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Questo bimbo a chi lo do?
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E-book189 pagine2 ore

Questo bimbo a chi lo do?

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Info su questo ebook

“Questo Bimbo a chi lo do?” è un libro per genitori ed educatori chi si pongono domande sul rapporto tra marketing/pubblicità e cultura per l’infanzia. Essendo un diario, e non un manuale con le ricette pronte all’uso, è più facile trovarvi domande che risposte. Da anni l’autore, @GiampRem, ha rinunciato a cercare nella pubblicità il finanziamento per il suo blog dedicato proprio alla cultura per l’infanzia: qui racconta il motivo e le conseguenze di questa scelta complicata. Questo diario è il manifesto di una scelta personale, quasi “intima”. Non c’è la pretesa di guidare crociate. C’è semmai la volontà di innescare pensiero sul senso comune che stiamo narrando ai bambini. Senza demonizzazioni ma anche senza timidezze nei confronti del linguaggio e dei meccanismi della pubblicità. Tra le pagine trova ampio spazio anche il racconto di tante proposte per l’infanzia milanesi. Si parla di lettura. E in quel caso la parola passa a chi di libri se ne intende. Insomma, si parla di ciò che serve ai bambini per attivare anticorpi. Il tutto lungo un filo conduttore: l’accettazione del limite come parte della vita e come spunto antagonista da opporre agli stereotipi della perfezione.
LinguaItaliano
Data di uscita1 set 2016
ISBN9788892609808
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    Anteprima del libro

    Questo bimbo a chi lo do? - GiampRem

    perso?

    I parte

    Abbaiare alla luna:

    "gridare contro chi non se

    ne cura" *

    • definizione vista su www.larapedia.com

    Piccolo, spazio, pubblicità

    Il problema che individuo. L’assedio mediatico e l’assenza di silenzio rendono immediatamente disponibile l’adesione agli standard, nascondendo l’opzione dell’adesione a se stessi.

    La soluzione che ho scelto. Per educare i bambini all’importanza della conquista del proprio centro, e non a una sua rappresentazione, scelgo comportamenti concreti. Solo la coerenza dei comportamenti degli adulti può rendere, agli occhi dei bambini, la fedeltà a se stessi un traguardo possibile e soprattutto necessario.

    Nel 2004 la Società Italiana di Pediatria ha monitorato per quattro settimane una televisione privata nazionale nella fascia oraria tra le 15 e le 18, giungendo alla seguente conclusione: se un bambino avesse guardato per due ore al giorno quel canale, in un anno avrebbe potuto vedere circa 30 mila spot pubblicitari ¹. Cosa succede nella testa di un bambino messo di fronte a decine di migliaia di rappresentazioni della realtà che gli piovono da tutti gli schermi (e non solo) e che toccano sempre le sue corde emotive più profonde? Probabilmente niente di buono e ci sarà pure una chiave per dirlo senza che dirlo assomigli a uno sterile abbaiare alla luna. La risposta più ovvia è che quel bambino insisterà per tormentare i genitori con le proprie richieste. In Gran Bretagna hanno coniato il termine pester power per descrivere il problema. Tutto vero, ma io dico che c’è qualcosa di più. Un elemento che so essere di difficile dimostrazione ma che voglio ugualmente mettere nelle fondamenta di questo percorso: beh, io credo che quel bambino percepirà quel linguaggio come il più efficace per comunicare e ne sarà conquistato. Con quali conseguenze?

    Ha ragione chi dice che non è impossibile resistere alle tentazioni e che la forza di volontà non può essere cancellata da uno spot. Ma se la partita si sposta su un campo in superficie, lontanissimo milioni di anni di luce dal proprio centro, beh allora le cose cambiano un po’. Ecco io credo che la comunicazione di massa, di cui la pubblicità è la punta di diamante, abbia avuto la forza non tanto di condizionarci su qualcosa su cui noi stessi non volessimo farci pigramente condizionare, ma di farci vivere dentro l’illusione di mantenere costantemente l’aderenza con la parte più autentica di noi stessi. Ci ha illuso che il nostro centro fosse sempre lì a portata di mano, come una delle tante rappresentazione qualsiasi che raccontano, anzi narrano, di un’auto o di un profumo. Invece io penso che quei messaggi, quel linguaggio, ma fondamentalmente tutto il carico culturale che si portano dietro, si siano depositati come strati contribuendo a renderci quasi impossibile l’aderenza alla nostra impronta originaria.

    E’ su questo versante che, dal mio punto di vista, l’occupazione militare ci ha colto impreparati ed è lì che vedo gli effetti del bombardamento a tappeto cui siamo stati sottoposti per decenni. Il pensiero che si possa passare un’esistenza senza mai riuscire a prendere davvero consapevolezza di questo illusionismo è come una montagna russa: mi toglie letteralmente il fiato. Il pensiero che in un solo anno 30 mila rappresentazioni possano depositarsi e attecchire su un terreno fertile, incolto, vergine, fresco, accogliente, fiducioso, come quello di un bambino mi sembra un’aggressione selvaggia che non è affatto ingentilita dalle sue sembianze patinate.

    Benvenuto nel club, giovane creatura. Non te ne accorgerai, ma anche il tuo centro inizierà a sfumare e a diventare, nel tempo, inaccessibile a te stesso. Non so davvero se c’è stata un’epoca in cui questo allontanamento si è verificato con una tale dirompenza. Perchè oltre agli spot in tv ti capiterà, se sei milanese, di passeggiare in piazza Duomo e di vedere che sul fianco di una delle più grandi cattedrali d’Europa ci sono manifesti e schermi che promuovono profumi. Perchè quando accenderai la radio ascolterai altre narrazioni. Le stesse che poi ti si materializzeranno sullo schermo del pc, sotto la metropolitana, ai bordi delle strade, allo stadio, sui mezzi pubblici. Persino a scuola.

    Ti accorgerai che è il marketing a governarci e che tu sei un numero. Anzi per il momento, vista l’età, sei una leva che serve ad aprire il portafoglio dei tuoi genitori che ti vogliono felice. Devi farti le ossa e non precorrere i tempi. Queste primissime 30 mila lucine sono la tua pista di atterraggio e illuminano a giorno il buio nel quale siamo immersi. Non so cosa si veda da dove sei arrivato, ma visto da qui, il buio non esiste più, è un’antica suggestione come le stelle che tappezzano il cielo: l’annientamento del buio varrà pure la sopportazione di qualche effetto collaterale no? Per tua comodità la strada ti è stata spianata. Dopo la gavetta diventerai un accesso, uno spettatore, un follower, un ridente pulviscolo del grande target profilato, pronto a dire la sua. Insomma, un bambino come noi. Dovrai scegliere la casacca da indossare. Decidere se sei pro o contro, comunicarlo, meglio se associato a una foto evocativa, lasciare i tuoi dati per permettere di proporti offerte su misura e accomodarti alla cassa: è importante, infatti, dare un risvolto concreto alla tua scelta. Le luci della pista di atterraggio ti hanno già notificato la non esistenza del buio e ti renderanno più agevole la ricerca della visibilità. Che è tutto. Tu sei più che una persona, sei un mezzo di trasporto, e il tuo valore è determinato dal costo contatto: più gente ti vede, più significa che vali. Quindi pérmeati di visibilità e con il tuo vigoroso riflesso aiuterai anche tutti noi a vederci meglio.

    Mi fanno spesso notare che c’è differenza tra la becera persuasione all’acquisto dell’ennesimo inutile oggetto e ad esempio la promozione della pace nel mondo con un sms. Ma si dai, riconosciamolo: sulla punte dell’increspatura in superficie la differenza la vedo anch’io. E’ che poi mi viene da starnutire e allora ogni volta finisce che scopro che basta un soffio, anche solo il fiato che serve per abbaiare alla luna, perchè la patina venga via lasciando scoperte le molle che stanno sotto il meccanismo della comunicazione di massa. E allora mi tocca scoprire ogni volta che le molle sono le stesse. Che mirano sempre e costantemente a emozionare, non a spiegare. Non a far crescere. Si, la differenza c’è, è ovvio. Ma nelle fondamenta c’è la stessa scorciatoia, c’è l’accettazione implicita che non è possibile e forse non è nemmeno importante cercare le profondità. Perchè fare questa fatica se la partita si gioca in superficie? L’istinto mi spingerebbe a dire ad ogni bambino: ribellati a questa pedante tirannia delle emozioni e alla rincorsa della visibilità. Ma non lo farò mai perchè sarebbe un errore di presunzione. Io non sono nessuno: uno zerovirgola-anzi-uno. C’è un’altra cosa molto più efficace da fare: lavorare affinchè sia la scuola a formare i bambini e i ragazzi fornendo loro gli strumenti per interpretare le tecniche con cui vengono costruiti i messaggi pubblicitari.

    ¹ http://www.repubblica.it/2005/d/sezioni/cronaca/bambispot/bambispot/bambispot.html

    Dopo Carosello, bambini a nanna

    Il problema che individuo. Il racconto della realtà è fatto dai media, i media traggono la sostenibilità ormai solo dalla pubblicità, la pubblicità serve a vendere. E’ così sbagliato il ricorso alla proprietà transitiva e la conclusione che i media servono sempre più a vendere? E’ sbagliato concludere che nel senso comune in cui crescono i bambini, l’unica cosa che in fondo conta è... emozionare per vendere?

    La soluzione che ho scelto. Non ho una soluzione. Continuo a considerare quello che abbiamo guadagnato accettando questa ricetta. Ma dentro di me è cresciuta l’inquietudine e insieme a lei una domanda si è fatta sempre più pressante: cosa abbiamo perso accettando questa ricetta?

    Della prima elementare non ho grandi ricordi, se non gli odori. Quello della cartella similpelle color bordeaux che si chiudeva sul davanti con due fibbie, e quello delle matite nel mio astuccio. E poi il colore verdeazzurro dei banchi, che avevano ancora il foro rotondo in un angolo in alto dove, almeno così si diceva, un tempo si mettevano i calamai. Certo che doveva esser proprio scomodo scrivere intingendo nell’inchiostro. Fortunati noi che siamo più moderni e che usiamo le biro. Quelle col rivestimento di plastica gialla scorrevano sui fogli più a fatica, quelle col rivestimento trasparente andavano meglio, ma rischiavano di sporcare di più. La conquista della biro al posto del calamaio non era l’unica modernità di quel periodo. Ce ne sono altre rispetto alle quali, oltre quarant’anni dopo quell’ottobre del ’71, sento che invece di progredire abbiamo accumulato un ritardo. Ma quale progresso: secondo i miei parametri, mettendo tutto sul piatto della bilancia, l’assalto che la tecnologia e la comunicazione nel frattempo ci hanno portato ha prodotto un arretramento culturale.

    Negli anni Settanta c’erano due canali televisivi, pubblici, e più tardi ne sarebbe arrivato un terzo. I programmi iniziavano alle cinque del pomeriggio. La sera alle 20,30, dopo il telegiornale, c’era Carosello e dopo Carosello i bambini andavano a dormire. Si potrebbe discutere della simpatia degli spot di una volta. La Linea di Cavandoli, Carmencita, Calimero o Jo Condor avevano un’innocenza di fondo che è più difficile riscontrare nei messaggi di oggi. Ma il punto non è solo il tono dello spot. Il punto è che le promozioni in tv rappresentavano un momento della giornata. Non il senso di tutto. Quella modernità potrebbe essere ancora alla nostra portata oggi?

    La pubblicità è diventata il centro di ogni progetto. Si è scelto di interpretare i mezzi di comunicazione come strumenti per raggruppare un target a cui vendere merci e idee a getto continuo. Questa non era l’unica strada che si poteva praticare, è la strada che si è scelto di praticare mettendo all’orizzonte solo l’immediatezza dell’interesse economico e non un progetto di più ampio respiro. Che miopia. Se restiamo al caso di Carosello, allora ci si è chiesti: perchè confinare le promozioni in una breve fascia serale se ci sono a disposizione 24 ore al giorno? E poi, perchè iniziare a trasmettere programmi alle cinque del pomeriggio se il mezzo televisivo avrebbe potuto diventare un formidabile venditore a cui ciascuna famiglia apre volentieri la porta? Noi sappiamo cosa abbiamo ottenuto da questa scelta, ma forse non ci chiediamo cosa abbiamo perso. Io me lo sono chiesto, ben sapendo che la risposta che ho cercato di darmi riguarda la mia sensibilità non un assoluto valido per tutti. Nella mia analisi abbiamo perso più di quello che abbiamo guadagnato. Per esempio l’interesse per la ricerca della qualità del contenuto, della sperimentazione. Dell’approccio alla realtà come qualcosa in movimento, in continua evoluzione, che bisogna sapere ridefinire.

    Quello che abbiamo guadagnato (a parte una presunta compagnia per gli anziani) invece è la promozione degli stereotipi che ci rassicurano ma che ci fissano dentro delle gabbie invisibili eppure d’acciaio. Se quello che serve per incassare sono gli ascolti e se tutte le leve per generarli sono state individuate, cercare qualcosa di diverso diventa un costo, quasi un vezzo naif. Perchè in televisione non ci sono trasmissioni in prima serata che parlano ai genitori del teatro per ragazzi, della lettura, della creatività, magari vista con gli occhi illustri di un grande artista come Bruno Munari a cui c’è un’associazione intitolata? Ho preso qualche esempio a caso, ma ce ne sarebbero altri. Lo sviluppo culturale del bambino non è importante? Se devo prendere a parametro gli accessi del mio sito, smetto di avere dubbi e confermo più che mai la conclusione a cui sono arrivato il 4 ottobre 2010 quando ho tolto la pubblicità dal vecchio bimbi.it (senza accento): accettare di dipendere economicamente dalla pubblicità significa accettare di uniformarsi.

    Nessun laboratorio Munari, nessuno spettacolo teatrale, nessun libro ha mai raggiunto i clic di uno solo dei 90 disegni da stampare e colorare che c’erano su bimbi.it. Forse avrebbe potuto riuscirci uno speciale allergie copia-incollato dalle primavere precedenti... ma del web ne parliamo più avanti.

    Se l’uniformità permette di portare a casa la pagnotta, perchè cercare altre strade? Solo perchè la stiamo indirettamente promuovendo come unico modello possibile per la sopravvivenza anche alle nuove generazioni...? Evidentemente questo non è percepito come un problema. E allora torno di nuovo a pensare non alle cose che abbiamo guadagnato ma a quelle che abbiamo perso grazie alla scelta di consegnarci ai numeri. Abbiamo perso lo stupore: tutta la superficie emotiva è stata

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