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Giovanni Gentile e l'umanesimo del lavoro
Giovanni Gentile e l'umanesimo del lavoro
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E-book459 pagine6 ore

Giovanni Gentile e l'umanesimo del lavoro

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Info su questo ebook

Scritta nell’estate del 1943, ma pubblicata postuma nel 1946, dopo il suo assassinio, Genesi e struttura della società è l’opera-testamento di Giovanni Gentile. Essa porta a compimento, con una linearità e continuità di esiti, il pensiero non soltanto filosofico del principale esponente del neoidealismo italiano. Un posto centrale, in questo compimento, occupa il tema del lavoro, in particolare del senso del lavoro manuale e intellettuale, letto nella relazione inevitabile con lo Spirito Assoluto. Il volume ordina studi e ricerche dei principali studiosi del tema, ne vuole indagare la natura, l’origine e gli effetti, chiarendo il legame inscindibile tra riflessione filosofica e prospettiva pedagogica. L’umanesimo del lavoro gentiliano è sottoposto ad analisi come categoria che ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dei “corpi intermedi” del secolo scorso e può continuare ad avere un valore metodologico e critico per ricomprendere l’inevitabile valore formativo dell’agire lavorativo anche e soprattutto oggi, quando, su questo fondamentale snodo antropologico, sociale e filosofico, sembrano prevalere altre logiche e, purtroppo, altre “leggerezze” di pensiero.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2019
ISBN9788838248474
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    Giovanni Gentile e l'umanesimo del lavoro - Fabio Togni

    Fabio Togni

    Giovanni Gentile e l'umanesimo del lavoro

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 9788838248474

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838248474

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    I. Il lavoro nel paese di Utopia

    RILETTURE

    II. L’attualismo e l’umanesimo del lavoro

    III. Umanesimo del lavoro? Non solo! (Su Gentile e oltre)

    IV. Attualismo filosofico e umanesimo del lavoro nella Carta della Scuola

    V. L’Esito dell’attualismo: l’Umanesimo del lavoro

    VI. Genesi e struttura della società: alcune riflessioni pedagogiche

    VII. Dall’uomo per il lavoro al lavoro per l’uomo

    VIII. L’uomo, l’agire lavorativo e il volere. Intorno e oltre i progetti di secolarizzazione dell’Umanesimo del lavoro

    IX. Umanità, pensiero, lavoro

    X. Politica e società nell’ultimo Gentile

    INTERSEZIONI

    XI. La prassi gramsciana come critica dell’astrattismo gentiliano

    XII. L’alternativa dimenticata: la pedagogia e la scuola del lavoro di Raffaele Resta

    XIII. Lavoro e giovani lavoratori alle civiche Scuole serali e festive di Milano fra fascismo e dopoguerra

    XIV. Il lavoro manuale educativo nella scuola italiana dell’Ottocento alla prova dell’officina gentiliana

    XV. Giuseppe Bottai, «il problema di un umanesimo moderno» e la Carta della Scuola (1939)

    XVI. La ‘rettorica’ del lavoro: Giovanni Gentile e Carlo Michelstaedter

    XVII. «Scuola Italiana Moderna» e l’umanesimo del lavoro negli anni del fascismo

    XVIII. Il corporativismo di Ugo Spirito e l’umanesimo del lavoro

    XIX. Rivoluzione o conservazione? Il dialogo Gentile-Spirito intorno alla proposta corporativa

    Indice dei nomi

    CULTURA

    Studium

    170.

    FABIO TOGNI (ED.)

    GIOVANNI GENTILE

    E L'UMANESIMO

    DEL LAVORO

    I. Il lavoro nel paese di Utopia

    Una raccolta di studi sull’umanesimo del lavoro

    C’era una volta l’umanesimo del lavoro . Potremmo introdurre in questo modo questa raccolta di studi.

    Sì: c’era una volta. Come una volta c’erano le dottrine sociali che si incentravano sull’esperienza lavorativa e soprattutto sui lavoratori. E c’erano a tal punto che, nonostante le anime differenti e le tradizioni talvolta contrapposte, stimolarono il dibattito pubblico a tal punto da citare nella Costituzione Italiana i termini lavoro e lavoratori per 26 volte, ricorrenze seconde solo al termine legge. Tali pensieri volevano ricordare come un popolo senza un lavoro non si potesse ‘costituire’. Così si coronavano le esperienze di organizzazione delle formazioni sociali dei lavoratori, che tanta parte avevano avuto sia nella tradizione cristiana – si pensi a tutta l’esperienza di aggregazione sindacale, alla nascita dei crediti cooperativi a servizio dei lavoratori ecc. – sia in quella laica – tra le molte si ricordi il corporativismo, di cui la presente raccolta di studi si occupa ampiamente –.

    Questo perché l’umanesimo del lavoro di Gentile, declinato da quasi tutti gli uomini di cultura e di politica, a tratti per continuità e a tratti per contrapposizione, a causa o grazie al proprio presunto elitarismo autoritario, rappresenta l’ultimo pensiero forte che ha contribuito a formare e costruire la storia dei corpi intermedi che tanta parte hanno avuto nella dialettica democratica del XX secolo . In molta letteratura sociale e politica, che interpreta la democrazia nella forma di una dialettica tra rappresentanza e partecipazione, quando ci si riferisce a questi ultimi convenzionalmente si intendono tre insiemi di persone: i partiti, i gruppi di pressione (tra cui i sindacati) e i movimenti sociali [1] .

    Queste realtà, come noto, entrarono all’interno di una fase di lento e inesorabile declino a seguito della prima crisi petrolifera. Una crisi che, nel caso di partiti e sindacati, interessò anzitutto la loro dimensione organizzativa, trasformando complessi apparati verticali, burocratici e fortemente integrativi, che fino ad allora avevano modellato la vita dell’iscritto «dalla culla alla tomba», in strutture leggere, scarsamente radicate sul territorio, sempre più leaderistiche e orientate alla comunicazione mediatica [2] .

    E proprio la mediaticizzazione ha contribuito progressivamente alla liquidazione – o annacquamento – della loro dimensione ideale. La conseguenza più ovvia è stata lo slittamento al centro dello spettro politico di forze in precedenza segnate da una nitida coloritura e la convergenza dei programmi e degli obiettivi politici. Tale processo di massificazione della rappresentanza, tipica della retorica di certo ‘moderatismo’ non poteva che dissolvere il valore identificante e identitario fornito fino ad allora dai corpi intermedi [3] .

    Ma questo giudizio tranchant [4] , che toglie alla prospettiva moderata una sua riconoscibile natura affidandolo al destino di pensiero politico deteriorato, rischia soprattutto di perdere di vista l’ultimo tratto di tale processo di trasformazione delle formazioni sociali che, di fatto, ha raggiunto l’approdo del populismo massmediatizzato [5] , in cui la proposta forte sottoposta al consenso ha ceduto – come ci pare oggi – il passo alla risposta debole determinata dal consenso. E con il pensiero politico, anche quest’ultimo si è rarefatto, virando il suo luogo di elezione dalle piazze reali alle piazze virtuali [6] .

    Ovvio e naturale che tale processo di rarefazione abbia coinvolto anche le politiche intorno al lavoro, privandole della loro visione olistica e organica, separandole dal processo più ampio della formazione e riducendole alla sola questione reddituale.

    Così il lavoro – o il ‘turbolavoro’, mutuando certa semantica di certa intelligencija filopopulista – e i lavoratori affollano i dibattiti, in una sorta di storytelling mediatico: il lavoro che c’è e il lavoro che non c’è; il troppo lavoro e/o la mancanza di lavoro. Sono più che presenti. Ma di essi si è persa la ‘realtà’. O meglio la verità. Il tutto condito da verosimiglianze e congetture, costruite ad uso e consumo delle cerchie mediatiche di riferimento.

    Quanto preconizzato anni fa da Vattimo, nella seconda edizione de La società trasparente, oggi pare aver raggiunto il suo apice, nella forma di un’inversione. Egli sottolineava il nascondimento definitivo e totale del reale, permesso dal mondo della comunicazione e dei mass media, ad opera dei poteri forti, delle loro narrazioni e dei loro pensieri, con il tacito tentativo di bloccare le promesse di rinnovamento della post-modernità. E in questo occultamento della realtà/verità (anche del lavoro, che ci offre un’immagine al contempo ipertrofica – mediaticamente – e ipotrofica – nella sua dimensione fattuale –), per ironia della sorte, ha agito proprio il populismo, che ha le parvenze del più debole dei pensieri, ma che si presenta come l’ultima versione dei pensieri forti.

    Una raccolta di contributi intorno al concetto di umanesimo del lavoro e alla storia dei suoi effetti, visto iconicamente come uno degli ultimi pensieri forti della proposta finemente politica intorno al lavoro ha, quindi, proprio ai giorni nostri, un significato profondo e allo stesso tempo terapeutico.

    Al di là di quelle che possono essere le personali affezioni e gli orientamenti ideali e di pensiero, infatti, i grandi pensieri forti, sopravvissuti almeno fino al ’68, riescono a manifestarsi ancora oggi nel loro valore metodologico e critico.

    Nel loro sfondo dichiaratamente popolare hanno un valore metodologico poiché, primariamente, hanno il coraggio di fare riferimento a un orizzonte antropologico, ponendo a loro fondamento un’idea regolativa di persona umana. In questo hanno avuto un afflato pedagogico indubitabile. La più ovvia conseguenza di questa opzione antropologica ha permesso di intendere il lavoro nel quadro complessivo della formazione.

    Certamente non vanno dimenticati i limiti che la proposta gentiliana ha avuto proprio in ragione di questa premessa [7] , ampiamente sottolineati negli studi di questo volume. Tuttavia, il suo valore può essere registrato dalla storia degli effetti del suo pensiero, che sono andati ben oltre la mera speculazione teorica e sono approdati a forme concrete di organizzazione sociale di cui il corporativismo rappresenta la premessa e l’evoluzione. Tanto più se si considera che quest’ultimo si poteva ben inquadrare nell’ambito delle formazioni sociali, centrali nel dettato costituzione e, oggi, tanto necessarie per popolare la transizione dal Welfare statale al Walfare civile [8] , processo evidentemente avversato da certo populismo statalista.

    Ma i grandi pensieri forti sul lavoro dello scorso secolo hanno anche un valore critico per il mainstream globalizzato e mediatizzato di oggi, mostrando la necessità di una visione non regionalizzata e fordistica della politica. Solo una visione totale, organica, vitale e integrata, infatti, mostra il suo potenziale di cambiamento. In questo i dispositivi di incentivo al lavoro non possono essere pensati al di fuori dai percorsi di formazione, contrastando la vetusta e immotivata separazione tra la mente e il corpo, tra l’intelletto e la pratica [9] . Per fare ciò, tuttavia, è necessario che la politica ritorni a frequentare le proprie responsabilità progettuali.

    Per questo riteniamo che questa raccolta, realizzata con questi intenti metodologici e critici e non con spirito revisionistico o archeologico, abbia il compito di aiutare a tracciare i contorni di un’Utopia, che incarni le vere intenzioni che si era dato Tommaso Moro nella narrazione del viaggio di Raffaele Itlodeo: non tanto inquadrare i contorni di Neverland, quanto piuttosto quelli di una terra del Bene.

    Senza una visione, infatti, il destino rarefatto – poiché mediatizzato – dei pensieri deboli continuerà a perseguire le sue debolezze con forza inusitata e, forse, incontenibile.

    Fabio Togni

    Università di Firenze


    [1] L. Morlino, M. Cotta, D. Della Porta , Scienza Politica, Il mulino, Bologna 2001.

    [2] S. Neumann, Modern Political Parties. Approches to Comparative Politics, University of Chicago Press, Chicago 1956.

    [3] Si veda l’interpretazione dal sapore durkheimiano di A. Pizzorno, Identità e interesse, in L. Sciolla (Ed.), Identità, Rosemberg, Torino 1983.

    [4] Si veda il testo ormai classico di Crounch dedicato alla Postdemocrazia in cui egli afferma:«Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e di esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». C. Crounch, Postdemocrazia, Laterza, Bari 2003, p. 6.

    [5] Prosegue Crounch: «Gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; quando le élite politiche hanno appreso a manipolare e guidare i bisogni della gente; quando gli elettori devono essere convinti ad andare a votare da campagne pubblicitarie gestite dall’alto». Ibi, p. 26.

    [6] A questo riguardo si veda C. Moroni, Le storie della politica. Perché lo storytelling politico può funzionare, FrancoAngeli, Milano 2017, in particolare pp. 35-54, 84-108.

    [7] Nel 1950 Lamberto Borghi affermava: «Gentile accentuò molto più fortemente di Croce il principio che l’esistenza personale dell’uomo è inclusa in qualcosa di più alto, lo spirito, l’atto puro, che non può essere in alcun modo diviso in parti e che costituisce, pertanto, l’essenza identica di tutti gli individui. In tal modo l’idealismo italiano, mentre si sforza di collocare la sorgente e la misura del valore nello stesso soggetto conoscente, capiva questo come qualcosa di necessario e universale e perciò fondamentalmente diverso dai particolari modi dell’esistenza individuale. Così si introduceva nel soggetto una trascndenza formale che, in contrasto coll’ispirazione immanentistica originaria, minacciava di far risorgere, in nome dell’oggettività costituita di quella superiorità soggettiva che gli individui attuano negando la loro soggettività naturale, un criterio di subordinazione e di gerarchia che dal puro terreno gnoseologico riversandosi su quello sociale, politico e pedagogico, avrebbe facilmente giustificato la restaurazione o il mantenimento di modi e di istituti di autorità». L. Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, La Nuova Italia, Firenze 1950, p. 173. La critica di Borghi ha un profilo tipicamente politico ed è preoccupata, come per altro in tutto il volume, di decostruire il centralismo statalistico a favore del concetto di comunità, inteso come concretizzazione del concetto di ‘formazione sociale’ costituzionale. A questo riguardo scrive Franco Cambi: «Borghi fa emergere un modello di uomo e di città in cui la libertà è connotato ontologico-deontologico e la comunità si fa regola della organizzazione sociale, rispetto alla quale lo Stato ha funzione secondaria. Ma in questa ricostruzione Borghi tiene fisso lo sguardo alla pedagogia e alla sua funzione oggi, dopo la fine delle ideologie. Che si fa sempre più centrale per costruire una nuova axiologia, una nuova polis e un nuovo anthropos, ispirandosi al socialismo libertario». F. Cambi, Sul pensiero pedagogico di Lamberto Borghi, in «Rivista di Storia dell’educazione», I, n.2, 2014, p. 98.

    [8] S. Zamagni, L’evoluzione dell’idea di welfare: verso il welfare civile, in «Quaderni di economia del lavoro», v. 103, 2015, pp. 337-360.

    [9] G. Bertagna, Lavoro e formazione dei giovani, La Scuola, Brescia 2011, pp. 90-114.

    RILETTURE

    II. L’attualismo e l’umanesimo del lavoro

    di Carmelo Vigna

    1 . L’umanesimo del lavoro (preceduto in qualche modo dalla teoria politico-economica dello Stato corporativo, su cui si esercitò non poco il maggiore allievo di Gentile, cioè Ugo Spirito [1] ) è stato un parto piuttosto tardivo della cultura politica italiana, sostanzialmente piccolo borghese; una storia che sognava, appunto, una leadership non solo europea, ma addirittura mondiale e fantasticava di un’era, quella fascista, che avrebbe segnato il tempo una volta per sempre: una sorta di follia collettiva, dilagata poi in Germania, dove Hitler coltivava gli stessi sogni e profetizzava, emulando il Duce, in termini di millenni. Una follia che il capitalismo occidentale avrebbe spazzato via con la Seconda Guerra Mondiale [2] .

    2. La riflessione gentiliana sul tema del lavoro fu soprattutto sospinta dalle responsabilità politiche che Gentile accettò come sostenitore del regime mussoliniano; ma anche, direi, dalla sua concezione del Risorgimento italiano come compito storico da onorare e completare. Ancora ai suoi tempi si diceva e si scriveva dell’Italia come della Patria immortale. Gentile aveva a lungo studiato la storia italiana attraverso la storia della cultura filosofica e letteraria e aveva coltivato con devozione e passione questa espressione, oggi decisamente enfatica. Né la cosa deve destar meraviglia. Negli anni in cui la sua personalità si formò, cioè tra fine Ottocento e inizi del Novecento, gli echi della lotta risorgimentale erano ancora vivi e il compito di fare gli italiani, una volta fatta l’Italia, appariva un dovere civile irrinunciabile per gli spiriti nobili. E Gentile era, a mio avviso, uno spirito nobile. Poi venne la grande guerra, che accese gli animi in altro modo. La vittoria, costata molto sangue e molte lacrime, come si sa, sembrava di nuovo additare agli italiani il bisogno di unità d’intenti. C’erano molte ferite da sanare e un paese dissanguato (in molti sensi) da rimettere in piedi. C’era in giro lo spettro della vittoria mutilata, su cui poi lucrò politicamente il movimento fascista, anche rivendicando per sé l’eredità risorgimentale. Molte pagine gentiliane concordano; saldano cioè anch’esse i due fenomeni storici e spiegano abbastanza facilmente perché un intelletto come quello di Gentile prese l’abbaglio storico che oggi ancora gli si rimprovera. E non a torto.

    3. Ma non fu solo la saldatura ideale di Risorgimento e di fascismo a infervorare Gentile. Contribuì molto, a mio avviso, anche la saldatura tra filosofia dell’azione, da Gentile a suo modo coltivata, e ideologia rivoluzionaria mussoliniana. Mussolini, lui pure, invocava una nuova epoca che desse splendore alla Patria immortale. Classico poi il richiamo celebrativo all’Impero di Roma. Benché oggi l’indicazione ci appaia un po’ patetica, bisogna tener conto del fatto che allora fece presa sul popolo e anche sugli intellettuali. O almeno, su una parte non piccola degli intellettuali italiani. Quest’aura di riscatto e questa idealizzazione della missione dell’Italia Gentile coltivava, da par suo, in salsa filosofica, addestrato da Donato Jaja e soprattutto sedotto da Bertrando Spaventa, il cui disegno di una storia della filosofia che dall’Italia era emigrata in Germania, e che doveva in Italia tornare, pareva una profezia prossima ad avverarsi. Gentile aveva, insomma, in sede filosofica, uno sguardo analogo a quello del Duce, che contava milioni di baionette, pronte a conquistare in Europa e nel mondo il perduto prestigio, appunto, della Patria immortale.

    4. A distanza di circa un secolo, possiamo mettere a fuoco con una certa approssimazione la distanza tra la formula gentiliana – sulle prime cattivante – e la realtà storica – molto più modesta –; ma possiamo anche mettere a fuoco con una certa approssimazione la distanza tra la formula gentiliana e la scarsa consistenza teorica del suo contenuto speculativo. Non che Gentile fosse un filosofo di scarsa consistenza. Ché, anzi, è stato il maggior filosofo italiano del Novecento. È che Gentile adoperò un apparato categoriale che inesorabilmente finiva per evacuare tutte le determinazioni che avrebbe, invece, voluto riscattare dalla banalità del senso comune. Detto in altri termini, l’elevazione speculativa dell’esperienza umana che Gentile riteneva di poter offrire con la sua autorità di pensatore, partoriva immancabilmente una dissoluzione delle determinatezze nella vuota genericità del movimento dialettico dell’atto puro. Per giustificare questo giudizio (un po’ drastico, ne convengo) si deve necessariamente esaminare la dialettica dell’atto come da Gentile strutturata. Solo capendo qual è il meccanismo dialettico che conduce Gentile a vanificare i fenomeni reali, mediante riconduzione loro a figure idealistiche, potremo in qualche modo capire anche il suo umanesimo del lavoro, che è prima di tutto una (tra le tante) di queste figure [3] .

    5. Metto subito le mani avanti, dicendo che il nucleo fondamentale dell’errore gentiliano nel concepire il dialettismo dell’atto altro non è che l’effetto della trascendentalizzazione (indebita) del toglimento di una certa alterità dell’essere al pensare [4] : quell’alterità che, durante tutto il Novecento, era, da tanti pensatori - passati per le pagine hegeliane di critica al kantismo -, bollata con l’etichetta di presupposto naturalistico o di naturalismo presupposto. Quel toglimento, che era, come ogni toglimento di un errore, un che di empirico (l’errore, una volta riconosciuto come tale, si mette da parte, e basta) era invece divenuto un compito quasi ossessivamente e continuamente perseguito. Gentile era l’erede, in Italia, di quella tradizione, che altrove aveva preso invece altre vie, pur con risultati simili. Alludo qui soprattutto alla fenomenologia husserliana, che poi tanto successo ebbe in ambito europeo, durante la seconda metà del Novecento.

    6. Ora, la corretta conseguenza del toglimento del presupposto naturalistico è, come tutti sanno oramai da gran tempo, la semplice restituzione dell’essere alla relazione sua originaria con il pensiero [5] . Dove, però, l’essere resta tale rispetto al pensiero, cioè resta il suo altro materiale o reale o il suo contenuto intenzionale. L’identità di essere e pensiero è, infatti, una identità solo formale (il pensiero si identifica con la forma dell’oggetto, ossia prende la forma dell’oggetto come forma propria), mentre resta la diversità ontologica o reale sua rispetto all’oggetto. Sempre all’interno del rapporto intenzionale. La fenomenologia meglio comprese questa conseguenza (v. soprattutto lo Husserl delle Ricerche logiche), ma non sempre (v. l’ultimo Husserl), mentre l’attualismo gentiliano finì per persuadersi della necessità che l’esito del toglimento del presupposto naturalistico dovesse essere determinato come la posizione dell’ identità assoluta (ontologica) di essere e pensiero, di soggetto e oggetto; la quale, non potendo restare da sola nello specchio dell’esperienza, perché veniva a precipitare in una situazione astratta, era necessariamente destinata a riprodurre la posizione dell’alterità dell’oggetto (del pensiero medesimo) come toglimento, appunto, della nuova astrazione.

    7. Ebbene, se è vero che l’essere, una volta posto come di là dal pensiero, vien trattato inevitabilmente come il suo assoluto opposto (è il non-pensato, infatti), non è vero però che il suo concreto relarsi al pensiero, cioè alla presenza o alla manifestazione che il pensiero è in sé e per sé, implichi inevitabilmente il suo diventare identico al pensiero. Sicché nell’atto sintetico della relazione dei due non altro vi sia che il pensare in atto. Consta, infatti, che ciò che è presente al pensiero non è pensiero, ma altro dal pensiero e nel contempo interno al suo orizzonte. Il pensiero, cioè, non è una sorta di Mida, che tramuta in oro(-pensiero) tutto ciò in cui si imbatte. Anzi, esso propriamente non induce nulla nelle o sulle cose in cui si imbatte o che vengono a esso o che da esso si congedano. Ed è proprio per questo che può diventare in qualche modo tutte le cose (Aristotele, De Anima, l. III). Il pensiero è il non di ogni determinatezza, e prende forma, si diceva, dalla determinatezza che volta a volta manifesta. Nella tradizione gnoseologica classica, alla sequela dei Greci (Aristotele), si usa dire che, nell’atto del conoscere (manifestare) qualcosa, conoscente e conosciuto sono formalmente uno; ma due materialmente. Questa relazione intenzionale (il conoscere) come unità formale e differenza materiale purtroppo restò sempre al Gentile (e forse a tutto o a gran parte dell’idealismo) un che di… sconosciuto. Gentile ebbe sempre in mente l’opposizione (astratta) di soggetto e oggetto, da togliere in una unità (concreta) come identità assoluta dei due (lo scrive quasi ad ogni pagina; inutile dunque citare). Che, però, in quanto tale, è inevitabilmente, a sua volta, un che di astratto, come si è ricordato, e deve tornare a opporsi a un oggetto, che essa stessa peraltro pone come a sé opposto? Essa stessa lo pone, perché quell’unità è in ogni senso intrascendibile [6] . Impensabile perciò qualcosa che sia in essa che non sia nel contempo intesa come da essa (prodotta) [7] .

    8. Non s’intende questa veduta speculativa del Gentile, se non si tiene presente il rimando già evocato, ossia che si tratta di una eredità hegeliana, per lui indiscutibile e, in effetti, indiscussa. Hegel aveva inventato, dopo duemila anni di epistemologia filosofica comunemente condivisa (nientemeno che dalle origini a Kant), una rivoluzionaria maniera (dialettica, appunto) di far progredire il sapere secondo un andamento necessario. Non più il sillogismo aristotelico e/o l’aristotelica riconduzione di un’affermazione al fondamento di ogni sapere (principio di evidenza in circolo con il principio di non contraddizione), ma il dialettismo dello Spirito che, da una determinazione astratta (primo momento), cioè isolata dal contesto dell’Intero (della verità), ricava, attraverso il precipitare (secondo momento) di questa nell’opposto da sé (l’astratto è il negativo del concreto, e dunque deve essere tolto), l’unità sintetica dell’astratto iniziale e del proprio opposto, che è poi l’Intero del senso (terzo momento). Si sa che Hegel pretese mostrare nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio la maniera determinata di questa necessaria progressione dello Spirito dal significato più semplice a quello più complesso (dall’elementare significato essere al complesso significato Geist come unità del soggettivo e dell’oggettivo, cioè come Spirito assoluto), ma Gentile azzerò questa impresa grandiosa (questo il senso della sua riforma della dialettica hegeliana) con un tratto di penna, cioè qualificando i risultati hegeliani come pensiero pensato; dunque come un che di trascendentalmente deposto dal pensiero pensante. Cioè come una qualsiasi figura della presupposizione naturalistica. La riforma gentiliana, come si sa, non mise però da parte il movimento dialettico. Mise solo da parte ciò cui nello Hegel il movimento dialettico si applicava, cioè il suo immenso contenuto. Era più o meno questa una operazione simile a quella che il Gentile giovane aveva già riservato a Marx. Salvare solo il nudo dialettismo come quintessenza della vita dello spirito significò però relegare qualsiasi contenuto a pensiero pensato, da deporre, appunto, uno volta posto come tale. Lo spirito in Gentile diventò semplicemente questo deporre. E il deporre - mobilità perenne dello spirito [8] - era dunque da ritenere come l’unica permanenza da salvaguardare nell’esercizio dell’attività speculativa, mentre il deposto variava infinitamente e, in certo senso, indifferentemente. Era il deposto e basta, opposto al deporre e dal deporre appunto deposto, quale che fosse il suo volto determinato: stella o gatto, pietra o anima, lavoro o arte ecc. ecc.

    9. Proviamo ora a generalizzare ancora un poco, guardando al dettato gentiliano. Ebbene, possiamo dire che, in tutte le sue analisi, Gentile presenta una certa determinatezza, ma solo quanto basta per indicarla semplicemente e rapidamente al lettore, senza tanto sostare, quindi, sul suo che cos’è. Non essendo pensare, ma contenuto del pensare, tale determinatezza viene subito e sempre qualificata speculativamente come un che di altro, ossia come un che di opposto o di astratto o di presupposto, rispetto allo spirito attuale, e perciò come un che da negare o togliere o deporre. Il risultato della deposizione è la riconduzione di quella determinatezza all’attività del deporre o del pensare. Al pensiero pensante o al pensiero come atto in atto. Tale determinatezza vale a guisa di astrazione pura, la quale, una volta negata, perché in realtà è lo stesso che nulla, lascia finalmente dominare la purezza dello Spirito (in atto). Identità pura, tuttavia, anch’esso. Quindi, a sua volta, astrazione pura, che si rovescia nel proprio opposto (l’oggetto); il quale è nuovamente da negare… E così all’infinito.

    10. Difficile non ammettere, a questo punto, che un tale meccanismo speculativo, fin troppo semplice nel suo movimento, e alla fin fine persino troppo stucchevole, da un lato dissolva il determinato, dall’altro lato guadagni un puro indeterminato. Nell’un caso e nell’altro, il risultato è inesorabilmente una sorta di luogo geometrico dei punti neri che molto somiglia alla celebre notte in cui tutte le vacche sono nere. Nella filosofia gentiliana questo vuoto ‘risultare’ purtroppo ottiene l’effetto di sterilizzare tutti i tentativi, pur generosi, di far luce sulle forme dell’umana esperienza. Le quali pure si affacciano in qualche modo, cioè anche solo per via dell’esser frettolosamente evocate, prima d’esser deposte; solo che, una volta riproposte come interne all’atto, diventano da questo indistinguibili. Pallide figure misticheggianti, dove ciascuno poi ci mette del suo in modo incontrollato. L’umanesimo del lavoro non sfugge purtroppo a questa deriva. Ma prima ancora dell’umanesimo del lavoro non sfugge a questa deriva la differenza, antica e veneranda, che pur corre tra teoria e prassi.

    11. Sulla identificazione gentiliana di teoria e prassi ha recentemente pubblicato un libro importante Paolo Bettineschi. Il titolo del libro è altamente significativo: Critica della prassi assoluta [9] . Ed è un titolo che indirizza in modo giusto, perché nell’identificazione tra teoria e prassi, così come Gentile la determina, a essere di fatto schiacciata - sulla prassi - è la teoria. E non viceversa. Il pensiero in atto è infatti azione/produzione, mentre il pensiero come manifestazione pura è da Gentile trattato sempre come un astratto e immediato intuire (quindi, un che da togliere). Ora, la riconduzione gentiliana della teoria alla prassi, dove la prassi è produzione pura del contenuto ( qualsiasi contenuto) del pensare, bisogna pur dirlo, è una mossa totalmente priva di fondamento fenomenologico. Non consta infatti alcuna relazione di causalità ontologica tra l’orizzonte del pensare e la realtà pensata. Semmai è di tutta evidenza il contrario, ossia che le determinazioni mondane si congedano dal nostro orizzonte manifestativo o vi accedono di fatto, indipendentemente dal nostro consenso. Noi, cioè, rispetto a ciò che intenzioniamo come esseri pensanti, sperimentiamo piuttosto una diffusa impotenza. Persino sulle membra del nostro corpo. Certo, sperimentiamo anche una certa potenza sul mondo, come quando rimuoviamo una pietra o alziamo un braccio. Ma la relazione tra la mano e la pietra o tra la nostra intenzione e il nostro braccio è da registrare fenomenologicamente come un semplice fatto. Non solo il nesso di causalità nell’evento non appare; nel corso dell’esperienza sovente appare anche ciò che tale nesso costringere a porre, appunto, come un semplice fatto. Non poter più muovere quella pietra che prima abbiamo mosso o non poter più alzare quel braccio che il giorno prima avevamo alzato, è tutt’altro che cosa rara. E sarebbe invece un che di impossibile, se il rapporto fosse stato di causalità ontologica. Il nesso di causalità è infatti un nesso necessario. Ed è per questo che differisce essenzialmente da un nesso fattuale. Hume ci ha pure insegnato qualcosa. Per Gentile, invece, il rapporto produttivo (creativo) tra soggetto e oggetto non è mai un semplice fatto; è un nesso secondo necessità. Niente oggetto senza soggetto e niente soggetto senza oggetto. Sempre l’oggetto è prodotto dal soggetto. Anzi la nozione di oggetto si identifica con quella di prodotto, come la nozione di soggetto si identifica con quella di produrre. Detto in altri termini, pure essi gentiliani, il nesso tra produttore e prodotto, tra soggetto e oggetto, tra pensante e pensato, è un nesso trascendentale, non un nesso empirico. E allora, se pensare è lo stesso che produrre e lavorare è lo stesso che produrre, pensare è lavorare diventano lo stesso. L’umanesimo del lavoro è nient’altro che l’umanesimo dell’atto del pensare come atto creativo.

    12. Andiamo al testo gentiliano per una conferma. Quello più noto e più completo, come si sa, compare nell’ultimo (bel) libro di Gentile, che è anche una sorta di suo testamento spirituale: Genesi e struttura della società. Il par. 7 del cap. XI è proprio intitolato: Umanesimo del lavoro. L’attacco della riflessione è palesemente anticrociano, ma anche autocritico quanto al primo Gentile, cioè al Gentile sodale di Croce. Scrive infatti Gentile che all’umanesimo della cultura, che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro. Prima c’era stata una cultura soprattutto artistica e letteraria (appunto: gli interessi crociani, agli occhi di Gentile, ma anche i suoi propri interessi giovanili). Ora avanza il lavoratore, perché è stata creata la grande industria. E dopo la notazione, piuttosto ovvia, che l’uomo quando lavora lo fa incontrando (e piegando) la natura, viene il vero concetto gentiliano del lavoro, che brucia subito la notazione fenomenologica precedente: L’uomo lavora dispiegando […] quella stessa attività del pensiero, onde anche nell’arte, nella letteratura, nell’erudizione, nella filosofia, l’uomo via via pensando, pone e risolve i problemi in cui si viene annodando e snodando la sua esistenza in atto. Lavora il contadino, lavora l’artigiano, e il maestro d’arte, lavora l’artista, il letterato e il filosofo. Insomma, tutto ciò che l’uomo fa è lavoro, perché l’uomo quel che fa, lo fa da uomo che pensa. Così pensare e lavorare sono lo stesso. Ma, verrebbe subito da dire, se tutto è lavoro, allora niente è lavoro. Ossia il lavoro non ha alcuna notazione specifica che lo distingua da qualsiasi altra umana attività. La determinazione lavoro si dissolve…

    13. Certo, l’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora – scrive ancora Gentile – e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Ma allora c’è, quanto meno, una differenza tra i vari lavori. E come si determina poi questa differenza, se lo specifico del lavoro sta solo dalla parte del pensiero che pensa (il quale, secondo Gentile, è identico in ogni forma di lavoro)? Spostare la qualità del lavoro nella (vuota) coscienza del lavoratore espone a questi infortuni teorici, dove alla fin fine tutto viene benedetto così com’è, e lì dov’è. Giacché tutto è umano. E si potrebbe pure maliziosamente aggiungere. Forse che non è un che di pensato anche rubare e anche ammazzare e anche mentire. Anche lì c’è un pensiero che pensa. Anche lì l’uomo, allora, nobilmente lavora? Si dirà che così si sfiora il ridicolo e che non è questo che Gentile intende. È assolutamente vero; ma è altrettanto vero che questo segue (involontariamente) dalla tesi che identifica pensare e lavorare e pensare ed essere umano. Appunto, ciò che si ricava da questa generica indicazione è, di nuovo, solo una sorta di notte in cui tutte le vacche sono nere.

    14. Di là dalla facile critica filosofica a questo dettato gentiliano, bisognerebbe forse volgersi al senso politico della formula che a Gentile è venuta in mente nella sera della sua vita. Per non essere ingiusti. Ora, la formula intendeva con ogni probabilità accogliere l’avanzata della classe operaia, divenuta fin troppo evidente a metà del Novecento italiano, e orientarla a favore dello stato corporativo, cioè poi dello stato fascista. Gentile si rendeva ben conto che lo stato fascista repubblichino ( Genesi e struttura è del ’43) che poi era in realtà al tramonto, se fosse sopravvissuto, non avrebbe certo potuto più contare sul vecchio partito (fatto soprattutto di ceto medio), sconfitto dalla guerra sciagurata, e neppure sugli intellettuali. Avrebbe dovuto essere uno stato di popolo, e il popolo italiano allora era diventato, anzitutto e per lo più, un popolo di lavoratori.

    15. C’è però, a mio avviso, anche un senso non politico, ma filosofico, forse, del gentiliano umanesimo del lavoro. Ed è un senso certamente più vicino alle vedute del filosofo. Questo senso allude alla dominanza della figura della prassi, di cui abbiamo già discorso. L’umanesimo del lavoro, per questa parte, è lo stesso che l’uomo come prassi. Vecchi ricordi e vecchie suggestioni di stampo marxiano, che ora tornano utili, però sempre a patto di intendere il lavoro non come lavoro materiale, ma come lavoro dello spirito. Così si onorano i lavoratori del braccio, perché anche loro, in quanto esseri che pensano, lavorano secondo lo spirito, e si onorano i lavoratori della mente e tutte le altre corporazioni - nell’organismo compatto dello stato etico -, perché formate, naturalmente, da esseri pensanti. Vien quasi da pensare che Gentile legga come una spiritualizzazione del lavoro anche il taylorismo (e il connesso fordismo), scambiando la razionalizzazione capitalistica delle funzioni lavorative con la loro spiritualizzazione. Ma la mia è solo una semplice congettura.

    16. Come che sia, fare del lavoro l’essenza dell’umano è un errore di cui ci veniamo accorgendo un po’ meglio ai nostri tempi, nonostante il paradossale trionfo del produttivismo neocapitalistico. Produttivismo che è poi il nome reale dell’umanesimo gentiliano del lavoro, una volta liberato dalla

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