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Favole per (quasi) adulti dal mondo animale
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Favole per (quasi) adulti dal mondo animale
E-book163 pagine2 ore

Favole per (quasi) adulti dal mondo animale

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Info su questo ebook

Possibile che le favole smarriscano la Morale? Il lettore non ne sia turbato: i protagonisti di queste storie fanno di testa loro, prestandosi oppure meno ai teatrini relazionali inscenati per dispensare pillole di saggezza a uso e consumo dell'umana specie. Due tacchini discutono dell'uso che Bertrand Russell e Gioacchino Rossini hanno fatto della loro stirpe pennuta; un'orsa con gli occhiali cerca di ritrovare l'aggressività sul lettino dell'analista; cane e gatto litigano su letteratura, mass media e dintorni; un salmone prova a istruire un castoro sulle diverse percezioni del tempo. Mentre ragno e fossa, ape regina e insetto stecco, scimmia urlatrice e cercopiteco grigioverde, tasso e uccello di raso, si confrontano sui temi della sessualità. Sono solo alcuni dei personaggi di questa raccolta, dove si viaggia anche con la balena squalo e il colibrì Elena... Verso quale lido? Perché? E con chi? La parola, oppure il silenzio, a tutti i (quasi) adulti... Lettori e protagonisti, animali e no.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2017
ISBN9788893370967
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    Anteprima del libro

    Favole per (quasi) adulti dal mondo animale - Elena Paparelli

    rana

    I. Il tacchino di Russell e il tacchino di Rossini

    In un rilassato e forbito gloglottìo, il tacchino B si rivolse al tacchino G: «Sei contento che Bertrand Russell abbia scelto noi come metafora per confutare la rivendicazione di legittimità dell’inferenza induttiva per enumerazione?»

    Erano appena le nove del mattino: era una domanda da farsi, a quell’ora? Le prime cose che gli erano venute in mente, mentre si pettinava accuratamente il ciuffo di setole dure che ornavano il suo petto, erano le ciotole di cereali, frutta e verdura condite da un manipolo di insetti che l’Uomo gli avrebbe servito di lì a qualche ora.

    Ma forse non era un caso che quella domanda fosse scoccata proprio in quell’istante, alle ore nove del mattino. Per non ferire il tacchino B, che amava la conversazione più delle noci e le arguzie più delle bacche, cercò di gratificarlo, almeno per quello che poteva. «Me la ricordi a parole tue, questa strana metafora di cui parli?» lo invitò fingendo quasi una supplica.

    Il tacchino B, mostrando al sole mattutino la cute nuda del collo costellata di verruche, si lanciò in un lungo glu glu, tentando di dare più smalto che poté all’intuizione dell’esimio filosofo, logico, matematico, saggista e, a quanto sembrava di capire, anche animalista Bertrand Russell, che aveva iscritto a pieno titolo la razza dei tacchini negli Annali della Filosofia Maiuscola.

    «La metafora è questa» disse sfoderando i riflessi verde metallico del piumaggio. «Siamo dalle parti di un allevamento statunitense, ci sei?» iniziò recitando così, con la piccola testa incassata nella possente corporatura, tanto per creare un po’ di suspence. «Ebbene: protagonista un nostro fratello d’allevamento che viene ingozzato sempre alla stessa ora. Le nove del mattino in punto. Non c’è giorno, stagione, occasione o mese, che non venga sempre nutrito alle nove di mattina. Pertanto, dopo innumerevoli volte che si verificò, puntualmente, questo fatto, il poveretto fu certo di poter affermare che veniva nutrito alle nove del mattino. Ma, vedi un po’ che ti dico» gloglottò sornione «proprio quando l’intelligentone formulò questa induzione, fu la vigilia di Natale e alle nove del mattino, puntuale, zac!, sgozzato per finire in tavola, il poveraccio, come lauto banchetto per festeggiare la santa ricorrenza!» e, mimando con le piume il taglio della gola, roteò sulle zampe munite di speroni, cadendo a terra e fingendosi moribondo.

    Il tacchino G, applaudendo per la teatrale interpretazione, si ricompose per rispondere con un ragionamento all’altezza del quesito del compagno. «Mah, ti dirò. Onorato che il Filosofo ci abbia degnato di tanta attenzione» gloglottò a sua volta «ma di fatto in questa storia del tacchino induttivista noi tutti finiamo un po’ per farci la figura degli sprovveduti, non ti sembra?» concluse meditabondo.

    Poi, grattandosi le tante escrezioni carnose che gli ingombravano la testa, rosse per lo sforzo del pensiero, se ne uscì con una riflessione degna dell’alta quota: «In ogni caso lo ritengo un racconto molto triste e fatalista. La nostra vita è in tutto e per tutto regolata da quella dell’Uomo, e questo si sa. Siamo una sua appendice, e anche questo lo abbiamo appurato. L’Uomo: questo essere straordinario che è stato capace, a differenza nostra, di pensare per simboli e metafore. Ma ora che attraverso i secoli siamo stati ridotti a niente altro che sue caricature, dove siamo andati a finire? Ecco, questa metafora del Filosofo ce lo dice bene: in un vicolo cieco, dove noi tacchini ci affanniamo di prevedere per noi un futuro che ci è invece totalmente sfuggito di mano!» esclamò, formando un sontuoso ventaglio con le penne della coda, tanto per enfatizzare la scandalosa verità. Poi, come per bilanciare la sua melodrammatica uscita, abbassò di mezzo tono il suo glu glu: «Sai invece chi ci ha voluto veramente bene, a noi tacchini?»

    Il tacchino B, frastornato dalla loquacità del compagno, che nel suo quotidiano volo un po’ penoso aveva sempre visto tutt’al più come volatile alquanto sempliciotto, chiese Chi? con il tono dell’infante a cui qualcuno sta spiegando il funzionamento del mondo.

    «Benjamin Franklin» disse secco il tacchino G. «Solo uno scienziato della sua sensibilità poteva perorare la causa del tacchino come simbolo degli Stati Uniti d’America. Altro che aquila aggressiva e fiera! Ti rendi conto? Noi tacchini abbiamo sfiorato la possibilità di essere il simbolo del Paese della Libertà e della Democrazia!» urlò fingendo di innalzare con la zampa destra la fiaccola a stelle e strisce. «E invece stiamo ancora qui a discutere se dobbiamo essere contenti di essere protagonisti di una storiella che ci vede vittime sacrificali del giorno di Natale, con tanto di pancia imbottita di pane, castagne e mirtilli rossi!» disse rosso in viso per lo sforzo che gli costava l’eloquio.

    Nel frattempo la mano dell’Uomo calò dall’alto a spargere sul cortile il mangime. Quasi in maniera istantanea il tacchino B e il tacchino G si buttarono a capofitto su tutte quelle bacche, avidi di soddisfare lo stomaco, divenuto della grandezza di un fagiolo dal troppo ragionare.

    Quando furono sazi, il tacchino G proseguì a disquisire su animali, simboli e Uomo, perché – di questo ne era convinto - la sua rispettabile specie meritava qualche attenzione in più di quella che gli era stata consegnata dall’Esimio Filosofo della morale Bertrand Russell. E questo andava ribadito.

    «Ok, non dobbiamo montarci la testa per essere stati sponsorizzati da uno dei padri fondatori degli Stati Uniti» affermò saggiamente il tacchino G. «In fondo, mi chiedo e ti chiedo, se fossimo davvero diventati simbolo della bandiera americana, il nostro potere sarebbe aumentato o sarebbe vertiginosamente diminuito? Non saremmo stati forse noi, tacchini imbottiti di così tanti significati, per paradosso, definitivamente marginalizzati nella nostra più intima essenza?» domandò sinceramente perplesso.

    La domanda non era peregrina, ma appariva come il tentativo di trovare una qualche consolazione al fatto che la scena - inutile girarci attorno - era ormai, tutta e per sempre, per la rapace aquila.

    Il tacchino B, per non essere da meno del tacchino G, a questo punto disse la sua, sfoderando per tutta risposta il proprio beniamino nel cassetto: «Per me, un Uomo che ci ha voluto veramente bene invece sai chi è? Gioacchino Rossini!» e sputò questo nome in un glu glu modulato in un crescendo che pareva davvero rossiniano.

    «Scherzi?» lo bloccò subito il tacchino G, quasi preda dell’orrore. «Ma stai parlando di quel signorotto che si definiva pianista di terza classe, e primo gastronomo dell’universo?» e, forse fomentato dalla paura, visualizzò mentalmente la tavola imbandita del compositore pesarese mentre con le mani grassottelle sorvegliava la cottura della carne, immerso fra i vapori.

    Intuendo subito il pensiero del compagno, il tacchino B chiarì come la pensava: «Vedila sotto un’altra prospettiva. Il Maestro ci amava di un amore viscerale, svincolato da cerimonie, riti o appartenenze di sorta. E ci metteva al suo livello, tanto che ripeteva sempre che per mangiare il tacchino si doveva essere assolutamente in due: lui e noi. Diceva che mangiare, per lui, era come musicare. Tanto da ripetere che lo stomaco è il maestro di cappella che governa e aziona la grande orchestra delle passioni. E diceva altresì che lo stomaco vuoto rappresenta il fagotto o il piccolo flauto in cui brontola il malcontento o guaisce l’invidia. Al contrario, lo stomaco pieno rappresentava il triangolo del piacere oppure i cembali della gioia. E sai che cosa significava per lui il magiare? Bene, ti sorprenderà: insieme all’amare, al cantare e al digerire, lo considerava uno dei quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma di una bottiglia di champagne» puntualizzò con un glu glu che in quel caso sembrava più che altro un bicchierino scolato fino in fondo.

    Il tacchino B fissò il tacchino G per intravedere nel compagno segnali che facessero trasparire un po’ di orgoglio per quanto rivelato, ma non parve che il suo collo si allungasse più del previsto. Infatti il tacchino G, che di musica se ne intendeva abbastanza, confermò il suo scetticismo: «Ma tu lo sai che, esattamente come il Filosofo, anche il Maestro Rossini era un depresso? E sai cosa penso? Penso che, alla fin fine, l’evanescente euforia dell’uno come la logica tragica dell’altro non siano altro che le due facce di uno stesso male di vivere che non dovrebbe affatto riguardare noi tacchini» disse risoluto, ripensando però nel frattempo all’idea dello stomaco come maestro di cappella che aziona la grande orchestra delle passioni, che in effetti non era affatto male, almeno come metafora.

    «Ahi, ahi, caro il mio fratello» si lamentò il tacchino B, scuotendo il capo bitorzoluto e assai antiestetico. «Vedo con rammarico che sei rimasto con incollata nelle penne la stessa rigidità antica dei nostri antenati, che, ritenuti sacri da Maya, Toltechi e Aztechi, non facevano che crogiolarsi nel loro sogno di gloria. Ma non capisci che l’Uomo ha in fondo solo e soltanto tanta nostalgia in corpo per quel che eravamo tanto tempo fa? E se l’Uomo ormai non ci osserva più, non credi che valga la pena di sforzarci di osservarlo noi, più da vicino? Ti dirò la verità: io dall’Uomo sono sedotto. Sì, sedotto. Hai capito bene. E della sua opera buffa mi intriga assai percorrerne l’ambivalenza, rintracciarne i segni più molecolari esattamente come l’Uomo per secoli ha fatto con noi, con le nostre rappresentazioni sempre in bilico fra diniego e rispecchiamento» e dicendo questo, il tacchino B si accorse che stava parlando proprio come un vero tacchino filosofo che conosceva persino Savinio.

    Il tacchino G ascoltò con attenzione irrigidendo le penne anteriori del petto, rese setole ancor più dure. «Quanto a me, fratello» gloglottò piano «io ti confesso invece che non aspiro affatto a finire in un ritratto stile Grandville. Anzi, me ne guardo bene. Sospetto altresì che tu potresti essere presto inghiottito da quel tipo di Umanità Animale che, questo è quello che io temo, ti renderebbe di certo assai peggiore!» blaterò fra la preoccupazione e l’irritazione.

    Quel che gli premeva era più che altro mettere in guardia l’amico dalla troppa curiosità dimostrata, che spaziava dalla Logica alla Musica dell’Universo Uomo. Dopotutto, dopo la notizia delle mucche che ascoltavano Mozart per produrre latte migliore, ci voleva pure che si sapesse in giro di tacchini fan di Rossini per... Già, per cosa?

    «Il fatto straordinario» tentò di spiegare al compagno il tacchino B «è che nella musica di Rossini è come se ci fosse una fuga continua da un animale all’altro: quando l’ascolto - disse parafrasando un critico - io mi sento esattamente come immagino si senta l’Uomo, ora gazzella, ora lince, ora serpente, ora lepre, ora capriolo... Ed è bellissimo fluire da una forma di vita all’altra, vagabondare attraverso le note, andarsene di qua e di là, in alto e in basso, liberi di sperimentare ascese e cadute soavi! E ti dirò di più: il fatto che tutto questo nasca da un fondo depressivo beh, mi fa dire che sì, anche un volatile con ali poco sviluppate come noi tacchini, continuamente esposto alla frustrazione, può volare lo stesso molto in alto, se soltanto lo desidera. L’euforia creativa del nostro Maestro Gastronomo dell’Universo un po’ depresso, che così tanto amava noi tacchini, non ne è che la riprova!» proclamò lirico e appassionato, rasente il sublime, in un glu glu accompagnato come corollario dalle note d’attacco dello Stabat Mater.

    C’era da aggiungere altro?

    Certo, un sacco di cose, pensò il tacchino G: è giusto che un tacchino gioisca nel sentirsi serpente o, peggio ancora, Uomo? Perché continuano a nascere tacchini con le ali tanto deboli da

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