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Confessioni 2000
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E-book830 pagine13 ore

Confessioni 2000

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Info su questo ebook

E’ un romanzo fondamentalmente autobiografico e quindi assai vario di vicende e situazioni anomale o kafkiane. La sua novità sta nell’inconsueta abitudine dell’autore di cercare sempre con semplicità, ma anche con assoluta trasparenza logica il perché di ciò che gli è accaduto o gli accade, sia dentro di sé, che nel mondo in cui vive e di cui, nella sua poliedrica esperienza pluriennale, ha conosciuto diverse facce. Chi legge scoprirà che i problemi dell’autore sono anche i suoi, ma con sorpresa,capirà che molte delle risposte che il “pensiero unico” fornisce oggi a chi chiede luce, sono false o prive di fondamento. Da questa scoperta egli potrà trarre una libertà interiore sconosciuta, ma anche una autocoscienza morale capace di guidarlo a pensare e agire nel modo migliore nel suo vivere quotidiano, con lealtà ed equilibrio, consapevoledel mistero che ci circonda, etuttavia speranzoso nella possibilità che Qualcuno lo segua e lo accompagni verso una realtà che trascenda quella umana.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2015
ISBN9788891187901
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    Anteprima del libro

    Confessioni 2000 - Manfredo Anzini

    successive.

    PARTE PRIMA

                                           A ritroso                                 

    Rodi

    Non la mitica isola dell’Egeo, meta di turisti e di ricercatori di atmosfere epiche, bensì un paesino caratteristico della costa nord del promontorio garganico nel suo allungarsi sull’Adriatico verso la non lontana Dalmazia. Caratteristico anche per la posizione. Se ne sta, infatti, aggrappato da secoli ad un consistente spuntone di roccia che sovrasta dall’alto il mare. Gli scarsi gruppi di case che la ricoprono seguendone i dislivelli, non scendono però verso la spiaggia: ad ovest perché impediti dalla parete alta e scoscesa, assolutamente impraticabile ma fascinosa per le sue insenature e anfratti che ribollono spesso di schiuma biancastra; più al centro neppure, sebbene lo spazio ci sia, solo che la parte estrema del piano roccioso su cui si regge il quartiere di Mezzaddaria, vecchio e dissestato, è franata giù nel mare da secoli e le onde non sono riuscite neppure ad addolcire in migliaia e migliaia di risacche i blocchi precipitati, il che rende il posto assolutamente inutilizzabile e nessuno si azzarderebbe a costruirvi una dimora con il rischio di vedersela scivolare tra le onde. Non scendono, infine, neppure – e questo sorprende - nella parte est , dove la cittadina poggia i suoi piedi nudi sulla sabbia dell’Adriatico. Eppure la zona ha tutte le caratteristiche per diventare attrattiva. Oggi vi fa bella presenza il nuovo e moderno porticciolo turistico che ha soppiantato il vecchio porto ridotto al fantasma di ciò che era. Le abitazioni, invece, stranamente, a parte qualche modesto complesso alberghiero, non si sono lasciate allettare dall’opportunità di collocarsi nella zona bassa dove pure avrebbero beneficiato di un arenile di sabbia bionda, quasi dorata, che ha fatto la fortuna, dal dopoguerra in poi, dei proprietari degli stabilimenti balneari . Una spiaggia di rena finissima che si prolunga a perdita d’occhio, restringendosi, verso S. Menaio , fino a Peschici, lontano, minuscolo grumo scuro su una protuberanza del promontorio. Insomma sembra che Rodi voglia snobbare la sua natura di località marittima. Lo conferma la cinta abitativa del paese, anche quella che si affaccia sul porto. Viste dal basso, cioè dalla spiaggia, le abitazioni appaiono lontane e parecchio più in alto rispetto all’arenile, nonostante la presenza della stazione ferroviaria della Garganica collocata quasi sul bagnasciuga. Sembra insomma che case e muraglioni si siano ritirati indietro verso le zone alte, forse un tempo, per difendersi dai saraceni, comunque, di certo, a guadagnare distanza dal mare. La strada asfaltata che, proveniente da S. Menaio, sale dalla stazione al paese, deve percorrere un bel po’ di curve per giungere fin su, nella piazza del Belvedere che si affaccia sull’ampio panorama costiero.

    Rodi potrebbe raccontare una sua lunga e interessante storia, basterebbe risalire a qualche decennio prima, ma è orgogliosa, non vuole avere rimpianti. Di sicuro, meglio guidata, sarebbe potuta diventare altro, se non avesse perso malamente il treno per crescere, senza quasi avvedersene, cullandosi per troppo tempo nella sua pigrizia, mentre Peschici esplodeva turisticamente. La filosofia dello Stiamo tanto bene così!, non ha molti sbocchi. Da qualche tempo a questa parte, la costruzione del porticciolo turistico e qualche nuova struttura alberghiera sembrano preludere ad un futuro diverso, appena cominciato. Il mare scontroso, è quello di tutta la costa nord dello sperone, ma a volte si quieta innamorato e si fa specchio all'antico agglomerato, un tempo perla del Gargano.

    E lo era in effetti la perla, quando all'inizio del '900, vendeva limoni anche agli USA spedendoli in preziose cassette piene di frutti gialli ognuno dei quali era avvolto in un fazzolettino di carta trinata e colorata con il marchio delle ditte che li lavoravano. Di quelle trine cartacee, stantie ma ben incorniciate, se ne trovano ancora in vecchie case del paese, o magari in qualche appartamento di emigranti rodiani al nord, ad abbellire talvolta pareti o mobilia tarlata, carica di ricordi e odorante di muffa e di bucce d'arancio arrotolate, ad essiccarsi, davanti al camino. Ne è stata fatta anche una deliziosa raccolta fotografica, a cura del parroco locale, in un catalogo patinato.

    A quel tempo, il vecchio porto, brulicava di due alberi che facevano la spola con la Dalmazia o portavano la frutta a Brindisi o a Napoli da dove i piroscafi raggiungevano gli Stati Uniti o altri mercati. Era nata perfino una florida banca locale a gestire il business degli agrumi.

    I limoni del Gargano hanno un profumo unico, inconfondibile. Sono aspri, come è naturale, ma gustosi. Un tempo la gente li mangiava a morsi addentando scorza, spicchi e insieme la dolciastra polpa bianca sotto la buccia, o in insalata, con un pizzico di sale e due gocce d'olio, magari assieme a fette d'arancio. Oggi i più anziani ne hanno nostalgia, ma non ci trovano più lo stesso gusto (Anche i limoni non sono più quelli di una volta!). Sebbene gli alberi continuino a caricarsi di frutta, i piccoli velieri non stazionano più lungo la banchina, e i capannoni per la lavorazione del prodotto sono stati riconvertiti ad altri usi. Finito il commercio dei limoni, a Rodi tutto è rimasto immobile . Anche l'attività peschereccia si è gradualmente fermata, al punto che barche e motori hanno preferito trovare ricovero presso le due foci aperte sul mare nel vicino lago di Varano, dove le acque dolci interne, a volte si scontrano, a volte amoreggiano, con i flutti dell'Adriatico. Di quella Rodi è rimasta in me solo una foto ingiallita dagli anni con il suo sapore malinconico di compostezza antica, irrecuperabile. Nella foto solo visi seri e gravi che fissano il futuro. La realtà, invero era diversa ed era possibile, incontrare vari tipi di umanità, da personaggi impenetrabili o levantini a bonaccioni dal sorriso facile e vuoto, egoismi chiusi e generosità eroiche. Io ne ricordo uno appunto di quest’ultimo tipo: Ciccillo Apicella, il capo delle guardie municipali, che per poco non perse la vita precipitando fra le travi in fiamme di un vecchio caseggiato del centro, nel tentativo di salvare un ragazzino intrappolato. Non ci riuscì, anzi rischiò di lasciarci le penne per la troppo generosa irruenza e presunzione. Lo ricordo perché c’ero anch’io, quasi ancora un bambino, accorso alle grida della gente che si era accalcata davanti alla casa in fiamme. Ad un certo punto, Ciccillo, dopo essersi arrampicato di slancio sul tetto avvolto dal fumo, seguendo le grida d'aiuto, col cuore in gola e in una esaltazione frenetica, saltò sui pinci - così chiamano le tegole - infraciditi dal tempo, senza nessun accorgimento, senza cioè neppure tastare dove metteva i piedi. Urlava solo di passargli secchi d'acqua - non c'erano allora in paese né pompieri né pompe - per spegnere un focolaio nei suoi pressi. Improvvisamente le tegole cedettero ed egli franò addosso al povero ragazzo trascinandosi dietro un carico mortale di macerie. Lo afferrarono per miracolo a un braccio e lo tirarono fuori dall'inferno, ma per il ragazzo non ci fu più niente da fare. Eroe sfortunato, sciocco ma generoso, e ne fu segnato per il resto dei suoi giorni con incubi e smanie notturne da svegliarsi ansimante e sudato, il grido strozzato in gola e l'angoscia di non farcela. Per me è restato l’eroe sfortunato.

    Ma perché sto parlando di Rodi? Non ci sono nato e ci sono vissuto solo per alcuni anni della mia adolescenza, imprigionato nello sperone, ad attendere che finisse la guerra, cioè la carneficina mondiale del 40-45, che per numero di morti e ferocia inumana ha fatto passare in seconda fila l'altra guerra, anch'essa mondiale, che aveva aperto il XX secolo con il suo orrido macello tra il 1914 e il 18.

    Sono stati però anni importanti che mi hanno segnato indelebilmente. Per questo, io lo avverto ancora come un punto di partenza essenziale. Forse perché è stato aggirandomi tra i vicoli sconnessi di quelle case aggrappate l'una all'altra, scendendo i gradoni delle sue malandate strade interne, maleodoranti soprattutto dopo gli acquazzoni - in materia di fogne, la gente del luogo era ferma agli usi e costumi del medioevo boccaccesco - sostando nelle poche piazzette fornite di fontana pubblica, o arrampicandomi sui blocchi di gradini in pietra che si inseguono tra un pianerottolo e l'altro, in un groviglio di scale e scalette appoggiate sulle facciate, che ho cominciato a prendere consapevolezza della mia adolescenza acerba e vogliosa, e dei suoi quotidiani impulsi e turbamenti che erano già, o pretendevano di essere, giovinezza. La mia esistenza si è svezzata lì, lì è nato l'abbozzo di uomo che poi, bene o male, è cresciuto e si è avviato per la sua strada. E’ questo probabilmente il motivo per cui, aprendo la cassapanca della memoria, il promontorio rodiano si è fatto avanti spontaneo, e nessuno degli altri ricordi ha fiatato. Mi sono lasciato prendere la mano.

    Ma non è giusto sottostare ai ricatti del cuore. Ogni brandello di vita ha la sua dignità, non importa a quale periodo dell'esistenza appartenga, ed il tassello di un mosaico, quale che sia il suo colore e la sua preziosità, dovrà essere collocato proprio nel punto in cui lo ha previsto il disegno dell'artista. Solo così darà il suo contributo allo splendore dell'opera. Comincerò dunque il mio itinerario narrativo da dove effettivamente è iniziata la mia vita pensante.

    A suo tempo, ritornerò a Rodi per riprendere in mano il bandolo della mia vita e svolgerlo fino in fondo, piccolo Ulisse di una modesta Odissea. Ho citato l’opera di Omero non a caso. A Rodi l'epopea è nell’aria, a cominciare dal suo nome dal sapore mitico che rimanda spontaneamente alle lontane isole greche, dove navi ardite affrontavano avventure eroiche. A me però non servono fantasie poetiche. A non dimenticare quell’esiguo e intenso groviglio abitativo mi basta la prima emozione che mi percosse l'anima la notte del mio arrivo dalla Calabria con la mamma, e che mi fece rivoltolare per ore nel lettino di fortuna in casa di un lontano zio. Avevo dieci anni. Era il ruggito immenso e ritmato della risacca sulle rocce, il respiro antico del mare, nel secolare corteggiamento delle vetuste coste garganiche. Erano i giorni bui di fine novembre e l'inverno sarebbe stato duro e interminabile.

    *** °°° ***

    Basta così. Mi risucchia ora l'origine: l'Abruzzo. Il luogo avito dove, tra montagne brulle e vallate inumidite da mille sorgenti, un giorno, una misteriosa mano mi depose nel grembo di mia madre e mi protesse dagli imprevisti scossoni di una gestazione problematica, per scodellarmi, rossiccio e gesticolante, tra le braccia dell'ostetrica.

    *** °°° ***

    Sulmona.  S. Emidio, salvaci tu!

    La prima luce, il primo aprirsi di me al mondo, il primo attimo di autocoscienza di fronte a ciò che mi stava accadendo attorno, ma fuori di me, lo ebbi a circa quattro anni. In Abruzzo lo ricordano ancora il terremoto del 1933 che devastò la conca peligna, ammazzando tanta gente e riducendo in pezzi buona parte di Sulmona e dei paesi circonvicini.

    In verità il primo flash che attraversa la mia memoria infantile è di quasi un anno prima e non riguarda il terremoto. Ho ricostruito l'episodio che l'ha originato aiutandomi con la fantasia, negli anni successivi. Avevo tre anni, ancora immerso nel buio felice dell'incoscienza. Tutto è accaduto in casa davanti al caminetto. Era un focolare ampio ma non profondo, sia pure con la rientranza centrale che si incuneava sulla canna fumaria. Naturalmente nero di fuliggine e di odori bruciati. Serviva a riscaldare, ma soprattutto a cuocere il cibo. Il flash è legato ad un improvviso lancinante dolore, quello sì, inchiodato nella memoria. Un bruciare vivo di una parte di me. Come una mano di fiamme, orribile, che strappava le mie carni tenere, delicate come i petali di un fiore. La nonna aveva appena poggiato sul gradino basso del camino il paiolo della polenta dopo averlo sganciato dal reggipentola. Da bravo bambino di tre anni indossavo una camiciola. Il culetto tornito restava scoperto. Non ricordo come, ero lì, proprio davanti all'enorme bocca del camino, incuriosito dalle bolle di polenta che si squarciavano schizzando dal paiolo appena poggiato. Mia nonna, tutta indaffarata, non se ne era accorta e si era spostata verso il lavandino. Ero nel punto sbagliato in un momento sbagliato.

    Il fattaccio avvenne senza preavviso, come negli incidenti inevitabili. Mio fratello, di qualche anno più grande, mi passò improvvisamente dietro, quasi di corsa, proprio nell'attimo in cui mi stavo voltando, e meno male! Perché se fossi rimasto fermo, sarei caduto di viso e addio frugoletto senza futuro.

    L'involontaria spinta mi fece letteralmente sedere sulla pentola bollente. L'ovvio urlo disperato di dolore insopportabile fu quasi tutt'uno con le mani della nonna che mi abbrancavano e sollevavano fulmineamente da quell'inferno giallo. Per fortuna il lavello era vicino. L'immediato getto d'acqua fredda tra le gambine e sulle natiche impiastricciate di polenta bloccarono la scottatura. La mia vita era rimasta appesa ad un filo. Se la scottatura, di cui porto ancora i segni, si fosse protratta per qualche altro attimo o avesse interessato pochi centimetri in più di pelle, ci sarebbe una piccola tomba bianca in più nel locale cimitero ed un rompiscatole in meno in giro.

    Ho conservato dell'episodio solo frammenti di sensazioni laceranti. Non so come me la sono cavata. Mi hanno assicurato che la scottatura era di tale gravità ed in una zona del corpo così delicata che, di certo, Qualcuno deve avermi trattenuto per la camiciola affinché non si concludesse la mia esistenza con un salto imprevedibile nel mistero del dopo, prima ancora di aprire, sia pure parzialmente, occhi consapevoli alla vita.

    Li aprii definitivamente appunto l'anno successivo in occasione del terremoto. Ricordi e sensazioni sono assai più consistenti e vivi, come il brusco risveglio notturno tra il vociare confuso, le scene di terrore nel buio, il sussulto pauroso delle pareti, lo scuotimento violento della stanza, intonaco e mattoni che si staccavano dal muro ballonzolando e precipitando, mio fratello che saltava come uno spiritato sul suo lettino gridando frasi isteriche sconclusionate e mia nonna che implorava disperata: S. Emidio!! S. Emidio! Salvaci tu!. La scena reale di quei momenti drammatici è ancora perfettamente nitida, ma non mi emoziona. Sono solo sequenze indelebili di un cortometraggio unico. Nel trambusto generale, infatti, mi sembrava non di vivere ma di assistere a qualcosa che stava accadendo davanti ai miei occhi, senza che mi toccasse. Più meraviglia che terrore. Era per me la prima volta di un terremoto. Probabilmente non ero neanche in grado di capire il pericolo che stavamo correndo tutti in casa. Ricordo però la nonna, con gli occhi sbarrati, che ci spingeva convulsamente fuori della porta, nel tentativo di guadagnare illesi la strada, e invocava S. Emidio ad alta voce.

    Ne morirono tanti quella notte, schiacciati dalle macerie. Per fortuna non ho visto nessuna scena raccapricciante che mi straziasse poi la memoria. Anche le tende militari che il giorno dopo furono piantate nell'immensa piazza della città per le molte famiglie restate senza tetto, tra cui la mia, le ricordo come spettacolo pittoresco, un accampamento da avventura, un'occasione divertente per rincorrersi e giocare a nascondino tra noi ragazzini scampati al sisma. Vi dimorammo per circa un mese, prima che riuscissero a trovare soluzioni alternative. Qualcosa di oscuramente pauroso però deve essere rimasto nel fondo del mio cuore. Per un bel po' di anni dopo il tragico avvenimento – lo ricordo bene - tutte le sere, le prime volte istruito dalla nonna, al calar delle tenebre, prima di chiudere gli occhi al sonno, appoggiato alla sponda del letto a mani giunte come nelle immaginette, io parlavo fiducioso a S.Emidio e lo pregavo di proteggere la tranquillità della mia famiglia nella notte incombente. Solo chi ha vissuto un terremoto notturno può capire.

    Oggi se n’è persa l’abitudine, ma a quel tempo era consueto in molte famiglie. A casa mia la preghiera serale non mancava mai, grazie alla pertinacia di mia nonna. Era normale per lei, ogni giorno, all'imbrunire, radunare noi, tutti i mocciosi di casa, attorno a sé per la recita del rosario che lei – incredibile a dirsi – diceva in latino(!), ovviamente il suo latino. Ho riso fino alle lacrime negli anni successivi, durante il Liceo, ricordando certe sue strane espressioni deformate in una irriconoscibile lingua, appresa in chiesa e storpiata con tranquilla innocenza. Sono convinto però che, se un Dio c'è, quegli strafalcioni Gli saranno stati più graditi del salmodiare solenne, ma formale, in perfetto latino, in conventi e cattedrali.

    Il problema vero per noi ragazzini, regolarmente in ginocchio, sia pure appoggiati all'indietro sui talloni, - (da adulto ho visto, con sorpresa, nella stanzetta delle apparizioni a Medjugorie, Marija, una delle veggenti, recitare il rosario nella medesima più comoda posizione. Dovrei spiegare perché con sorpresa, ma è intuibile) - era la sequenza interminabile delle giaculatorie e delle invocazioni a tutti i santi del Paradiso, che mia nonna, imperterrita, infilava una dopo l'altra, dopo le Litanie, in una catena senza fine che ci gettava nella disperazione.

    Strano e dolce luogo, la Sulmona della mia infanzia. Provo tenerezza mentre vado recuperandone le immagini semplici e innocenti di piccola città contadina e nel contempo nobile. Quasi seminascosta nel cuore dell'Abruzzo, se ne sta da sempre ritrosa, quasi appartata sul dosso terminale di quella Valle Peligna di cui è incontrastata regina. Nel tempo della mia infanzia non era ancora stata sottoposta alle spinte modernizzatrici che ne volevano fare un centro vitale di industrializzazione. Rivedendola da adulto non mi è sembrato che il progetto sia andato del tutto in porto. Probabilmente non era nel suo DNA, come invece lo sono ancora e lo saranno i suoi inimitabili e profumati confetti, non ancora adeguatamente valorizzati a livello internazionale.

    Nel mio cuore essa è rimasta un cammeo dolce e rasserenante; una gentildonna, seria e riservata che non ama sfoggiare i suoi merletti e monili preziosi, pur avendoli e godendone. Le basta la consapevolezza di possederli. Li indossa solo nelle occasioni in cui crede, ma quando lo fa, il suo stile è inimitabile. Per conoscerla davvero, a chi viene da fuori, basta guardarla con innocenza e sincera amicizia. Allora gli si sveleranno insospettabili rarità architettoniche disseminate lungo tutto il percorso cittadino. Non ne faccio il nome perché a Sulmona le conoscono tutti. Sono esse a rendere la loro città culturalmente deliziosa. Basterà, per chi vorrà occuparsi della sua promozione, evidenziarli adeguatamente quegli straordinari monumenti, atmosfere e immagini, magari con tecnologie e aloni pubblicitari opportuni, e la città di Ovidio diventerà una meta turistica dall’imprevedibile futuro.

    *** °°° ***

    Nostalgie

    C'è un vuoto costante sulla scena dei brandelli di memoria relativi alla mia infanzia sulmontina. Negli scenari disegnati di volta in volta nel corso delle vicende, manca sempre un personaggio essenziale: mia madre. Perché non vi compare?

    Mia madre non era con noi semplicemente perché era lontana. Qualche anno prima, con un coraggio allora assolutamente fuori del comune, si era svincolata da papà, con cui le era diventato impossibile vivere, aveva ripreso gli studi, si era diplomata in ostetricia all’Aquila e, a seguito di un concorso, lavorava come ostetrica condotta in un paesino sperduto della Calabria. A noi pensava la nonna. Ancora oggi mi domando dove abbia trovato tanta audacia. Aveva meno di trent’anni. Era sola. In una piccola località interna della Calabria, così lontana dall’Abruzzo ed a lei sconosciuta. Ma a Sulmona c’erano cinque figli piccoli (da uno a dieci anni) da sfamare.

    Tornava rarissimamente da noi. Non era facile e costava. Questa volta però, non poteva mancare all'appuntamento. L'occasione era irrepetibile: la mia prima comunione. Ero proprio un bambino. Per convincere il parroco titubante ad ammettermi alla importante cerimonia nonostante la mia tenera età - non avevo ancora compiuto sei anni ed ero alto quanto il classico soldino di cacio -, avevo imparato a memoria - era la condizione sine qua non imposta dal curato - l'intero catechismo, quello vecchio, di S. Pio X, vecchio ma chiaro e lineare nelle domande e nelle risposte. Doveva essere la prova della mia idoneità. Lo diventò anche della mia determinazione, della mia tenacia e della prodigiosa memoria che mi ritrovavo. Mi ci vollero pochissimi giorni e davanti a un don Filippo incredulo e stupefatto che mi aveva proposto quell'impossibile esame, sicuro di scoraggiarmi, non sbagliai una sola risposta. Avevo imparato minuziosamente anche le domande. Erano proprio esse a far scattare le risposte. Così, nell'accertamento previsto per superare lo scoglio dell'età, il gioco fu semplice e delizioso come in una tranquilla partita di ping-pong. Domande precise, risposte nitide. E la prima Comunione fu mia.

    *** °°° ***

    La Sulmona di don Filippo

    Mi è capitato di rivedere don Filippo non molti anni fa. In realtà, passando per Sulmona, l'ho cercato io, nella sua parrocchia che era stata la mia, ma con il timore di non trovarlo. Invece, era lì,comprensibilmente invecchiato, ma per nulla mortificato dall'età. E’ bastato poco a riconoscerci reciprocamente. L’ho abbracciato con calore affettuoso ed un sospiro di sollievo. Il suo sorrisoannullava anni e distanze. Ha voluto sapere tutto di me. Gli ho parlato delle varie tappe della mia carriera scolastica, degli ostacoli senza fine per la mia scelta di serietà, dei guasti legislativi e di costume che già stavano facendo sgretolare la scuola e con essa i valori della nostra identità culturale, della mia determinazione a non cedere ai ricatti. Ti riconosco, esclamò. Sei una vera coccia tosta, abruzzese. Non ti rammollire però, anche se dovrai sudar sangue aggiunse, C’è già troppa gente che lo fa. Con la solita canzone, tutta italiana, del . Passammo un’oretta piacevolissima di ricordi e di riflessioni. Don Filippo, toglimi una curiosità, che ne pensi del Vaticano II? (Il Concilio si era concluso nel ’65). Non mi rispose subito. Mi fissò, sorrise, poi si fece serio. Tocchi un argomento delicato. Preferirei non risponderti. Non voglio parlare male di mia madre. Confesso di essere alquanto confuso, ma mi fido di Dio. Ho la triste sensazione che stia accadendo qualcosa di irreversibile nella Chiesa. Lo sapremo col passare degli anni. Il peso che maggiormente mi opprime, e con me, parecchi dei sacerdoti miei coetanei, ormai tutti emarginati come tradizionalisti, è che questa volta non siano in gioco dei comportamenti morali, ma la stessa dottrina, il fondamento della nostra Fede, che comincia a franarci sotto i piedi. Mi fermo subito perché non voglio andare oltre. Anzi ti chiedo scusa se ti ho turbato con le mie perplessità. Ascoltami: l’unica soluzione è rimetterci totalmente nelle mani di Dio. La Chiesa l’ha fondata Lui. Lui dovrà prendersene cura. E sorrise di nuovo, rasserenato. Ne ho sentito qualcosa, don Filippo, e mi piacerebbe approfondire l’argomento. Mi rendo conto però della tua situazione e non insisto. Allora, dato che siamo in argomento religioso, ricordi ancora la mia prima Comunione?Se la ricordo! E tu ricordi ancora il Catechismo?. Ti metto subito alla prova: partì di scatto. Ed io Ci ha creato Dio. Don Filippo: Chi è Dio?. Io Dio è l’essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra. Ma ti prego di non domandarmi altro, don Filippo, potrei deluderti. No, mio caro. Sono convinto che ricorderesti più di quanto pensi. Non immagini l’importanza pedagogica di quell’apprendere a memoria il catechismo a quell’età. C’era tutta la Fede cristiana in quel libricino, racchiusa in definizioni così asciutte ed essenziali che si sarebbero depositate nel fondo della memoria ed avrebbero messo radici inestirpabili nella vita e nella coscienza del buon cristiano. Certo si trattava di definizioni che, nella prima età, erano comprensibili solo in parte, ma poi diventavano sempre più illuminanti col crescere e maturare della mente e della cultura. I cristiani di un tempo esattamente che cosa credere e ciò che era irrinunciabile. Prova oggi. C’è tanta confusione nelle persone di chiesa, eppure ci sono in giro catechismi molto più voluminosi e articolati di quello di Pio X, ormai irreperibile, ma così dispersivi e vaghi, da non lasciar traccia. Don Filippo, sono ammirato della tua lucida riflessione. Concordo pienamente. Ma ora scusami, voglio approfittare della tua disponibilità. Sarei felice di essere messo al corrente di come vanno le cose a Sulmona. Ci manco da parecchio tempo, ma rivedendola, non l’ho trovata molto cambiata, a parte il . Mi sono perso qualcosa? A quel che ricordo di anni fa, le principali questioni di cui si interessavano i cittadini, erano il ponte Capograssi e il progetto di fare di Sulmona una Provincia. Cosa ne è stato?Il ponte Capograssi l’hanno finalmente realizzato, ma ce n’è voluta!. La Provincia invece è restata l’eterna promessa disattesa, con cui i politici hanno menato per il naso i sulmontini da mezzo secolo a questa parte. Non credo che si realizzerà mai. Troppi ostacoli si frappongono: egoismi, rivalità, interessi, nostri e di altre località coinvolte, innanzitutto L’Aquila e poi Avezzano e Castel di Sangro,. E a Sulmona, come la prendono? Con molta filosofia. Tu sai che questo è un po’ il vanto ed il difetto del nostro popolo. Siamo abituati a pazientare: forza d’animo mista a pigrizia. Ci gloriamo della nostra tradizione storica antica e nobile che fa capo a Roma e sembra bastarci. Le alterne vicende che hanno travagliato il nostro territorio ci hanno abituato ad assorbire la saggia lezione dei secoli. Non è che i Sulmontini siano incapaci di accendersi per i loro progetti, in certe occasioni, come qualche anno fa, hanno reagito anche violentemente a certe ingiustizie, ma poi si arrendono quasi fatalisticamente alle difficoltà. Non ti sembra spontaneo in argomento evocare come capostipite del nostro modus agendi il nostro concittadino più famoso: quell'Ovidio Nasone, amato e ammirato da generazioni di studiosi e di innamorati, fin da quando Roma era la capitale del mondo?. Tu hai fatto studi classici e lo conosci bene. Un poeta in grado di trasformare in versi ogni sua emozione o pensiero, con espressioni di inimitabile scorrevolezza, sia che trattasse di amori e di tecniche amorose, sia fossero fantasie mitologiche struggenti o tristezze disperate da esiliato. Ma anche vero sulmontino, cioè persona mite, fragile e sentimentale, ingenuo ed audace, spaesato quanto libertino, e soprattutto sfortunato. Circostanza quest'ultima che mi sembra farne quasi la metafora umana dei suoi concittadini più sensibili, protesi ad un futuro sempre in ritardo con le loro aspettative ed affettuosamente grati all'infelice esiliato del Ponto per aver dato lustro alla sua città fino alle lontane terre orientali dei confini dell'Impero.Don Filippo, ne stai parlando in modo incantevole. Ne sono quasi sorpreso. Ce l’ho spesso tra le mani, mio caro, e mi piace leggere di lui. Inoltre ho fatto ripetizioni di Latino ad alunni di Liceo, quindi ce l’ho fresco. Voglio aggiungerti un particolare sul rapporto Ovidio- Sulmona. Forse lo conosci, ma voglio dirtelo lo stesso. Lo sai che ancora oggi il verso in cui Ovidio rivendica la sua nascita a Sulmona (Sulmo * mihi patria est = Sono nato a Sulmona) sintetizzata in acronimo (S.M.P.E"), fregia la bandiera municipale e si trova riprodotta su carte, documenti e monumenti cittadini?. Una sigla che i sulmontini, conoscono e capiscono forse vagamente, magari storpiandone la pronuncia latina, ma che li riempie di orgoglio. Forse l'orgoglio è troppo poco per un impegno di rinascita continuativa, quale occorrerebbe a questa mia cara e un po’ sonnolenta città, ma è comunque un buon carburante e non c'è niente di male a sentirne il calore, se si ha voglia di darsi da fare e cominciare a

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