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Silvestra folia
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E-book103 pagine1 ora

Silvestra folia

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Info su questo ebook

Fabio Dri esordisce con una silloge di racconti potente e raffinata. Concepita come una sorta di composizione musicale, in cui due ostinati dal ritmo serrato ribadiscono i concetti e il file rouge che sottende all’intera raccolta.
Il mondo progredisce, la tecnologia avviluppa ogni aspetto della vita dell’uomo il quale tende ad allontanarsi da ogni entità divina per ripiegare sulla scienza come unica depositaria di verità assoluta, diviene schiavo della Rete, una realtà in cui si può essere finalmente ciò che gli altri vogliono, mantenendosi in contatto con tutti, senza nulla dover spartire con loro né essere costretti a conoscerli davvero: un mondo in cui ogni accenno all’unicità è bandito. In città le persone restano incastrate nella materialità dei palazzi di vetro, ignare di cosa sia una vita. Indaffarate e ipnotizzate dalle vetrine tutte uguali, dai corpi seminudi delle donne, dalle belle auto e dai cellulari ultimo modello. Dimentiche della fatica del lavoro a mani nude nel fango, dell’odore delle stagioni, della stessa voglia di giocare di quando eravamo bambini, delle relazioni autentiche. Dimentiche dell’amore, dell’amicizia. Nei suoi racconti Fabio Dri mette in risalto la ribellione di una natura schiavizzata nei confronti della tecnica e dell’uomo. Il punto di partenza rimane la purezza della vita rurale, contrapposta alla scelleratezza della vita cittadina ingannatrice, fondata sui suoi falsi idoli materiali. La ricerca di Dio e dell’amore per una donna o per un amico sono ciò a cui aspirano tutti i personaggi dei racconti e ciò a cui aspira, del resto, ognuno di noi.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2017
ISBN9788832920116
Silvestra folia

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    Anteprima del libro

    Silvestra folia - Fabio Dri

    (conclusione)

    Introduzione

    Quando l’avrai letto l’avrai scritto con me, petali selvatici, pensieri riuniti in un veloce libretto; e avremo cercato l’amore puro che andiamo dimenticando, riproducendo la stessa cultura a cui ci assoggettiamo per non sembrare pazzi. Ciò che avremo sognato non è che ciò che resta all’uomo: la fantasia folle e creatrice a cui deve tenersi aggrappato se non vuole rimanere prigioniero della plastica con cui tenta di soffocarsi. Se soltanto il profumo di dio avremo respirato per un momento, allora potremo dirci più che soddisfatti, poiché della verità che soffia nella natura e nel tempo breve avremo potuto assaporare la dolcezza. Essa avremo scorto appena, scavando nelle viscere maleodoranti del profeta che l’ha contemplata e che si avvelena per non saper sopportare gli idoli fasulli della civiltà putrida che lo circonda. Nell’amore più tenero l’avrà coltivata, nei cuori innocenti di una donna o di un amico che non si saranno contaminati per cercarla, fra gli scarti della città e le poche piante selvagge che ancora quella non avrà ammazzato.

    Ci piangano i figli dell’asfalto, ché del loro teatro nulla più ci importa, né per recitarvi né per bruciarlo. Si siedano ancora tra le mura affollate eppure vuote delle università e degli uffici e delle fabbriche: noi, se lo vorrai, saremo già fuggiti, affannati nel respiro dalle corse infinite delle vallate erbose che conducono all’oceano azzurro del cielo.

    Fabio Dri

    Ode

    Cantami, o musa, il vero che celano i grattacieli, impedendoci di contemplare le stelle.

    Cantami se ancora respiri, imprigionata sotto il cemento spesso, le virtù che in questo mondo non vedo.

    Ascoltami, se mi è concesso di parlarti prostrato in ginocchio, se mi è concesso di trovarti sui campi superstiti di fiori ribelli in cui balli una danza diversa, sfogando la fragile gioia che ti è rimasta.

    Cantami i tuoi versi perfetti sul musicare del vento, sì che io rudemente li possa trascrivere su queste pagine bianche, dimenticate dal tempo.

    Gentiana Alba

    Le nuvole di Pineleaf quella mattina sputavano con vigore sul mondo e sul suo peccato. Tuonavano le loro maledizioni contro i tralicci arrugginiti che infilzavano il suolo, sorreggendo i cavi che l’uomo aveva fabbricato per la voglia matta di diventare una marionetta.

    Il vecchio rifugio Chamois faceva di tutto per tenere al riparo il suo inquilino, piantato a fatica sulla neve disfatta, sotto il monte Whitehead, mentre il vento gli bestemmiava addosso e la pioggia colpiva fragorosamente il suo legno marcito.

    A vedere quella dimora rachitica lottare così strenuamente nella luce grigia dell’ennesimo inverno passato, pareva che tenesse in gran considerazione la vita che custodiva, come se Ezekiel Atherton l’avesse trattata al pari di una signora; eppure il suo pensiero traboccante di angosce non si era mai rivolto alla cura di quella lurida tana, lasciata al tempo mentre si annegava con il whiskey che Cadence Gould gli portava dalla città ogni santo lunedì mattina.

    Stava seduto in salotto su una poltrona bianca scucita, ingiallita dal fumo delle sigarette, Ezekiel, e sotto il naso paonazzo stringeva l’unico bicchiere che si era salvato dall’imbalsamazione della polvere, ricolmo di alcol. Le pareti lignee lo circondavano scricchiolando malate e l’odore stantio della muffa che le divorava galleggiava nell’aria circostante. Sulla parete accanto alla poltrona, un minuscolo cucinino grondava ruggine sul parquet scollato che lasciava intravedere il buio seminterrato sottostante, in cui le mosche svolazzavano senza tregua attorno ai cadaveri di alcune lepri legate al sottoscala verniciato alla buona.

    Ezekiel aveva passato la notte a pulire il suo fucile da caccia, l’aveva appoggiato sul tavolino di fronte alla poltrona e stava seduto, chinato in avanti a osservare le fibre del calcio di noce mentre con una mano ne seguiva le linee scure e con l’altra si portava il whiskey alle labbra. Ne beveva ancora, senza cura di assaporarlo, finché non sbatté la testa sul tavolino in un tonfo sordo e si addormentò distendendo i suoi baffi in una smorfia ubriaca. Accanto al fucile, una penna stilografica aveva trascinato dell’inchiostro sull’agenda sgualcita che usava per nascondere i pochi pensieri lucidi alla smemoratezza a cui il vizio l’aveva condotto da tempo.

    Cadence lo trovò ancora lì quando arrivò quel lunedì mattina, e appena notò la nudità di quelle righe chiuse l’agenda guardando il soffitto per non rischiare di farsi dell’altro male. Era ancora bella Cadence, pareva che il tempo si fosse dimenticato del suo corpo sinuoso, celato nei lunghi cappotti felpati che indossava. Portava i capelli biondi raccolti in una treccia, le gote lisce e la punta del naso piccolo le arrossavano il biancore di un viso privo di malizia. Viveva sola in città, in un piccolo appartamento nella periferia, tra i drogati e i barboni che riempivano il quartiere e il viavai di clienti che le portavano una rosa o dei cioccolatini, e poi se la sbattevano sul letto per pochi dollari. I suoi occhi brillavano ancora in cerca d’amore mentre guardava Ezekiel, che non poteva darle ciò per cui pregava dio così intensamente, ogni tarda notte, prima di coricarsi. Pareva che lo sapesse fin troppo bene ma che non riuscisse a stargli alla larga, del resto, per quanto freddo e sporco fosse il rifugio Chamois non le era mai capitato di trovarsi così bene in nessun altro luogo. La compagnia di Ezekiel del lunedì mattina le bastava per illudersi di vivere una vita diversa da quella che trascorreva sognando l’oceano e guardando l’orologio sopra allo schienale del suo letto, in città, mentre da dietro qualche sconosciuto la possedeva per un’altra ora.

    La pioggia caparbia aveva smesso di scendere sulla valle e il fuoristrada ammaccato di Cadence si scrollava di dosso le ultime gocce d’acqua, la neve sciogliendosi portava via con sé il nero ferodo dei cerchioni sporchi di quelle sue fughe verso la valle.

    La puttana aveva preparato una minestra calda per Ezekiel e aveva sistemato alla buona il disordine di quell’uomo finito, aveva acceso il fuoco nel caminetto del salotto affinché egli potesse scaldarsi i piedi gelidi dopo che si era svegliato. Non proferì parola il solitario, non un suono si udì nel fetore di quel rifugio lontano dal mondo, eppure pareva che il suo sguardo bastasse per esprimere la compassione che provava per quella prostituta, e la sua riconoscenza pentita per ciò che faceva per lui, sapendo che non l’avrebbe mai amata. Cadence sentiva nel cuore che Ezekiel viveva una vita diversa, una vita spezzata, eppure in quella baracca dimenticata da tutti pareva aleggiasse, occultato dall’odore pungente di marcio, il profumo di dio.

    Stettero accoccolati sulla poltrona per un paio d’ore. I raggi del sole irrompevano in quel silenzio dalla finestra di vetro opaco, vicino alla vecchia porta di castagno dell’ingresso, filtrati dal pulviscolo leggero che si librava in quel rarefatto ossigeno. Ezekiel arrotolò una sigaretta e la accese con un accendino placcato in oro, recante le incisioni E.A . e G.W., e poi Vento tra i rami di quercia. Si decise a parlare. Raccontò a Cadence una storia che la donna aveva già udito, quella di Abel Randall e del tabacco rubato che fumavano nascosti dietro alla collina del vecchio Helm, parlando dei fiumi di quel luogo innocente che era la loro infanzia, e delle gonnelle delle ragazzine del paese. Le raccontò le risate e i verdi prati di genziane bianche, il sentimento autentico che provava per quel suo vecchio amico.

    "Per tre anni eterni, di una tristezza umida di pianto, tornai su quella collina e mi ci distesi a fumare il tabacco di Helm, che i soldati erano già tornati in paese e io raggiungevo soltanto allora l’età per l’arruolamento. Pensavo che se Abel fosse tornato sarebbe venuto lì a trascorrere con me il pomeriggio e mi avrebbe raccontato la guerra fra le candide genziane, ma Abel Il Secco Randall non tornò, non più, ché i lupi se

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