un che di repulsione: tutto quello che era nuovo era automaticamente estraneo e di conseguenza degno di sospetto. Era il loro motto. Non si accorgevano dell’era nuova, del vento diverso che fischiava melodie impazienti, leggere.

    Non facevano tesoro delle possibilità che la nuova tecnologia offriva loro. Delle meraviglie, così definivano gli elettrodomestici, che avevano cambiato l’arredamento delle case, delle abitudini alimentari e sociali, sì, le avevano accettate e introdotte all’interno dei loro affetti come una calamità positiva. Gli impulsi che arrivavano dai nuovi mezzi di comunicazione alcuni li vivevano come favole: le favole sono candide e non peccaminose, lontane dalla reale possibilità di integrarle nella propria, individualissima storia. Le favole hanno il pregio di essere innocue e allo stesso tempo fanno sognare, e sognare è permesso dalla collettività. Punto.

    Altri, invece, in quei nuovi impulsi intravedevano minacce, vi scorgevano avvertimenti e pericoli alla stabilità sociale. Altri ancora si chiedevano, passivi, a dove portavano le nuove spinte: sicuramente non erano di buon esempio per le donne e per i giovani. Chissà dove ci porterà il tutto!, concludevano apatici e rassegnati, convinti che comunque, proprio loro non avrebbero potuto cambiare il corso degli avvenimenti.

    Nessuna rivoluzione culturale, o legislativa, o comportamentale aveva alcun potere di scuoterli o costringerli a rivedere la loro logica, alcun potere di svegliarli dai loro sogni stanchi. Con orgoglio consolidato tramandavano le loro tradizioni e consuetudini millenarie, ancorandole a un porto stabile e precario allo stesso tempo: da sempre con le stesse regole, da sempre nel gioco pulsante del quotidiano, da sempre all’interno di una logica che non ammetteva chiedersi: Perché?.

    Strano, Benedetta non si disperava nelle sue analisi e considerazioni, di fronte alla realtà cruda che scorreva davanti ai suoi occhi. Il suo pensiero era rivolto alla speranza che alimentava la sua appartenenza a quel luogo. Radici: era questa la risposta. Era questa la sua verità.

    Terra

    Terra, ninfa viva, radici senza tronco,

    pullulare vegeto nell’alito della vita.

    Fin da bambina Benedetta si era ribellata alla sterilità di quel modo di vivere. Non vi si era mai riconosciuta, non sentiva di farne parte e tantomeno desiderava farne. Viveva e cresceva in un ambiente ovattato che tentava di proteggerla da insidie vere o più o meno presunte, che la bloccavano e le strozzavano la strada dei perché e dei per come, che le rimanevano inespressi, soffocati in gola. Le innumerevole domande che desiderava porre agli adulti esigevano delle risposte chiare, esaurienti che non riceveva: o perché lei le domande non aveva il coraggio di formularle, oppure perché percepiva che, comunque, dai grandi avrebbe ricevuto risposte evasive: tanto lei era ancora piccola per capire!

    In attesa di risposte depositava i suoi punti interrogativi in un angolo del suo cervello assetato dal desiderio di sapere e capire, e chiudendo a chiave il cassetto della sua memoria lasciava la sua mente libera e aperta all’unica consapevolezza chiara e certa che aveva, libera per l’universo che cresceva con lei e dentro di lei, e che era il solo che voleva esplorare, il solo per cui valeva la pena diventare adulta, diventare donna.

    La sua giovane età non le permetteva di analizzare obbiettivamente il motivo della sua non identificazione, della sua ribellione interiore al modo di vivere, pensare e agire che la circondava. La vita che conduceva all’interno del suo io e quella al di fuori di esso scorrevano parallele, due linee dritte disegnate allo scopo di non incontrarsi mai: una si ampliava, si arricchiva e si moltiplicava, per quanto un po’ confusa; l’altra, stagnante, la teneva legata ai due paralleli.

    Benedetta viveva la sua infanzia incosciente di vivere una parte fondamentale della sua giovane vita. La sua vita interiore era un sogno reale privo di connotati infantili. I suoi sogni non si limitavano a rimanere nel proprio confine, ma li sentiva reali, almeno quanto reale era lei. Si accorgeva che il periodo dell’infanzia si protraeva all’infinito e soffriva della malattia tipica della primavera. E anche se scorreva intenso e intriso di sogni, sentiva che il tempo passava lento, che inseguiva il suo scorrere a passo di lumaca.

    Viveva la sua giornata nell’oblio del sogno. Il sogno era il suo migliore amico. Sognava quando dormiva, sognava quando era sveglia, sognava quando giocava, quando andava ed era a scuola: la sua realtà era il suo sognare! Gioiva nel dipingere il suo futuro nei colori più belli, nei prati più verdi, attraversati in lungo e in largo da un cavallo bianco, libero da redini e recinti, cavalcato dalla felicità che nasce dalla consapevolezza di possedere o avere acquisito la libertà. Il letto del fiume, sulla cui riva lei spesso andava a giocare, con i suoi sassi immersi nell’acqua limpida, le sembrava un simbolo della sua vita: andare sempre avanti, non tornare mai sui propri passi, non avere mai rimpianti, essere coerente con sé stessi e con i propri principi, con il proprio io e con il proprio Dio. Su queste basi Benedetta costruiva la sua personalità ancora acerba, agli albori di pensieri abbozzati, e però già profondamente radicati.

    Se fossi, se potessi…

    Se fossi la vetta di una montagna

    ammirerei il mondo.

    Se fossi un uccello

    volerei verso il sole.

    Se fossi un angelo

    sceglierei cosa custodirmi,

    ma sono io,

    io e i miei limiti.

    Non mi resta che aspettare il mio momento

    che mi guiderà verso il sole,

    mi farà baciare il tuo suolo,

    mi permetterà di fermarmi,

    di ripiegare le mie ali

    per fermarmi a costruire il mio futuro insieme a te.

    Se potessi, se fossi…

    CAPITOLO 2

    Al suo nascere quel giorno sembrava un giorno qualunque. Il sole era sorto e aveva già raggiunto l’apice su, nell’alto dell’immenso firmamento.

    Benedetta giocava sulla riva del fiume, riscaldata dal suo sole. In braccio teneva la sua bambola e le raccontava che il sole, con il calore che i suoi raggi emanano, da sempre moltiplica e rigenera la vita e a ogni loro carezza rabbrividisce, sussultando, l’anima dell’intero universo. Dall’energia che quei raggi trasmettono scaturisce l’amore in ogni forma donano speranza, permettono di fermarsi per poi riprendere la corsa sotto il loro potere magnetico e vitale. Nessuno vuole o può sottrarsi. Nessuno e niente può sostituirsi a quella forza che da sempre è stata il sale della terra.

    In quei pensieri Benedetta si cimentava quel giorno lungo la riva del fiume e come suo consueto li divideva con la sua amica mentre un rumore l’aveva fatta ammutolire. In quell’istante, in lontananza si udiva il fischio di un treno che annunciava il suo passaggio. Da lì a poco dopo, il muso della prima locomotiva sarebbe sbucato da una galleria. Sfrecciando, sarebbe andato incontro al cielo!

    Puntuale il muso del primo vagone era sbucato, sferragliando sulle rotaie arroventate dal sole. Passando veloce, quel mezzo si era manifestato all’animo di Benedetta in formato realisticamente futuristico. Aveva guardato avida il bagaglio che trasportava catalogandolo come bagaglio di speranze munite di ricordi. Fino a quando l’ultimo vagone scomparve alla sua vista, in quella manciata di secondi, Benedetta, con occhi avidi, lo seguì in tutta la sua lunghezza, e sventolando la manina alzata in segno di saluto, gridò all’aria e a Behla le sue emozioni che avevano, oltre che captato, catturato il suo grido di speranza, che consisteva nell’emettere a voce alta la sua prima promessa:

    Anch’io un giorno prenderò quel treno e andrò a cercare il posto dove finisce il cielo!. Quella era stata la prima, consapevole promessa che aveva fatto a se stessa. No, quel giorno non era un giorno come un altro!

    Behla era la sua bambola. Era giunta fino a lei da una nazione lontana. Aveva il viso rotondo e paffutello, chiaro e trasparente; aveva gli occhi azzurri come il cielo e profondi come quel punto che il sole lascia all’orizzonte al suo tramontare; erano occhi irraggiungibili come sono i pianeti invisibili e lontani; erano occhi che evocavano foreste e terre sperdute dell’incognito, grande mondo. Il nasino all’insù le donava quell’aria aristocratica, tipica dei popoli anglosassoni. I suoi capelli lunghi avevano il colore del sole e del miele. Sul suo capo un cappellino adornava il suo graziosissimo visino. Indossava un vestitino di tulle e seta, bianco e rosa. Le calze erano di organza rosa e le scarpine di colore bianco. Nella sua manina destra teneva un ombrellino che aveva lo stesso colore dell’abitino. Era aperto per proteggere il suo visino, delicato come la seta e liscio come la porcellana, dai raggi intensi del sole meridiano. Una spilla con su scritto il suo nome era attaccata alla sua sinistra, appena sotto la sua spalla, all’altezza del suo cuore, per sigillare la sua identità e sottolineare la sua eleganza e austerità.

    A Behla Benedetta confidava i suoi sogni, le sue speranze, e mentre Benedetta fantasticava pianificando la sua via, collocando il suo futuro all’interno dell’immenso e lontano mondo, Behla la ascoltava muta, senza mai interrompere il filo della sua logica e delle sue convinzioni. Behla la osservava oltre le barriere di appartenenza, al di là della logica di provenienza culturale. Behla non le metteva velo alla vista, sassi sul suo cammino e incertezze davanti ai suoi passi. E dal lupo cattivo e nero, che sicuramente avrebbe incontrato lungo il suo percorso, non la metteva in guardia, ma sembrava dirle che sì, il lupo esiste veramente ma non è né cattivo e neanche solo nero.

    Vive nei boschi, le raccontava. Le raccontava anche che al suo sguardo intelligente non sfugge niente di quanto gli sta attorno, nel suo raggio. Sai?, le diceva. È una creatura che cammina sfiorando la terra senza calpestarla. Quando corre il suo corpo sembra sospeso nell’atmosfera e spinto dalla leggerezza invisibile dell’aria. La sua testa, come snodata, si proietta avanti andando incontro alla sua meta. Ha bisogno di essere amato, ma sa che gli umani lo temono e lo cacciano. Per difendersi dal suo bisogno di dare e appartenere, nell’arco dei millenni si è cucito addosso una corazza, riuscendo a dare di sé l’immagine di cattiveria e di pericolosità gratuita. Tra lui e gli umani ha creato distanze abissali, tanto che loro hanno dipinto il suo muso del male più brutto e del terrore più acuto. Lui stesso, a sua volta, ha paura di quegli strani esseri con due mani, che non combattono mai alla pari e mai con le stesse armi. E visto che nessuno dei due ha mai trovato il modo di intendersi e capirsi, l’obiettivo di diventare amici è andato di volta in volta a fallire man mano che si presentava loro l’occasione. C’è stato un tempo che da cucciolo giocava con un umano. Da lui si nutriva con il latte che succhiava da una bottiglia. L’uomo era il suo migliore amico, gioiva con lui e ululava insieme a lui. Crescendo, invece, si accorgeva di come era difficile averli tutti per amici e partendo così, da quella constatazione, aveva incominciato anche lui a sognare il suo futuro diverso da come era e, forse, sempre sarebbe stato.

    Behla a quel punto del suo racconto aveva abbassato gli occhi e aveva taciuto; aveva fatto silenzio pensierosa e accigliata, con i lineamenti tirati da una tristezza palese. Benedetta l’aveva ascoltata attenta. L’interpretazione di Behla sulla natura del lupo le piaceva, la trovava vera. Behla nel suo silenzio enigmatico e metaforico tentava di dirle che l’unico, vero, pericoloso lupo è la paura che trasmette l’ignoto. È lui che mette catene e transenne. Non è sicuramente il timore verso l’immenso mondo che impedisce di andare, che fa vegetare invece di germogliare. Il mondo è piccolo e raggiungibile da ogni parte, da ogni prospettiva e perspettiva. Benedetta, a voce alta le aveva chiesto quale perspettiva lei, Behla aveva visto, e quale prospettiva aveva avuto quando aveva deciso di andare da lei, di lasciare la sua mamma e la sua casa; la sua nazione e le sue sicurezze; la sua appartenenza, e per riassumere: cosa l’aveva indotta a lasciare tutto quello in cui lei si identificava?

    A quella domanda Behla non voleva risponderle. Le sembrava azzardato e prematuro svelarle le sue opinioni e le certezze realizzate. Valutava la giovane età di Benedetta, ancora troppo piccola per essere in grado di capire che ci sono necessità che vanno oltre il bisogno epidermico, che stanno al di sopra della sicurezza che dona lo stare in grembo alla famiglia, nel sicuro e caldo nido domestico. Behla voleva aspettare che il tempo fosse maturo per essere certa che Benedetta potesse capire la sostanza del suo credo, dei suoi concetti concreti, ovvi e vissuti. Desiderava coinvolgere l’adulta che era in Benedetta, farla partecipe delle sue consapevolezze, delle perspettive avute e prospettive scelte, ma con la Benedetta dall’involucro infantile le veniva difficile discutere sul concetto dell’essenza che è in ognuno di noi, che ha un volto e un colore impermeabile, un nome a caratteri indelebili e un posto e una prospettiva in ogni angolo della terra.

    Come spiegarle che per lei mamma significa essenza e l’essenza non la si può lasciare indietro e tantomeno allontanarsene! Oppure che appartenenza e identificazione non sono termini scontati ma sono il motore che fa girare il proprio io: nessuna distanza può spegnere ma solo alimentare, accentuare e sottolineare. Che la casa è il calore che pulsa nelle proprie vene, non si raffredda, essendo energia pura, e neanche perde di consistenza, visto che è munita di struttura incrollabile: struttura solida che la si può montare ovunque. In quanto alle sicurezze dettate dalle abitudini, secondo Behla era indispensabile e necessario liberarsene! Per lei significavano la tomba della crescita e della conoscenza, del sapere e dello sviluppo.

    Quella era la perspettiva che aveva indotto Behla a realizzare le sue prospettive, ma raccontarlo a Benedetta le sembrava veramente prematuro. Oltretutto desiderava avvisarla, metterla in guardia dalle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare nel lasciarsi alle spalle tutto ciò che le era famigliare. Voltare le spalle alle origini necessitava di una non indifferente dose di coraggio, coraggio che doveva alimentare sin da ora se voleva cambiare la traiettoria della sua vita. Se la sua decisione definitiva era quella di volere nuotare contro correnti ormai superate, contro convinzioni che per lei non avevano più senso, doveva sapere, almeno approssimativamente, che il prezzo che avrebbe dovuto pagare sarebbe stato molto alto. Che la solitudine sarebbe stata la sua compagna e che nel mondo avrebbe dovuto combattere, da sola, la sua battaglia. Behla decise di limitarsi a sussurrarle che al momento giusto avrebbe risposto a tutte le sue domande. Benedetta piena di gratitudine aveva abbracciato la sua amica. Sistemandole il vestitino, che dall’abbraccio istintivo si era un po’ scompigliato, con fiducia sconfinata le aveva detto grazie di essere lì con lei, dopodiché aveva ripreso a rincorrere il suo sogno.

    Le stagioni si susseguivano con la normale velocità del tempo che scorre al suo ritmo naturale. Per Benedetta però i mesi scorrevano insopportabilmente lenti. Non si accorgeva che il loro rincorrersi scandito aveva il pregio di contarle gli anni, di accumularle esperienza. Spesso si soffermava a considerare le stagioni nelle loro caratteristiche, definendole a modo suo. Alla primavera, che preferiva alle altre, attribuiva la dote dell’impazienza, caratteristica e pregio della giovinezza. La paragonava alla musa che si svegliava, alla nascita che si ripeteva, alla vita che esplodeva fresca, tenera e incontaminata, nata per contagiare e ricominciare. Inseguita dall’estate che portava tregua alla fatica di essere e di crescere, l’autunno lo vedeva predestinato alla rassegnazione nel liberarsi della vita consumata, e all’inverno, vivo nel suo crogiolarsi, attribuiva la purezza nel conservarsi.

    In questo ritmo Benedetta trascorreva il suo tempo, ignara che il treno che voleva prendere, il treno dei suoi sogni veri, si era fermato ad aspettarla.

    L’estate volgeva al termine. Benedetta era stata al mare. Quel giorno era particolarmente triste, quasi disperata: la sua amica partiva. Le vacanze finite. Nuvole nere, gonfie di pioggia minacciavano un temporale imminente sottolineando il suo umore cupo, grigio come la nebbia che si alzava su dal mare oscurando il campanile della chiesa. Il bus di linea era arrivato in piazza. Dietro si era lasciato la chiesina, ormai del tutto avvolta nel manto nebbioso che, nel frattempo, era diventato fitto come la trama di una ragnatela.

    Ragazzi, scendete. Siamo arrivati, diceva a voce alta l’autista del bus. Sì, lo so, piove, ma la pioggia non ha mai fatto male a nessuno, tantomeno la pioggia estiva. Su, su, avanti, scendete, anch’io ho il diritto di finire la mia giornata e andare a casa. I miei bimbi mi stanno aspettando.

    Insieme agli altri, ubbidiente, Benedetta scese dal bus. Quel giorno indossava la sua maglietta preferita, fine e leggera su una gonnellina, così detta scozzese, a pieghe. I sandali bianchi spiccavano sul nero dell’asfalto, rispetto al quale i suoi capelli neri, lunghi fungevano da contrasto creando una simbiosi visibile tra terra e aria. La pioggia scendeva giù con la furia di un uragano. In pochi secondi i suoi capelli grondavano d’acqua e la sua maglietta fine si era appiccicata all’epidermide come una seconda pelle. Con le mani bagnate cercava di dare un’altra rotta, diversa da quella presa, alle goccioline di pioggia, che dalla testa scendevano giù sugli occhi impedendole di vedere intorno a lei. Attraverso il buio la voce della sua compagna di scuola urlava il suo nome e lei non riusciva a capire se la mano che le sfiorava il suo braccio era la stessa mano della voce che la chiamava. Tentando di mettere a fuoco lo spazio intorno a sé per ritrovare la sua compagna, si ritrovò invece di fronte due occhi che la scrutavano stupiti e divertiti.

    Chi sei? Come ti chiami? Dove abiti?, si sentì chiedere tutto d’un fiato.

    Benedetta desiderava dire la sua a quello sconosciuto invadente e arrogante che le teneva saldo il braccio: come si permetteva! E invece dalla sua voce venne fuori solo, strozzato e bisbigliato, il proprio nome. Così nasceva un amore? Occhi smarriti, parole senza suono erano il suo poema? Pioggia che le cadeva addosso a presagio di lacrime future che le avrebbero inondato l’anima erano il suo fine? In quel pomeriggio d’estate inoltrata lei ancora la risposta a quelle domande non la conosceva. Finalmente la sua compagna sbucò dal nulla e lei ritrovò la sua dimensione reale.

    Andiamo?, le chiese Rosalia.

    Sì, andiamo, rispose Benedetta.

    Posso accompagnarvi?, si intromise a sua volta lo sconosciuto. Senza aspettare risposta alcuna, come fosse la cosa più ovvia, il ragazzo, sicuramente un forestiero, si era avviato al loro fianco lasciandole soltanto quando, arrivati davanti all’abitazione di Benedetta, lui aveva saputo dove lei abitava. Con un bacio e un ciao frettoloso le due compagne si salutarono e Rosalia, a passo svelto, scomparve dietro l’angolo.

    Benedetta spinse con fermezza il portone di casa lasciandosi fuori quel pomeriggio che tra sole, nebbia e pioggia l’aveva salutata in modo del tutto inedito. Entrando dentro casa si lasciò dietro l’uscio anche l’incontro con lo sconosciuto che subito si era volatilizzato dalla sua mente come il battito di una farfalla si volatizza in volo.

    Per Benedetta la sua famiglia e la sua casa rappresentavano il nido della sua vita. Il calore che le mura domestiche emanavano non era dovuto alla legna che ardeva irradiando calore dal camino acceso, bensì quel calore lo trasmetteva ognuno dei componenti del suo nucleo famigliare. Intorno al tavolo, in cucina, si vivevano i giorni. Quel tavolo consumato perché vissuto era occupato a tutte le ore del giorno e della sera, e ad ogni tappa, nella giornata, viveva gli umori diversi dei suoi commensali. In aria il profumo dei cibi cotti, del pane appena sfornato seguito da quello dei biscotti e delle focacce fritte, cosparse di zucchero, era un mélange di odori così fantasticamente assortiti da lasciarli incastonati e sigillati ai posteri dei sensi; così come il profumo del sugo la domenica o il pesce fritto alla menta e aceto il venerdì.

    Il subconscio di ogni singolo membro si impregnava di quel profumo accentuando il senso di riconoscimento e sigillando l’identità, per finire con l’esaltare la sicurezza che traeva dal sentirsi parte di un nucleo che l’amava e che a sua volta amava. In quel profumo la coscienza di appartenenza si allineava con esso segnando, con il suo timbro insostituibile, l’anima di ogni membro di quella famiglia. Dopo avere salutato la mamma, Benedetta prese in braccio il fratellino più piccolo, che stava giocando con la trottola, lo alzò in aria, mettendolo in posizione orizzontale, in modo che il visino del bimbo, con i suoi occhioni profondi e neri, era rivolto verso il suo, così che potevano guardarsi teneramente complici e divertiti. Scuotendolo e solleticandolo con delicatezza lo fece ridere e divertire gaio, fino alle lacrime. La voce della sua mamma mise fine a quel momento incantevolmente genuino.

    Vai a cambiarti. Sei tutta bagnata. Asciugati i capelli, sbrigati, su, altrimenti rischi di prenderti un bel raffreddore!, le ordinò autoritaria la mamma tutto d’un fiato e tutta preoccupata. E continuò:

    Come hai fatto a bagnarti così? Non avevi con te l’ombrello?.

    A malincuore Benedetta mise giù il fratellino nel seggiolone che, dimostrando subito la sua disapprovazione, iniziò a strillare. Solo per poco però, appena ritrovata la sua trottola riprese a esplorare, senza lacrime, i fenomeni che si manifestavano al suo piccolo mondo alla sua infantile e giocosa maniera.

    Ciao piccolo, gli bisbigliò nell’orecchio. Ci vediamo tra poco. Sai, vado a cambiarmi. La mamma ha ragione, se non vado ad asciugarmi rischio veramente di ammalarmi. Ma Antonio non la ascoltava neanche più, intento com’era a cimentarsi nelle sue scoperte.

    Sola nella sua stanza, prima di andare in bagno a cambiarsi e asciugarsi, Benedetta si accostò alla finestra e, scostando la tendina per guardare fuori, vide che aveva smesso di piovere e qua e là, su nel cielo, le nuvole correvano a nascondersi lasciando intravedere qualche sprazzo di azzurro su, nel lontano firmamento. Il suo pensiero volò dalla sua amica partita per il lontano nord.

    Chissà dove sei Maria? Hai attraversato di già lo stretto? Ti sei lasciata alle tue spalle la nostra isola? Il cielo che in questo momento vedo io dalla mia finestra, è lo stesso cielo che vedi tu dal posto dove tu, in questo momento, ti trovi? Almeno sapere che, forse, il manto sopra la nostra testa è lo stesso per tutte e due mi aiuta a dissipare un po’ la disperazione che provo all’idea di non rivederti per un lungo, interminabile anno. Sai che faccio?, ti scrivo. Ti scrivo subito quello che sto pensando e provando, anche se la mia lettera la riceverai non so quando, come non so quando accarezzerò la tanto tua attesa busta bianca, diceva ad alta voce, come se la sua amica fosse lì, ad ascoltarla. Scriverle e aspettare il postino era l’unico modo che aveva per continuare a sentirla vicina. Quanta tristezza avrebbe provato quando il portalettere non le avrebbe consegnato posta, nessuna lettera, nessuna notizia. Quanta gioia e batticuore invece quando finalmente nelle sue mani avrebbe potuto accarezzare quella tanto attesa busta bianca! Incominciava la lunga attesa. I giorni passavano nel quotidiano monotono e senza colore.

    Partiva da casa per andare a scuola alle sei e trenta del mattino. Il viaggio con il pullman e le ore in classe: quasi tre quarti di giornata la trascorreva fuori. I compiti le assorbivano tutto il tempo libero e il resto delle ore doveva dedicarlo alla mamma aiutandola nelle faccende domestiche, nel far giocare i fratellini più grandi e ai più piccoli cantare la ninna nanna. Per l’anagrafe Benedetta non era altro che una ragazzina. Di fatto, però, l’epoca e la cultura in cui viveva non tenevano conto della tappa adolescenziale. Una bambina passava di botto dall’infanzia alla donna adulta. La società esigeva da essa la conseguente maturità e a lei non rimaneva altro che crescere in fretta. Diversivi, che segnalavano il tipico vivere l’adolescenza, per lei non ne esistevano. E per le sue amiche e compagne di scuola, più o meno il loro modo di vivere non era diverso dal suo. Ogni tanto si incontravano a casa dell’una o dell’altra e davanti a una tazza di caffè si raccontavano dei nuovi amori nati all’interno del gruppo, dei batticuori che non lasciavano spazio alla ragione, di sguardi proibiti scambiati attraverso la tendina del balcone

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