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Una vita tutta mia
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E-book404 pagine6 ore

Una vita tutta mia

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Info su questo ebook

Alessandra è una donna come tante, che cerca di trovare il suo equilibrio, inciampando qua e là, cadendo e rialzandosi ogni volta. Una vita sempre in bilico fra legittime aspirazioni di carriera e il desiderio di corrispondere alle anacronistiche aspettative di uomini, solo apparentemente evoluti, che dicono di amarla.
Tante domande, pochissime risposte.
A cinquant'anni dal '68, la parità è ancora solo sulla carta, ma non solo per colpa degli uomini.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2019
ISBN9788832524529
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    Anteprima del libro

    Una vita tutta mia - Marzia Lanzoni

    Marzia Lanzoni

    Una vita tutta mia

    ISBN: 9788832594669

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Ai genitori migliori del mondo: i miei

    e anche ai miei piccolini a quattro zampe

    Ormai è sera

    si accendono le luci dei lampioni

    tutta la gente corre a casa davanti alle televisioni

    ed un pensiero le passa per la testa

    forse la vita non è stata tutta persa

    forse qualcosa s’è salvato

    forse davvero non è stato poi tutto sbagliato

    forse era giusto così

    forse ma forse ma sì.

    Vasco

    La storia raccontata nelle pagine seguenti, seppure prenda spunto da fatti realmente accaduti, deve intendersi come frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone reali è puramente casuale (e se qualche lettore dovesse eventualmente riconoscersi in uno dei personaggi, beh ... forse farebbe bene a porsi delle domande sui come gestisce i propri rapporti interpersonali).

    Prologo: ovvero, del perché di cotanto sforzo

    Settembre 2012.

    Mi chiamo Alessandra. Alessandra M.

    Ho appena compiuto 48 anni. Ben portati. Vivo in una piccola casa in campagna, con:

    due gatti simpatici e affettuosi, incarnazione low profile di un desiderio di maternità che ho iniziato a provare quando ormai era troppo tardi per poterlo realizzare;

    un pianoforte che non tocco più da anni, ma che avrebbe potuto essere strumento di una carriera brillante, se fossi stata una bambina un po’ più disciplinata;

    blocchi da disegno, matite, carboncini e pennelli, che avrebbero potuto essere un hobby divertente, non senza risvolti interessanti sul piano dei rapporti sociali, se solo l’avessi coltivato appena un po’;

    un computer, che è stato ed è strumento di lavoro per l’esercizio di una professione nella quale mi sono affermata bene, ma non quanto avrei potuto, se solo fossi stata meno pigra e un po’ più ambiziosa;

    una moto, che potrebbe essere, non dico strumento di libertà, ma almeno un giocattolo divertente, se non fosse che ho imparato a guidarla giusto un paio di anni fa e quindi, essendo priva, sia dell’incoscienza della giovinezza, sia dell’esperienza degli anni di pratica, non sono abbastanza disinvolta per divertirmi ad andarci in giro;

    un’anima a pezzi, che tento di rimettere insieme da quattro anni; da quando, cioè, mi sono finalmente decisa a lasciare un uomo prepotente, al quale ho lasciato governare gran parte della mia vita.

    Ho appena compiuto 48 anni, è inevitabile che faccia bilanci. E quando si fanno bilanci, è perché sono negativi: quando sono positivi, uno ha di meglio che fare bilanci.

    Certo, bisognerebbe capire quanto il bilancio rispecchi la realtà oggettiva e quanto invece sia influenzato da stati d’animo e scompensi ormonali, che a questa età cominciano a farsi sentire in maniera inequivocabile. È fuor di dubbio che il mio umore, in questi quattro anni, sia stato molto altalenante, quasi schizofrenico. Una curva impazzita, con picchi altissimi di euforia e di entusiasmo per la soddisfazione di esserne uscita, seguiti da crateri di disperazione per aver buttato via la parte migliore della mia vita e per avere sprecato la mia forza, le mie energie, la mia sensibilità, la mia intelligenza, nell’inutile tentativo di salvare da se stesso qualcuno che tutto voleva tranne che essere salvato.

    Perché, poi? Per amore? Per amore di chi?

    Ho bisogno di capire i motivi profondi che mi hanno spinta a fare le scelte che ho fatto. Ne ho bisogno per razionalizzare, per rendere il mio bilancio oggettivo, perché solo razionalizzando potrò uscire da questo tunnel.

    Provo con la terapia della scrittura. Analizzarmi e analizzare la mia vita, passata e presente, mettendo tutto nero su bianco, campionando, scandagliando, eseguendo biopsie, radiografie, tomografie, per scoprire se c’è davvero qualcosa che non va in me. Scoprire se c’è una parte malata, per poi capire se si può curare o se il malfunzionamento sia fisiologico, congenito, o ormai cronico, se esista una terapia efficace o se debba rassegnarmi ai palliativi.

    Sono sempre stata un po’ grafomane. Magari nessuno leggerà mai nulla di quello che ho scritto, ma il solo scrivere mi rilassa, mi scarica. Il solo scrivere è già terapeutico. In questa brillante mattina di fine estate ho deciso di riprendere i racconti che ho scritto negli ultimi venti anni, gli articoli mai pubblicati, le lettere scambiate con le poche persone (tre) con le quali non ho avuto paura di mostrarmi, per rileggerle e per partire da lì con la mia analisi. Analizzare quei frammenti e magari metterli insieme, come fosse il restauro di un vaso in frantumi, ricostruendo le parti mancanti, sulla base di quello che ricordo, ma distinguendo i pezzi originali dell’epoca da quelli ricostruiti, necessariamente filtrati, deformati dalla sovrapposizione dell’esperienza e dei ricordi. Capire com’ero io allora in relazione al mondo che mi circondava, rileggendo le mie stesse riflessioni sulle persone che frequentavo, sull’uomo di cui mi ero (in apparenza inspiegabilmente) innamorata e di cui (ancor più inspiegabilmente) sopportavo ogni intemperanza, ma anche su fatti di cronaca, di politica, su film e libri, sulla musica che ascoltavo, sulla tv che guardavo.

    Ma dove ho messo la cartella?

    Non la tenevo nel computer. È un portatile, lo uso per lavoro, ce l’ho sempre con me, lo lascio a volte incustodito su scrivanie altrui, me lo trascino nei viaggi, rischio che me lo rubino, quando sono a casa è perennemente collegato a Internet. Quei file erano troppo intimi e riservati per rischiare che qualcuno ci ficcasse inopportunamente il naso. La cartella era salvata nella memoria esterna. Una memoria da un Tera dove salvo tutto quello che sta sul portatile e dove conservo una serie di altre cose, tipo foto, musica, film, documenti riservati, appunto.

    Nella memoria esterna non c’è.

    Rivolto lo studio alla ricerca di chiavette USB, CD, DVD, qualsiasi altro supporto dove avrei potuto creare una copia di sicurezza. Niente. Come è potuto succedere? Probabilmente è andata persa durante uno dei salvataggi del disco rigido.

    Porca puttana, vent’anni persi. Sarà l’inevitabile contrappasso, la sua maledizione che si è abbattuta su di me: ho voluto buttare via i vent’anni vissuti con lui e, per contro, ho perso anche la parte buona di me che di quei vent’anni conservavo gelosamente. Oppure un gesto involontario di matrice freudiana: la mia necessità di voltare pagina è stata tale da portarmi a cancellare, senza rendermene conto, i ricordi scritti di quel periodo.

    Mi butto sul divano aspettando che all’incredulità del primo momento seguano rabbia e disperazione, lacrime e poi un senso di vuoto, il buco nero dell’impotenza, dell’ineluttabilità, che risucchia tutte le energie e ti lascia lì a giacere, privo di scheletro, lobotomizzato, lo sguardo fisso al soffitto.

    E invece non succede.

    Non sono arrabbiata e neanche disperata. Anzi, a poco a poco mi sento quasi sollevata. Non ho idea del perché. Per quanto mediocri, quelle pagine contenevano una parte di me, i miei sforzi di comprensione, razionalizzazione, adattamento al mondo e ora sono andati perduti. Trovo che sentirmi bene sia irrispettoso e irriverente nei confronti della me stessa degli ultimi vent’anni.

    La sensazione di leggerezza però persiste, accompagnata forse da una lieve nostalgia, ma nient’altro. Mi accorgo che non avevo voglia di rileggere quelle pagine. Tempo perso. Ricordare sì, analizzare sì, ma con la testa di ora, con l’esperienza, la consapevolezza di ora. Ricordare filtrando, per capire quello che sono ora e, soprattutto, cosa voglio essere da ora in poi. E quindi, mi tiro su dal divano e mi metto a scrivere. E vediamo cosa succede.

    Infanzia solitaria della nonna di Lisa Simpson

    Non ho mai avuto le idee molto chiare su cosa volessi fare della mia vita.

    O meglio, da bambina le idee le avevo chiarissime. Poi, durante l’adolescenza, i contorni dell’immagine che avevo di me da grande sono sbiaditi e via via che crescevo ho, prima navigato a vista, poi a tentoni, in una nebbia sempre più fitta, che mi accompagna tutt’ora.

    A undici anni ho deciso che da grande avrei fatto l’architetto. Gli elementi che hanno determinato questa scelta sono stati tre.

    Avevo circa nove anni quando, andando in vacanza con in miei, passammo in macchina lungo l’autostrada da Firenze Nord verso Roma e notai per la prima volta la chiesa di San Giovanni Battista, di Michelucci. Rimasi fulminata. Non sapevo cosa fosse. Niente era più lontano dall’immagine stereotipata dell’edificio chiesa, che albergava nei miei neuroni infantili. Restai col naso appiccicato al finestrino, ipnotizzata da quella forma meravigliosamente insolita e inaspettata, accompagnata dagli interrogativi carichi di inquietudine dei miei, che già da tempo erano preoccupati per questa figlia intelligente sì, anche un po’ precoce, ma un po’ strana, che si appassionava a cose che per gli altri bambini nemmeno esistevano.

    Dopo poco tempo i miei decisero che era ora di farsi la casa. Allora abitavamo in un appartamento in affitto, terzo piano senza ascensore e i miei avevano il loro laboratorio artigiano in un paio di locali al piano terra dell’edificio di fronte, sempre in affitto. Pagare due affitti per stare scomodi non aveva senso e quindi comprarono un lotto di terreno poco fuori dal centro. Era l’inizio degli anni ’70 e in un piccolo comune della bassa padana, nel triangolo delle nebbie fra le province di Bologna, Ferrara e Ravenna, che contava sì e no 7/8 mila abitanti, il centro era costituito da uno slargo sulla strada principale, su cui affacciavano tre o quattro negozi di generi alimentari, latteria, macelleria, il forno, due bar, un paio di negozi di abbigliamento, il tutto sotto i caratteristici e inevitabili portici, poi l’edicola, la chiesa, l’ufficio postale e la banca. Il municipio era nella piazzetta subito dietro. Il raggio di questa city sarà stato non più di 300 metri, al di fuori dei quali erano disponibili lotti edificabili, dove col tempo sono sorti edifici che oggi sono centralissimi, ma che allora confinavano con i campi. I miei lavorarono al loro progetto col solo ausilio del buon senso, che non gli è mai mancato. Il lotto era rettangolare, come quasi sempre, perciò, distanza minima dai confini, altezza massima due piani, ne venne fuori uno scatolone, dentro il quale si adoperarono per distribuire gli spazi in relazione alle loro esigenze di lavoro e alla loro idea di casa moderna. Il risultato estetico fu pietoso, ma il laboratorio risultò perfettamente funzionale e così pure l’abitazione, che aveva un’impostazione in pianta anche piuttosto evoluta per l’epoca e per gli standard della bassa. Il progetto fu firmato da un geometra, che completò il disastro formale con qualche suggerimento infelice, ma non mise becco sulla distribuzione degli spazi interni. Io li guardavo, la sera dopo cena, mentre ragionavano di cosa mettere di qua e cosa di là, di come tre metri fossero pochi o tanti per farci stare questo o quest’altro, di come la porta messa lì, aprendosi andasse a sbattere contro il letto e via dicendo. Cercavo di capire, chiedevo, mi interessavo. Qualche volta mi spiegavano, qualche altra volta, presi dai loro ragionamenti, non facevano caso a me. Io però, dopo un po’, capivo anche da sola e quando il progetto fu pronto ero perfettamente consapevole di come sarebbe stata la nostra casa.

    I lavori durarono un anno e in quell’anno non ci fu un giorno in cui io non abbia fatto una capatina in cantiere. Allora le norme di sicurezza non si sapeva neanche cosa fossero. I ponteggi erano quattro pali e due assi di legno sui quali si saliva e si scendeva arrampicandosi come scimmie. Protezioni anticaduta, neanche a parlarne, gli elmetti se li mettevano solo i militari, gli scarponi antinfortunistici non erano ancora stati inventati, i muratori si facevano fuori un fiasco di vino al giorno, a testa, il wc era una buca scavata nel terreno, chiusa da quattro assi. E io ero lì, una bambina di dieci anni che saltava e correva in quell’accrocchio di trappole potenzialmente letali. Ero lì e chiedevo, rompevo le balle, volevo sapere il come e il perché di tutto. Dopo un po’ i muratori si abituarono ad avermi fra i piedi e si divertivano a insegnarmi quello che sapevano, a mostrarmi quello che facevano. Ho visto tutto di quella casa: ho visto scavare, predisporre le gabbie di armatura, costruire casseforme, gettare le fondamenta, i pilastri, le travi, i solai, ho visto tirare su i muri portanti e i tramezzi, ho visto scalpellare tracce, mettere giù impianti, gettare massetti, tirare gli intonaci, montare gli infissi, tutto.

    Ora il quadro era completo: la folgorazione sulla via di Firenze mi aveva introdotto al piacere della bellezza insito nella libertà delle forme; la logica ineluttabile dei miei mi aveva insegnato il valore della razionalità nell’organizzazione funzionale degli spazi; col cantiere avevo acquisito il know-how tecnico della realizzazione. Da grande avrei fatto l’architetto. Per i due anni successivi trascorsi gran parte del mio tempo in soffitta, da sola, a creare case in miniatura con avanzi di mattonelle, battiscopa, moquette e tappezzerie, consapevole della sempre crescente preoccupazione dei miei, che avrebbero preferito vedermi più spesso per strada a giocare all’aria aperta con gli altri bambini.

    Ma gli altri bambini non mi interessavano.

    Io ero diversa, avevo interessi diversi, mi piacevano cose diverse. Ecco un’altra cosa che avevo ben chiara da bambina: mi piaceva essere diversa e avrei coltivato con cura tutte le mie peculiarità. La Barbie mi annoiava e non provavo alcun divertimento a giocare con finte pentole e fornelli, né con i trucchi e le scarpe col tacco della mamma. Ero affascinata da figure di donne importanti, che avevano avuto la forza e la capacità di costruirsi autonomamente la propria vita al di fuori degli schemi: donne del mondo della cultura, scrittrici, giornaliste, artiste, attrici di teatro, scienziate, attiviste politiche, eroine rivoluzionarie. Manager no, perché ancora non ce n’erano (almeno di famose, di cui fossi a conoscenza) e non avevo idea che anche quello potesse essere un obiettivo interessante. Quando pensavo a me stessa da grande non mi vedevo a fare la parrucchiera, o la maestra, o l’infermiera, con un marito principe azzurro e due o tanti bambini. Io da grande avrei fatto l’architetto. Mi vedevo in un grande studio pieno di tecnigrafi, matite, pennini, plastici in balsa e attrezzi da lavoro, circondata di assistenti al mio servizio, mentre inventavo cose mai viste, all’avanguardia. Mi vedevo in grandi cantieri a dirigere e a controllare. Mi vedevo protagonista di eventi al cui centro sarebbero state le mie creazioni. Mi vedevo in giro per il mondo a esplorare per trovare ispirazione. Le mie vacanze le avrei passate nel deserto, in mezzo alla giungla, fra le rovine dei Maya o alla scoperta di qualche tempio abbandonato nel cuore della Cambogia, come la mia prof di educazione artistica delle medie, che infatti era un architetto e che ci mostrava le diapositive dei suoi viaggi e delle sue scoperte, con un’allegria e una passione che teneva a bocca aperta, sguardo incollato allo schermo, anche i più testoni della classe. Non mi sarei sposata e non avrei avuto bambini. La mia vita sarebbe stata troppo piena per farci stare dentro anche una famiglia. Avrei avuto molti amici e qualche amante precario (per quanto potessi saperne allora di cosa fosse un amante – io alle medie ero ancora parecchio indietro in queste cose). Per quanto poco ne sapessi del mestiere dell’architetto, percepivo, intuivo, che sarebbe stato il più consono alla mia natura. Nell’architettura vedevo il connubio fra creatività e razionalità, fra arte e tecnologia, fra cultura e produttività. E io volevo esplorare tutti questi universi, perché ero assolutamente convinta di avere una mente eclettica. Un piccolo Leonardo da Vinci in gonnella. L’archetipo inconsapevole di una ancora remota Lisa Simpson. Spaziavo dall’arte alla musica, dalla letteratura allo sport.

    Peccato che più che eclettica fossi inconcludente e che l’esplorazione di tanti mondi diversi si sarebbe rivelato, in seguito, un pietoso escamotage per non approfondirne nessuno, in nessun campo.

    Infatti, ginnastica durò un anno. Pattinaggio addirittura meno. Non mi piacevano i corsi collettivi. Non mi sentivo a mio agio con gli altri, adulti o bambini che fossero. Di sicuro mi trovavo meglio con gli adulti che coi bambini. Meglio comunque se stavo sola.

    Il corso di pittura era singolo: una discreta pittrice del paesello (era un paesino piccolo, ma non ci facevamo mancare nulla) si offrì, su richiesta di mia madre, di darmi lezioni, visto che sembravo piuttosto portata. Non mi ricordo quanto durò, ma di sicuro poco. Della produzione artistica del periodo, se mai ce n’è stata, non è rimasta traccia.

    Il corso di inglese era collettivo, ma lo frequentai comunque per tre o quattro anni, perché quello era importante e i miei non vollero sentire ragione. Potevo fare la faccina triste quanto volevo, ma quando era l’ora, un paio di volte a settimana, inforcavo la mia biciclettina e via andare. Arrivavo sempre in ritardo e col mal di stomaco.

    Il corso di pianoforte invece era singolo e lo frequentai con entusiasmo per tutto il periodo delle elementari. L’insegnante era una matura signorina che possedeva la dolcezza e la pazienza di una santa. Forse proprio per questo l’entusiasmo durò tanto: non mi veniva imposta alcuna disciplina e mi veniva lasciato fare più o meno quello che mi piaceva. Questo, probabilmente, perché avevo una particolare predisposizione, che la meravigliosa signorina Magli temeva di frustrare con l’imposizione di noiosi esercizi di tecnica e di solfeggio e che invece coltivava, lasciandomi provare tutto quello che ascoltavo dei dischi di mio padre, anche se non faceva parte del programma di studi. In genere la cosa iniziava con lei che mi diceva non credo che ce la farai, è una sonata da quinto anno. Comunque, se vuoi provare, prova: se non altro, avrai l’occasione di confrontarti con i tuoi limiti e di capire finalmente che senza gli esercizi di tecnica prima o poi ci si arena. Io ci provavo, mi intestardivo, prendevo a calci e a manate il mio povero, incolpevole pianoforte, ogni volta che le mie dita non mi obbedivano, ogni volta che non erano allineate con il mio cervello e poi, a poco a poco, ci riuscivo. Tecnicamente non ero perfetta, ma l’interpretazione era da piccola concertista. E suonavo a memoria! Cosa che faceva entusiasmare la meravigliosa signorina Magli, la quale non riusciva a nascondere l’orgoglio per ogni mio piccolo successo, che poi era anche un po’ suo, e che attraverso i suoi conoscenti ed ex allievi, allora già diplomati, faceva sì che mi invitassero qualche volta a esibirmi in occasione di qualche manifestazione o in qualche serata organizzata dal locale circolo culturale. Che ansia il palcoscenico! Era il minimo che potessi fare per gratificare e compensare la pazienza della meravigliosa signorina Magli e i sacrifici dei miei, che non navigavano nell’oro e che per comprarmi il pianoforte e pagarmi le lezioni avevano fatto qualche rinuncia. Ma per me era una vera tortura. Tremavo, lo stomaco rattrappito, le mani sudate e semicongelate. Il risultato non era nemmeno l’ombra di quello che sentivano, in privato, la mia insegnante, i miei genitori e i vicini di casa, quando mi esercitavo. Non sarei mai stata una concertista.

    Con l’arrivo dell’adolescenza persi interesse anche per il pianoforte, tanto più che, come aveva saggiamente predetto la meravigliosa signorina Magli, senza tecnica a un certo punto mi arenai. Fui obbligata per un po’ a continuare le lezioni, perché i miei cominciavano a capire che quella bambina piena di risorse non avrebbe concluso nulla nella vita senza un minimo di disciplina e di senso del dovere. Poi furono costretti ad arrendersi all’evidenza: il senso del dovere non mi sarebbe mai appartenuto.

    Il salto in alto fu solo una sfida e durò giusto il tempo di vincerla.

    Alla fine della prima media avevo ottenuto voti eccellenti in tutte le materie, tranne che in educazione fisica e in applicazioni tecniche.

    Non so come funzioni ora, ma allora c’era questa materia – applicazioni tecniche, appunto – dedicata ad attività pratiche e manuali, divisa fra maschi e femmine. L’obiettivo era riuscire a trasformare i ragazzini in ometti capaci di usare una fresa e un martello e le signorine in brave massaie, in grado di cucinare dolcetti e ricamare tovagliette. Tutto quanto potesse servire, insomma, per mandare avanti una modesta e onesta famigliola degli anni cinquanta, dal bricolage all’economia domestica. Eravamo alla fine degli anni settanta, ma i programmi di studio, si sa, avanzano e si adeguano con la velocità dei bradipi.

    Comunque, a me il ricamo non interessava per nulla – dubitavo che Frank Lloyd Wright sapesse ricamare e ne dubito tutt’ora – e non mi interessava neanche la ginnastica. Ma che due insegnanti, per altro non particolarmente brillanti, storcessero il naso definendomi poco portata per qualcosa, qualsiasi cosa fosse, mi diede parecchio fastidio. Leggevo più di chiunque altro in quella scuola (probabilmente insegnanti compresi), avevo l’abbonamento alla stagione di prosa del Duse e suonavo il pianoforte. Ero un’intellettuale, io, non si permettessero di menarmela con il punto croce o con il quadro svedese. E poi, quella volta che l’insegnante di applicazioni tecniche femminili era assente e facemmo lezione coi maschi, io fui la sola in tutta la classe, maschi compresi, a eseguire correttamente l’esercizio di proiezioni ortogonali. Ma quello, per le femmine, non era nel programma.

    Le obbligai a rimangiarsi il loro giudizio di sufficienza:

    ricamando un inutile completino tovaglietta-tovagliolo-tascapane in stile non-si-sa-mai-che-dovessero-ricoverarti-in-ospedale,

    vinsi per due anni consecutivi i giochi della gioventù (ma esistono ancora?) nel salto in alto, ossia nella disciplina di atletica che richiede, probabilmente, il miglior connubio di agilità, potenza, coordinamento e controllo.

    Arrivai alle selezioni provinciali, a Bologna e l’insegnante mi fece allenare tutto il giorno prima della gara, sul sintetico, quando al paesello piste e pedane erano in terra rossa. Il giorno della gara mi facevano male le gambe e non combinai un accidente. La ragazza che vinse saltò due centimetri meno di quello che io saltavo normalmente.

    Ergo: l’insegnante era un’incompetente. Non si permettesse più di stilare giudizi sulla mia predisposizione all’attività sportiva.

    Il tennis durò due o tre anni. Le lezioni durarono meno: il maestro allungava le mani, come qualunque maestro di qualunque sport, ma allora ero giovane, piena di sani princìpi e non ancora sufficientemente scafata. Per un po’ giocai con mio padre, ma non mi divertivo. Non per colpa sua, lui era meraviglioso. Ero io che mi arrabbiavo peggio che col pianoforte, ogni volta che non ero in vena, ogni volta che sbagliavo. Che carattere di merda. Ora mi dispiace di essermi comportata così e di non aver coltivato questa passione, perché era una buona occasione per passare del tempo con mio padre, per fare qualcosa insieme, per condividere qualcosa con lui divertendoci. Amen, ormai è andata. Lui mi ha perdonato, come mi ha perdonato sempre tutto. Poi, pigro com’è, non credo proprio che ne abbia fatto un dramma. Abbiamo sempre comunque condiviso le nostre letture e i relativi commenti: passione che è sempre stata per entrambi più stimolante del tennis, oltre che meno faticosa.

    D’estate nuotavo e quello mi piaceva molto, perché potevo farlo da sola, in completa e totale autonomia. A non più di cento metri da casa mia (ma come ho già detto, date le dimensioni di allora del paese, tutto il mondo era a non più di cento metri da casa mia) c’era una piscina olimpionica di tutto rispetto, costruita durante il ventennio, insieme alla palestra, al campo sportivo, alla casa comunale, alle scuole e al cinema, in virtù di un deputato nativo del luogo che, evidentemente, si era dato da fare per favorire la qualità della vita dei suoi compaesani.

    Per altro, quegli edifici non erano affatto male. Oltre a conferire un carattere e un aspetto unitario e omogeneo a uno dei tanti anonimi paesini della bassa, privi di un background storico architettonico di un qualche rilievo (nel caso specifico si tratta di zone depresse, le cui costruzioni più vecchie, salvo qualche villa isolata, risalgono a dopo la bonifica, fra fine ’800 e inizio ’900), alcuni erano proprio belli. Mi riferisco soprattutto al campo sportivo, con la sua tribuna coperta da una pensilina in aggetto di ottima fattura, alla palestra, con due ingressi simmetrici sulle parti laterali arrotondate e le finestrature in stile razionalista, e la piscina, per l’appunto, con la simmetria del fronte ingresso e spogliatoi sottolineata da due corpi scala cilindrici in cemento armato, preceduta da un grazioso giardino all’italiana. È un vero peccato che la presuntuosa ignoranza dei tecnici comunali degli ultimi trent’anni abbia fatto scempio di quel gioiello per costruire, al posto del giardino, una struttura prefabbricata squallidamente anonima. Mi domando dove sia e cosa faccia la Soprintendenza, quando serve.

    Comunque, quella splendida piscina apriva il giorno dopo la chiusura delle scuole e chiudeva il giorno prima del rientro in classe. Al pomeriggio si riempiva di ragazzini e nei fine settimana, unico punto di refrigerio di tutti i comuni della bassa (allora andare al mare era considerato un viaggio e non usava andarci tutte le domeniche), era un carnaio. Ma al mattino, quella splendida piscina di cinquanta metri per quattordici era praticamente tutta per me.

    Apriva alle dieci e fino alla mezza (chiudeva per la pausa pranzo e poi riapriva al pomeriggio; che tenerezza!) non c’era mai più di una ventina di persone, tutta gente che andava lì per stare tranquilla e in pace. Alle dieci e un minuto ero a mollo, qualunque fosse la temperatura, dentro e fuori dall’acqua. Una decina di vasche e poi risalivo e mi mettevo a leggere. Poi un’altra decina di vasche e via così fino all’ora di pranzo. Da autodidatta, naturalmente: dio mi scampi da un altro maestro mano-moscia e da una schiera di ragazzini starnazzanti. Ho imparato da sola e, devo dire, anche piuttosto bene. Giusto qualche suggerimento del bagnino per correggere i movimenti. Mi aveva preso in simpatia.

    Be’, forse non ero propriamente eclettica e certamente non avevo nulla a che vedere con Leonardo da Vinci e neanche con Lisa Simpson, però ero molto dinamica. Incredibilmente dinamica. Quand’è che mi sono seduta?

    Insomma, ero una bambina curiosa, sempre pronta a scoprire cose nuove, a fare nuove esperienze. Ma ero anche una bambina un po’ strana, solitaria e un po’ triste. Con le altre bambine non mi trovavo bene. I loro giochi non mi divertivano e non mi sentivo accettata. Semmai stavo meglio coi maschi. Erano meno competitivi, più allegri, più genuini. Erano più … ehm … semplici (sì, be’, non è che la semplicità debba per forza avere un’accezione negativa – comunque sia, di questa semplicità ho avuto molte conferme, da allora a oggi, da bambini maschi di ogni età). Le bambine erano stronze, dispettose e maliziose. I giochi dei maschi erano più fisici, vivaci e allegri. Coi maschi ci si rincorreva in bici per tutto il paese (avevo sempre le ginocchia sbucciate), oppure si andava a caccia di ranocchi nel canale dietro casa, oppure si faceva la guerra fra bande rivali con sassi e bastoni. Mi trovavo decisamente meglio a giocare coi maschi. A giocare e basta, però, perché poi non c’era verso di scambiare due parole che non fossero versi gutturali di primati, monosillabi o, all’apice delle velleità intellettuali, piani di attacco contro ipotetici nemici.

    Fino a quando, in terza elementare, arrivò Serena. Due grandi occhi verdi sotto una cascata di riccioli neri. Era la più graziosa delle bambine, ma non era né stronza, né maliziosa. Anche lei suonava il pianoforte, anche lei leggeva libri, anche lei si divertiva a giocare nel canneto dietro casa, a costruire archi e frecce. Anche lei non amava particolarmente le bambole. Era perfetta. Siamo state nella stessa classe e amiche per la pelle fino alla maturità. Pensavo che la nostra amicizia sarebbe stata indistruttibile, inossidabile, eterna. Purtroppo non è stato così, ma allora era davvero perfetta e il mio mondo diventò più divertente e colorato.

    Nel canneto dietro casa conoscemmo alcuni bambini, coi quali facemmo amicizia, crescemmo insieme, passammo dal fango del canneto al tavolo da ping pong sotto il portico, a casa di Emanuele, alle prime festicciole, alle prime uscite domenicali e poi serali, alle prime scorribande in macchina, quando finalmente qualcuno arrivò all’età della patente.

    Intermezzo

    Oggi non sono in vena.

    È uno di quei giorni che mi prende la malinconia e fino a sera non mi lascia più.

    Oggi mi fa fatica ripensare al passato remoto e ancor più mi costa fatica lo sforzo di razionalizzazione e sistematizzazione necessario per poterne scrivere. Il mio cervello è preso dal passato recente, di cui a volte – molto spesso, per la verità – ancora non riesco a capacitarmi.

    Il mouse parte da solo e va a cliccare su vecchie e-mail, che ci siamo scambiati a partire dalle ultime settimane in cui abbiamo vissuto insieme, da separati in casa.

    Da: alessandra.m@bemail.com

    Invio: 19 agosto 2008 11:36:19

    A: giovanni.p@ateneo.it

    Caro Giovanni, amore della mia vita, sono stufa di scuse, mie e tue;

    sono stufa di vivere controllando l’impulso del momento; sono stufa di stare costantemente sul chi vive, di avere il ter rore che squilli il cellulare in un orario inopportuno (secondo i tuoi parametri, è chiaro – salvo che i tuoi parametri valgono solo per me) magari anche solo perché qualcuno ha sbagliato numero, o semplicemente perché qualche amico, conoscente, cliente, collega, parente o altro si è improvvisamente ricordato del mio compleanno – e sarebbe senz’altro qualcuno con cui non ho molta confidenza, perché chi conosce un pochino la mia situazione sa bene che è assolutamente vietato chiamare o smessaggiare sul mio cellulare fuori dall’orario di ufficio;

    sono stufa di rendicontare ogni mio movimento, ogni mio spostamento, ogni momento della mia giornata;

    sono stufa di sforzarmi di limitare le mie trasferte di lavoro e di giustificarmi persino per i ritardi dei treni;

    sono stufa di rifiutare inviti a cena di amici perché tu potresti piantarmi un casino e farmi una scenata di gelosia .

    Mi hai umiliata quando non lavoravo, mi hai ostacolata in qualunque impresa io abbia tentato di compiere, arrivando a tradirmi spudoratamente solo perché finalmente avevo avuto l’occasione di un lavoro adeguato alle mie competenze.

    Se è lecito sognare, io sogno la libertà.

    E non parlo della libertà che hai trovato tu, quando mi dicevi di essere in ritito a scrivere il tuo libro, mentre invece eri in giro con la laureanda di turno .

    Quanto a quello che tu chiami il coraggio di rimanere, che la tua indole sia quella lo sappiamo dai tempi della tua infinitamente lunga e tormentata separazione da Beatrice, ma non mi sentirei di definirla coraggio.

    Dal buio uscirò a modo mio e stavolta non sarà attaccando mi alla bottiglia.

    Mi dispiace che tu soffra. Sei un uomo pieno di qualità meravigliose e ti voglio bene più che a chiunque al mondo. Ti devo molto e non rinnego niente.

    Ora però ho bisogno di respirare e tu mi levi l’ossigeno. E lo stai facendo in questi giorni più che mai. Più ti chiedo di lasciarmi in pace, più mi stai addosso. E questo la dice lunga sull’attenzione che hai per me. Certo, sei capace di farmi regali meravigliosi, ma non sei in grado di rispettarmi.

    Sto parlando – tanto per essere espliciti oltre ogni possibile fraintendimento – di tutte le volte che m i abbracci chiedendomi se ti amo, sapendo bene che ti dirò di sì, anche se in quel momento non è vero, anche solo per evitare ore e ore di pianti, implorazioni e melodrammi, perché sono esausta, sfinita, stremata dai tuoi melodrammi.

    Sto parlando del fatto che ogni mattina mi chiedi il programma della mia giornata e se e quando ci sentiremo per telefono.

    Sto parlando del fatto che ogni sera mi chiedi il resoconto della giornata minuto per minuto.

    Ed è inutile che tu mi faccia gli occhietti da cucciolo abbandonato, quando mi chiedi se andiamo a correre insieme, dopo che per anni hai fatto di tutto perché nemmeno io ci andassi, perché qualunque ora fosse, c’era sempre qualcosa di più importante che avremmo dovuto fare insieme esattamente in quel momento .

    E’ inutile che tu mi faccia gli occhietti da cucciolo abbandonato, quando mi chiedi che cosa voglio per cena, dopo che per anni mi hai imposto sempre e solo quello che volevi tu.

    E’ inutile che tu mi faccia gli occhietti da cucciolo abbandonato, quando mi fai il resoconto di tutte le attività casalinghe che hai svolto nella giornata, quando mi impedisci di riordinare, perché improvvisamente, dopo otto anni di convivenza, hai deciso che puoi farlo tu.

    È evidente che è assolutamente impossibile tentare di vivere separati in casa, come avevi proposto. Ma questo già lo sapevo. Lunedì andremo dalla dott.ssa Benni. Il mio obiettivo è chiederle di aiutarti a superare il mio allontanamento.

    Vorrei che fosse solo temporaneo, che servisse a me per ritrovarmi e a tutti e due per ritrovare la giusta prospettiva, per poi ritrovarci insieme, ma ogni

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