Nato vivo
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Info su questo ebook
Senti come suona: mio figlio. Avrò un figlio, ho un figlio… ce l’ho dentro il mio grembo a sfregolare per la maggior parte del tempo. Ce l’ho, ma è ancora dentro e, visto che nessuno vede oltre la mia pancia prominente, non è vero che ce l’ho, ma ce l’avrò. Al più posso dire che sta arrivando. Qualcuno che arriva ancora non c’è, è in viaggio… non lo vediamo, ma lo aspettiamo. Non posso vedere ancora mio figlio, ma mi è talmente vicino che addirittura mi occupa. In realtà non aspetto
che arrivi, ma solo che esca da me.
Qualche volta ci domandiamo che emozione sarà, se ci sarà dato di provarla, se sarà sano, se, se, se… E sarà un’emozione a cui non siamo del tutto preparati, direi che sarà più che altro una “sorpresa”. Ce la teniamo così, proprio come una sorpresa, addirittura inaspettata.
Scegliere di rimettersi in gioco non significa avere dimenticato o rimosso. A volte non significa nemmeno avere superato. Scegliere di rimettersi in gioco spesso significa cercare di “andare avanti”, senza permettere che la morte porti con sé anche tutto il resto della propria esistenza.
Un bambino nato vivo non cancella la morte, né allontana i demoni, solo rassicura su un fatto reale: i figli non sempre muoiono.
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Anteprima del libro
Nato vivo - Erika Zerbini
Erika Zerbini
Nato vivo
Copyright © 2016
PM edizioni
via XXIV Maggio, 1
00049 Velletri (RM)
www.pmedizioni.it
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
ISBN 978-88-99565-16-9
Prima edizione: maggio 2016
Indice
Frontespizio
Colophon
1. Prefazione
2. Introduzione
Parte I Maternità interrotta
3. I miei aborti
4. Le mie figlie non sono angeli
5. Il volto del lutto
6. Perché l’aborto è un lutto?
7. Due è peggio di uno
8. Come Alice nel Paese delle Meraviglie
9. Nascere e partorire
10. Andare avanti
11. Cercare un NUOVO bambino
12. Un bambino NUOVO
Parte II Tristano Enea
13. 7 maggio 2012
14. 15 maggio 2012
15. 21 maggio 2012
16. 27 maggio 2012
17. 29 maggio 2012
18. 11 giugno 2012
19. 27 giugno 2012
20. 27 giugno 2012
21. 3 luglio 2012
22. 9 luglio 2012
23. 11 luglio 2012
24. 24 luglio 2012
25. 31 luglio 2012
26. 9 agosto 2012
27. 30 agosto 2012
28. 3 settembre 2012
29. 10 ottobre 2012
30. 8 novembre 2012
31. 28 novembre 2012
32. 3 dicembre 2012
33. 7 dicembre 2012
34. 9 dicembre 2012
35. 19 dicembre 2012
36. 2 gennaio 2013
37. 18 gennaio 2013
38. 20 febbraio 2013
39. 15 marzo 2013
40. 30 agosto 2013
41. 14 settembre 2013
42. 21 febbraio 2014
43. Conclusioni
44. Lettera all’ostetrica
45. L’accompagnamento nel lutto perinatale
46. Ringraziamenti
1. Prefazione
Feto: sostantivo maschile, dal latino fetus, colui che è generato, figlio.
Il mio incontro con Erika ha rappresentato il poter vedere a porte spalancate ciò che anni di studio in ambito perinatale avevano solo fatto intravedere e che altrettanti anni di colloqui con mamme e genitori in lutto avevano provato ad accennare, facendo talvolta dare solo una timida occhiata.
Nella pratica clinica, ciò di cui i genitori di un figlio morto durante la gravidanza sembrano avere bisogno è il riconoscimento del loro dolore e la legittimazione sociale del loro star male.
Ma come ci si può sentire legittimati a vivere il proprio dolore, condizione temporaneamente necessaria per una fisiologica elaborazione del lutto, se questo è negato, nascosto, minimizzato o banalizzato dalla società?
Leggendo i libri di Erika, ho subito provato un forte senso di sollievo dato dalla sensazione di vedere, forse per la prima volta, un testo personale che non aveva bisogno di nascondere a sé e ai lettori gli aspetti anche crudi e schietti di una realtà tanto dolorosa.
Si parla di quei genitori che non hanno avuto tempo, ma hanno avuto ciò da cui non è possibile prescindere per sentirsi tali: l’intenzionalità. L’intenzione di essere genitori di quel bambino. E da qui tutto parte.
Seppur non manchino immagini molto poetiche, qui i figli non spariscono, non si perdono, né volano in cielo: muoiono. E le madri di questi figli sono, semplicemente, ciò che vorrebbero gridare al mondo di essere: madri.
Madri di figli morti troppo presto, talmente presto da mettere in imbarazzo la società che, spiazzata e impreparata, diniega o relega i genitori in qualche categoria edulcorata rispetto ad una realtà troppo crudele da gestire così com’è.
Questo miele, che dolcifica, sì, ma spesso invischia, non compare in queste pagine proprio perché l’Autrice dimostra il coraggio e la fiducia di credere nel lettore, lasciandogli la possibilità di vedere senza filtri all’interno di questo universo esiliato e arginato sia in termini di pensiero che di realtà.
Tutto ciò avviene tramite l’utilizzo puntuale delle parole ed una sintassi scevra da perifrasi dettate dall’insicurezza che una situazione molto scomoda provoca.
Per la prima volta si può stare in ascolto di una narrazione in cui i figli morti non sono angioletti
, non sono mai nati
(sono nati eccome, dopo travaglio, contrazioni e parto) e le madri non sono particolarmente speciali
, sono madri e basta.
Madri e padri che dovranno affrontare il duro cammino nella ricerca di un senso di quanto accaduto inscrivibile all’interno della narrazione della propria esistenza. Un cammino che, io credo, non possa che essere facilitato dalla chiarezza semantica anche e proprio a partire dai termini che adoperiamo, come operatori della salute e come esseri umani in costante relazione gli uni con gli altri.
Il rimprovero che mi sono sentita fare spesso, soprattutto nella gestione del mio blog è che, essendo uno spazio specifico in cui si parla di nascita, di maternità, di genitorialità e di parto, non ci si dovrebbe imbattere anche in articoli sulla morte e l’aborto. Spesso mi è stato domandato perché io metta insieme la nascita e la morte, in uno stesso contenitore virtuale.
Ecco, io ogni volta in risposta mi chiedo: e come potrei non farlo?
Non farlo sarebbe ignorare la realtà. Sarebbe negare a questi genitori il posto che spetta loro: fra i genitori.
Avere un posto in cui riconoscersi può essere un punto di partenza, di ri-partenza. Se paura e speranza sono le istanze fondamentali su cui stare in equilibrio, l’obiettivo finale è che la prima non prenda il sopravvento sulla seconda impedendo la danza tra ciò che l’Autrice identifica come i due motori per guardare oltre: la fiducia e la curiosità per ciò che dovrà ancora arrivare. Per accogliere il futuro, la vita.
Arianna Cosmelli
Psicoterapeuta
Psicologa Perinatale
2. Introduzione
L’esperienza non è ciò che accade ad un uomo: è ciò un uomo fa con quel che gli accade.
Aldous Huxley
Giacomo (mio marito) ed io avevamo il desiderio di un altro figlio. Non avevamo messo in conto quanto ci è accaduto: nessuno mette davvero in conto l’eventualità di perdere un figlio.
Noi ne abbiamo perse due. Una dopo l’altra. Nello stesso anno. Quell’anno non ci è sembrato di fare altro che aspettare figli da seppellire.
L’aborto, la morte di un figlio, è un mondo intero di emozioni.
Dopo un’esperienza così nulla è più lo stesso: la vita acquista altri colori, noi stessi siamo diventati persone diverse.
Detesto quando si vuole ad ogni costo trovare un lato buono nelle cose, detesto che la morte di un figlio, perché sembri più sostenibile, porti con sé anche una parte di fortuna
.
Ci siamo sentiti dire d’essere fortunati perché le nostre perdite sono venute dopo due figlie nate vive. Noi stessi ci siamo sentiti fortunati perché le nostre perdite non hanno per nulla minato l’equilibrio della nostra coppia, anzi, ci siamo trovati addirittura rafforzati.
Ma insomma... la vera fortuna sarebbe stata quella di non dover seppellire nessuno!
Per un po’ mi è sembrato di non essere più capace di sognare, ero spinta dalla rabbia, dal desiderio di non darla vinta alla sfortuna. Ero mossa dal puro desiderio di risollevarmi e riscattarmi dal dolore.
In quel momento mi è stata indicata una persona che avrebbe potuto aiutarmi.
È S.: una donna, una psicoterapeuta.
S. per me, per noi, per la nostra famiglia, ha fatto la differenza.
Nel dialogo con lei ho trovato il giusto nome delle mie emozioni. Le sue parole e riflessioni mi hanno permesso di fare evolvere ciò che provavo. La sua capacità di ascoltare, farmi sentire accolta e non giudicata, mi ha permesso di lasciare libero sfogo a qualunque cosa sentissi, anche le cose di cui avevo paura, ma soprattutto mi ha permesso di non sentirmi mai sola.
Giacomo ed io abbiamo vissuto insieme tutto quanto, ci siamo sostenuti reciprocamente e quando abbiamo avuto il sentore che la pena di uno stava diventando la zavorra dell’altro, S. ci è venuta ancora in aiuto.
Ad un certo punto abbiamo nuovamente trovato il coraggio di sognare, non ne siamo più stati capaci come prima, ma abbiamo trovato un modo nuovo di guardare avanti e immaginare cose belle per noi.
Desiderare un figlio per me è un insieme di aspetti, tutti intrecciati fra di loro e dipendenti l’uno dall’altro.
Si potrebbe pensare che io ami la vita, che scommetta coraggiosamente su di essa, perché vale sempre la pena vivere, ad ogni costo. Ma no: non penso che valga sempre la pena vivere. Mi ha sempre incredibilmente affascinato ciò che c’è oltre la vita o aldilà di essa. Chi non è qui sarà altrove: chi ha detto che non sia meglio?
Si potrebbe pensare che alla base ci sia il fatto che mi piacciono i bambini... ma non sono i bambini a piacermi, sono io che mi sento realizzata nella relazione con loro.
Mi sarei potuta accontentare di relazionarmi con i bambini altrui, ma in realtà i bambini degli altri mi piacciono ancora meno... perché la mia relazione con loro non può essere spiccatamente materna.
Io desidero i miei figli perché mi realizzo nella relazione materna con loro.
Io sono questo: una mamma.
Non c’è grande relazione materna con i figli che si perdono.
Da qui la mia determinazione nell’avere un figlio vivo.
Mi ha spinto la testardaggine: volevo un altro figlio con tutta me stessa e avevo ancora energie da investire, sogni da sperare, coraggio con cui sostenermi e quel tanto di fiducia nel fatto che le cose non vanno sempre male. Così ci siamo lanciati in un altro tentativo.
Aspettare Tristano è stata un’altalena di emozioni, ha richiesto molto sangue freddo e continua presenza a noi stessi.
S. è stata un grande riferimento durante questo tempo e resta tale tutt’oggi.
È stata una presenza discreta e concreta.
Mi ha permesso di inviarle e-mail regolari in cui raccontarle emozioni, paure, conquiste, dubbi e le tante e diverse sfumature della gioia di aspettare Tristano.
Ad ogni e-mail è seguita una sua telefonata: fiduciosa, obiettiva, sorridente e incoraggiante.
Lei c’è stata sempre e per me ha fatto la differenza, ancora una volta.
Sono stati 234 giorni in cui ogni giorno ho vissuto più e più volte la stessa altalena di emozioni:
Tristano sarà vivo?
Se è morto cosa faccio?
Non posso sopportare una nuova perdita... non so se sono capace di reggere ancora una volta...
Ma forse Tristano è vivo.
In fondo non ho segnali evidenti che sia morto.
In verità segnali non ne ho mai avuti, non così evidenti... Eppure sono morte. Erano morte... Ho portato con me la morte senza saperlo.
No: devo essere fiduciosa.
Se non avessimo un briciolo di fiducia non avremmo tentato ancora.
Abbiamo tentato perché vogliamo avere fiducia: ancora.
Occhi sulla palla.
Tristano probabilmente è vivo.
Voglio godere della vita di mio figlio. Voglio esserci. Ci sono!
Ma se muore? Che ne faccio di questo tempo? Come faccio...?
Ogni giorno, ogni notte, ancora e ancora. Continuamente.
Ci sono stati momenti in cui avevamo la sensazione di non farcela più, momenti in cui ci siamo sentiti vicini a farcela...
S. ha raccolto tutto.
Grazie a lei ho potuto evitare di perdermi, ma anche se mi fossi persa, sono certa che mi sarebbe venuta a cercare.
Quando avvertivo la sensazione di non riuscire più a gestire il panico e l’ansia, aprivo la posta