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Il dono di Paolino - Tra esigenze di umanità e potere della tecnologia
Il dono di Paolino - Tra esigenze di umanità e potere della tecnologia
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E-book300 pagine4 ore

Il dono di Paolino - Tra esigenze di umanità e potere della tecnologia

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Info su questo ebook

Grazie ai trapianti, si assiste a un differimento continuo del limite ultimo della vita. La definizione di morte cerebrale mentre gli altri organi sono ancora vivi, può trovare una giustificazione per prelevare organi. Però non tutti la pensano così. Poiché a ciascuno di noi può capitare di dover decidere se approvare una donazione d'organi di un nostro caro, è necessario avere nozioni sufficienti in merito. In forma di romanzo giallo vengono suggerite nozioni sufficienti a capire aspetti positivi e negativi del concetto di morte cerebrale e dei trapianti d'organo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2018
ISBN9788827816585
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    Anteprima del libro

    Il dono di Paolino - Tra esigenze di umanità e potere della tecnologia - Lodovico Mancusi

    vita!"

    Prefazione

    Il romanzo di Lodovico Mancusi, Il dono di Paolino, ricco e vario, aperto ai problemi umani e sociali, ha un posto a sé stante, non segue le vecchie regole canoniche, ma, come un fiume in piena, travolge tutti gli schemi consueti e, attraverso il suo evolversi, restituisce il calore e la tensione dell’esistenza.

    Esso è un romanzo composito in cui si fondono armonicamente, sì da costituire in un tutt’unico vari elementi, arte - pittura - medicina - filosofia - giurisprudenza, che denotano la formazione umana e culturale dell’autore.

    Lodovico Mancusi, conscio che il disordine è il carattere prevalente della realtà e che la società è contrassegnata da un incessante processo di degradazione morale operante in ogni settore, mette a nudo con incisività gli aspetti ambigui e corrotti della società borghese, le ambizioni, le velleità, le ipocrisie di un mondo dominato dall’arrivismo, dal malaffare, dall’opulenza.

    Di fronte allo spettacolo inverecondo che si presenta ai suoi occhi, non si isola in un solitario pessimismo, ma mette in luce, apertis verbis, la crisi dei valori, anche attraverso l’analisi puntuale degli stati d’animo, dei comportamenti dei vari personaggi, affermando non solo la dignità dell’uomo, ma anche e soprattutto il rispetto per la legge morale che rimane sempre il punto di forza dello spirito umano.

    Nel romanzo, Mancusi, prendendo spunto dal drammatico incidente occorso a Paolino Dantoni, sulla scorta della sua esperienza di medico ospedaliero, affronta con competenza un argomento di notevole spessore umano e sociale, quello del trapianto degli organi, in base al principio della morte cerebrale, che, pur se trova una giustificazione razionale sul progresso della medicina e sulla salvezza di altri esseri umani, non può prescindere dal rispetto di chi sta perdendo la vita e di chi gli sta vicino.

    Da buon indagatore della natura umana, Mancusi rivolge la sua attenzione al mondo che lo circonda, cogliendo da un lato i personaggi che sono presentati nei loro tratti fisici, nei loro gesti, nelle loro azioni e si determinano, nel corso della narrazione, senza essere racchiusi in ritratti completi - essi, in sostanza, sono fermati in un gesto, in una parola che ne caratterizza anche l’aspetto più intimo e segreto, e dando rilievo dall’altro alle descrizioni ambientali, molto curate, in quanto condizionanti i comportamenti e lo status sociale dei protagonisti.

    Per quanto concerne i personaggi, un giudizio a parte merita la dottoressa Evelina Starferla, psichiatra del Centro Trapianti Universitario, che, resasi conto dell’intrigo ai danni di pazienti in attesa di trapianto, si oppone, per fini umanitari, al malcostume operante, nonostante sia oggetto di minacce che coinvolgono non solo la sua persona, ma anche la sua famiglia. Intervengono in soccorso della dottoressa in balia di queste crisi d’immaginazione e di allucinata solitudine l’avvocato Ernesto Marsia e l’investigatore privato Giordano Mensis, due personaggi nettamente positivi, che conducono l’indagine che porterà a soluzione l’intricato processo a carico dei responsabili della malversazione professionale e di alcuni omicidi. Essi sono accomunati da due tragici episodi, frequentandosi troveranno un’intesa sentimentale che cambierà la loro vita.

    Nell’opera, dove il pathos talvolta raggiunge il cosiddetto spannung, la narrazione procede con vari toni e s’innalza spesso a scene drammatiche e tragiche per delle immagini crude, realistiche, dove il dolore, nella sua accezione più ampia, ha il suo rilievo.

    In realtà, il modus narrandi non è asettico, impersonale, ma si direbbe passionale, in quanto l’autore, partecipando alle vicende che narra, adotta magistralmente la struttura sintattica maggiormente atta a esprimere di volta in volta il dubbio, l’ansia, l’incertezza, la presunzione dei protagonisti -quelli ospedalieri- con la relativa, supina acquiescenza dei subordinati, nonché la mancanza di ogni scrupolo morale.

    Concludendo, bisogna dare atto a Lodovico Mancusi di aver dato rilievo a un argomento molto sentito e di alto valore umano. Il che non è poco.

    Professor Giuseppe Anziano

    1

    Con lo zainetto in spalla, i capelli neri, irti e rasati ai lati, Paolino esce da scuola alle sedici e senza esitazione si dirige di corsa verso la sua nuova bicicletta: vuole mostrarla ai compagni che lo seguono perché tra loro c’è anche Enrichetta, la sua cotta segreta. È molto eccitato. Stacca la bici dalla rastrelliera, sottecchi guarda lei che se ne sta un po’ in disparte, come se la cosa non la interessasse per niente. Portandola sulla canna immagina, poggerà la faccia tra le sue trecce, sussurrandole all’orecchio quanto gli piace stare con lei.

    «È una mountain bike Bianchi, modello Kuma» spiega con fare da esperto ai compagni. «Il telaio è in alluminio, leggerissimo ma resistente, è rossa come la Ferrari; ha il cambio Shimano Acera, lo tocchi appena e tac! il rapporto è già inserito; davanti ha la forcella ammortizzata e i freni sono a disco, modello Hayes Dyno sport».

    «Pensa quando ci porterai sopra Enrichetta» gli ridacchia in faccia un compagno. Paolino arrossisce tutto mentre lei gira i tacchi e scappa via.

    Pedala, tutto serio e concentrato. A ogni pressione la bici risponde a meraviglia. Nel parco, quello grande, sarà fantastico superare i dossi, controllare le slittate, portarla in salita senza scendere dal sellino. Pedala, Paolino, al bordo della strada, diretto a casa, contento per il bel voto preso in matematica e gli viene da sorridere pensando ai complimenti che l’insegnante gli ha fatto davanti a tutta la classe. E vai!

    Saranno felici, mamma e papà: ho mantenuto la promessa, me la sono proprio guadagnata la mia Ferrari a due ruote! Che forza!.

    Nero, poi tutto gli diviene nero ma senza dolore. Vola a faccia in avanti, batte la testa contro un albero, stramazza a terra, con la bici che prima gli sale addosso e poi si paralizza, qualche metro più in là. Il mostro a quattro ruote nemmeno ha rallentato.

    Per un momento ancora, sullo sfondo di un tramonto rosso intenso, continua a pedalare, fino a casa, dove sorridente racconta, anche se le parole gli escono male, racconta, anche se a un certo punto la bocca gli si muove a vuoto, e lui racconta, prova ancora a raccontare fino a quando i pensieri non gli si formano più nella mente e il rosso diventa di nuovo nero, oscuro, più denso della notte stessa.

    «Qui è il 118, mi dica.»

    «Bè, non so come è accaduto ma c’è un ragazzo sul ciglio della strada, non si muove, vicino a lui c’è a una bicicletta tutta accartocciata, qui appena si esce dal paese, a 500 metri dalla scuola. Il cuore gli batte ancora ma non si muove più, è come…».

    L’eliambulanza che si porta via Paolino ha richiamato tanta gente, anche i genitori che abitano a duecento metri di distanza dal luogo dell’incidente. «Mio Dio, o mio Dio! Quella è la bicicletta di mio figlio!». All’arrivo della gazzella dei carabinieri, la coppia corre verso casa, sale in macchina e con la disperazione che preme l’acceleratore, arriva all’ospedale, quindici chilometri più lontano.

    Al Pronto Soccorso Vincenzina e Arturo vagano in mezzo a tanti pazienti in attesa, tutti concentrati sul proprio caso, ognuno chiuso nel proprio inspiegabile dolore. Non c’è nessuno cui chiedere. Quando una porta si apre, la mamma di Paolino si precipita, scavalcando tutti.

    «Infermiere… un bambino, è stato portato con elicottero, è mio figlio, dov’è, fatemelo vedere…».

    «Sta meglio, ma è grave, è stato portato in radiologia per la TAC, poi sarà portato in Rianimazione».

    Corrono verso il reparto indicato, ne sta uscendo un lettino con due infermieri che lo spingono veloci e c’è un medico che pompa un pallone collegato alla bocca di Paolino. Vincenzina e Arturo fanno fatica ad affiancarlo.

    «Paolino, Paolino... Come sta? Per favore ditemi come sta!» Gli infermieri continuano a correre come se non l’avessero sentita. Un medico le risponde, ma dopo.

    «Signora, lo stiamo portando in Rianimazione, al momento è addormentato, appena sistemato potrete parlare con un responsabile del reparto, vi spiegherà tutto».

    Continuano a correre. La porta della sala di attesa della rianimazione si apre e si chiude e, dentro non c’è nessuno. La disperazione s’attenua appena, ma per restare sopra le loro teste, pesante più di un macigno, sovraccarica di paura, dolore, incertezza. Poi, finalmente, Vincenzina scoppia a piangere, nell’abbraccio di Arturo: «Vedrai che si riprenderà, Paolino è forte, è stato solo uno spavento troppo grande per lui, ma aspettiamo, vedrai che tornerà sveglio come prima. Forse è solo ferito…» ma lo dice piangendo.

    Alle diciassette e trenta Paolino è già stato sistemato in Rianimazione; monitorizzato, collegato a un respiratore artificiale, la sua pressione arteriosa si è regolata.

    «Iniziate la terapia anti edema cerebrale e approfondite la sedazione farmacologica» ordina il medico di guardia.

    Nella sala dei dottori un neurologo e il direttore stesso della Rianimazione, Aristide Primolano, prendono in visione la tomografia effettuata.

    «Brutta roba! L’emorragia è diffusa e intraparenchimale, l’edema cerebrale è serio» mormora il neurologo.

    «Dobbiamo inviare queste immagini al centro di neurochirurgia, ma non credo che il bambino si possa operare, bisognerà attendere che l’edema regredisca per valutare l’effettiva gravità delle lesioni cerebrali» concorda il direttore.

    2

    Nell’ospedale a pochi chilometri dal Centro Trapianti Universitario, tutti i medici del Reparto di Anestesia e Rianimazione s’erano riuniti, come ogni mattina, per fare il punto sull’attività delle sale operatorie e sullo stato dei pazienti ricoverati in rianimazione.

    «Prepariamoci a sorbirci il resoconto del successo strepitoso che il nostro illustrissimo primario, il professore dottor Aristide Primolano, ha riscosso nel congresso appena terminato!» recitò il medico che smontava dalle sue dodici ore ininterrotte di guardia. «Dopo i disastrosi interventi di questa notte mi viene la nausea solo a pensarci.»

    «A te? Non sai a me! Alle otto i chirurghi già ci aspettano in sala operatoria, con quei loro ridicoli vestiti sterili, con le mani inguantate ben in vista, col piedino che si agita nervosamente e la mascherina davanti alla bocca che sbuffa: Dottoressa, ha fatto tardi in discoteca? Con calma, tanto noi siamo qui a fare niente, come vede!».

    Con tre figli piccoli e un marito, anche lui medico turnista, intravisto appena tra una guardia e l’altra, la seconda voce apparteneva a una dottoressa eternamente inviperita:

    «Se il primario tarda ancora, giuro che me ne vado! Non so, a voi dottorini, che dicono i chirurghi, ma a me stanno qua, non li sopporto proprio: io devo abbozzare, io devo chiedere scusa, io devo far finta di… Quanto vorrei dir loro che non c’entra niente la discoteca, e che la colpa del ritardo è dell’esimio Direttore, un vanaglorioso della malora che ci fa venire qua alle sette e che adesso sono già le sette e mezzo non se ne vede neanche l’ombra, uffa!»

    «Non dimenticate» rincarò ironico il primo aiuto «che proviene dall’Università, che è conforme a quella mentalità. È uno che non ha mai digerito di essere finito in un ospedale periferico come questo. È solo qui che può fare il barone e voi, pivelli, chi mai vi credete di essere? Ci ha nutrito a flaconi di scienza, porta i nostri lavori ai congressi internazionali, dà valore alla nostra vita di schiavi, ci concede l’onore di star a sentire quanto successo ha avuto, qui e là, ed è chiaro che ogni suo successo è di riflesso anche il nostro successo, e voi… voi vi lamentate pure? Quando arriva, se arriverà, gli riferirò tutto, statene certi, così, dato che come polli vi ha allevato, come galline vi tirerà il collo e solo a me, suo unico fedele servo, poserà la mano sul capo con affetto e gratitudine… e io mi farò ancor più basso per far emergere la sua altezza!»

    «Certo» celiò un altro muovendo la mano a rasoterra. «più diventi basso e più vicino starai ai suoi piedi. Che cosa non si fa per la gloria!».

    Le risate che all’unisono s’erano levate avevano avuto il pregio di rasserenare l’attesa: anche in assenza, il primario è sempre un parafulmine per i suoi sottoposti, utile a incanalare le tensioni, a disperderle, prima e dopo il lavoro stressante nelle corsie.

    Il primario dei servizi, poi, come quello di anestesia, svolge un ruolo molto delicato: deve barcamenarsi di continuo tra le svariate pretese-richieste dei chirurghi e dell’amministrazione, incluse tutte le esigenze della forza lavoro a lui sottoposta, selezionando le varie competenze e riducendo al minimo le singole rivalità, dando retta, qualche volta, anche alle sue istintive simpatie.

    Quando fuori della porta si sentirono le voci deferenti degli infermieri tutti i dottori in attesa tacquero, ricomponendosi. In fondo, nonostante i suoi non pochi difetti, il direttore era pur sempre il Direttore, rispettato e ben voluto.

    Aristide Primolano entrò sorridendo, e questo era di per sé un buon segno.

    Nel taschino del camice, pulitissimo, sfoggiava la decantata penna Cameo, quella della Edizione realizzata in soli ottantuno pezzi per tutto il mondo, da anni esaurita. Tutta lavorata a mano, pezzo per pezzo, con vero cammeo intagliato artigianalmente in quel di Torre del Greco, ai piedi del Vesuvio…. Indossava una camicia a righine azzurre, sulla quale risaltava una cravatta blu a pallini rossi, dal nodo perfetto. Le scarpe lucide sotto i pantaloni scuri rigati, inoltre, fecero subito capire che non si sarebbe fermato per il solito giro tra i pazienti.

    Sul suo volto, regolare e abbronzato, spiccava un bel naso aquilino che gli conferiva un aspetto serio e meditativo, da intellettuale, accentuato dalla fronte ampia. Compensava la marcata calvizie con ciuffi lunghi e folti, di color grigio, ai lati e dietro la testa, ribelli al punto giusto da fargli meritare, da parte del personale medico e dei colleghi, l’appellativo di Albert: Ecco che arriva Albert!, con chiaro riferimento alla celebre capigliatura di Einstein.

    Appena entrato nella sala dove i medici da lungo lo attendevano, il professor Aristide Primolano saltò ogni preambolo formale:

    «Congratuliamoci reciprocamente per il lavoro svolto, cari colleghi. La mia relazione sui trapianti d’organo è stata accolta con un entusiasmo superiore alle mie stesse attese. Quando al congresso ho dimostrato che il nostro ospedale è ai primi posti in Italia per il numero degli organi donati da pazienti dichiarati in stato di morte cerebrale, sono stato interrotto da un lungo applauso. Ho esposto nei dettagli il protocollo da noi adottato per il pronto innesto degli organi prelevati. Il modello di coordinamento messo a punto pone la nostra struttura ospedaliera tra le migliori per quanto concerne il numero degli organi prelevati e il numero delle operazioni di trapianto felicemente concluse. Sono venuti a congratularsi con me e a chiedermi consigli i luminari delle rianimazioni più attive e i direttori dei maggiori centri di trapianto universitari. Il mio maestro nell’arte del trapianto, il professor Imerio Connutti, che tutti voi ben conoscete, ha riconosciuto pubblicamente i miei meriti e di conseguenza i vostri. Mi spiace, ha detto, di aver lasciato andare il mio allievo Primolano a svolgere la sua funzione di primario in un ospedale pubblico, invece di tenerlo presso di me, all’Università. D’altra parte, ha proseguito, tocca a noi direttori universitari dislocare i nostri migliori elementi nelle strutture che ne hanno più bisogno, sia per favorirne le attività sanitaria più delicate sia perché possano ottenere i requisiti indispensabili per giungere all’eccellenza, come ha ben dimostrato il Centro di Anestesia e Rianimazione diretto dal valente collega professor Aristide Primolano.»

    «Grazie» proseguì, dopo che un suo sguardo, lanciato al suo primo aiuto, aveva fatto scattare la scintilla contagiosa dell’applauso. «Grazie, cari colleghi, ma il merito è anche vostro, perché avete capito che quando per un paziente non c’è più nessuna speranza di un intervento utile alla sua sopravvivenza, vuol dire che dobbiamo noi essere ancora utili consentendo, in tutti i modi, al paziente grave l’opportunità di compiere un atto di grande utilità sociale: la donazione dei suoi organi affinché altri malati gravi possano continuare a vivere. La legge in materia, lo sapete, mostra sempre di più tutte le sue carenze, e sarebbe sciocco, data la delicatezza del nostro compito, sperare in una legislazione che riuscisse a trovare una forma adeguata per stabilire ciò che varia sempre da caso a caso. Tocca a noi, quindi, valutare, di volta in volta, come e quando si presentano le circostanze giuste, le sole che, senza togliere alcuna chance di vita al paziente, ci permettono il prelievo di organi, sufficientemente sani, da trapiantare con successo. Noi tutti rispettiamo la speranza di guarigione che i parenti dei pazienti in rianimazione nutrono fino all’ultimo istante di vita dei loro cari. Però sapete bene che per questi pazienti in coma, senza più possibilità di ripresa dell’attività cerebrale, intubati, segnati da operazioni chirurgiche, da traumi irreparabili, costretti a drenaggi esterni, con difese immunitarie e risorse di compenso, neuroendocrine ed ematiche allo stremo, un’ora in più o in meno può determinare una setticemia e allora addio alla possibilità di prelevare organi sani da trapiantare. Ecco perché è così difficile per noi prelevare organi sani al momento giusto. Sapete che poi c’è da tener conto dei tempi burocratici, quelli necessari per costituire la commissione predisposta alla verifica e al controllo della morte cerebrale; quelli dei prelievi da inviare per le prove di compatibilità; quelli dei preavvisi all’equipe chirurgica destinata al prelievo e alla conservazione degli organi; quelli della convocazione del paziente da trapiantare e dell’equipe che dovrà eseguire l’intervento. Insomma, un mare di cose da coordinare e un mare di carte da compilare. Su tutto questo, però e infine, grava più di tutto il tempo necessario per chiedere ai parenti il consenso per l’espianto: perché abbiamo di fronte a noi persone indecise, che si devono consultare con altri parenti, che non si rassegnano alla certezza della morte cerebrale dei loro benamati. Bisogna trovare le parole giuste per risvegliare in loro il senso e l’esigenza della solidarietà con chi, per altre ragioni, continua a soffrire per la mancanza di organi disponibili e vitali. Quante volte ci siamo trovati di fronte a parenti che abbiamo, benevolmente, dovuto spingere verso la decisione giusta, prima dell’irreparabile deterioramento degli organi da prelevare? E quante volte siamo dovuti intervenire per ottenere, da congiunti in preda allo scoramento, le uniche risposte che ci consentono di salvare la vita ai pazienti in lista d’attesa? Persone dall’animo distrutto, facendo loro intravedere la grande consolazione della persistenza vitale di un organo del loro caro nel corpo di un altro. Tra di voi, qui, in questa sala, c’è chi ha criticato il mio modus operandi, le mie stesse decisioni, in nome di una legge che si vorrebbe fosse applicata pedissequamente. Se lo facessimo, non ci sarebbe niente da decidere! Si tratterebbe soltanto di accettare supinamente un destino che va compiendosi. Se ci fermassimo alla legge dovremmo rassegnarci all’accanimento terapeutico su pazienti oramai totalmente privi della speranza di tornare a vivere, quando invece ogni nostra decisione collegiale potrebbe, e può, accendere concrete possibilità di vita migliore in pazienti desiderosi di uno o più organi nuovi, per condurre un’esistenza ancora viva e attiva.

    Che razza di medici saremmo se non aiutassimo gli altri a vivere meglio? Qui non si tratta di adottare regole e regolette che, di fatto, ci impediscono di portare a compimento la nostra funzione primaria: per la vita e non contro! Le nostre regole sulla morte cerebrale, le stesse che, tempo fa, il nostro neoassunto collega Franco Meneghetti ha ingenuamente definito disinvolte sono proprio quelle che ci hanno permesso di raggiungere quei risultati che la comunità scientifica oggi elogia senza riserve, perché si tratta di regole che implicano la piena assunzione di responsabilità di tutte le figure professionali addette al coordinamento e alla positiva riuscita dell’agognato trapianto.

    Comunque, per onestà devo dirvi -aggiunse Aristide Primolano, dopo aver atteso che si spegnesse l’eco di un secondo applauso scrosciante- che al congresso è stata accordata la parola anche a un nostro collega, a dir poco viscido, nel senso che costui non perde occasione di insinuare nella coscienza di chi opera come noi, il dubbio sulla legittimità delle nostre procedure, di alludere al fatto che noi tutti agiremmo per interessi diversi dal nobile intento che anima ogni nostra benefica azione, cioè quello di salvare vite altrimenti perdute. Questo viscido e illustre sconosciuto, un certo dottor Marco Spilzano, direttore di una sperduta rianimazione non so dove, invece di adoperarsi per strappare pazienti alla morte certa, passa il tempo a scartabellare notizie, a tirar fuori leggende metropolitane di comatosi improvvisamente risorti, a citare articoli di legge, supposti lavori scientifici, presunte teorie dei cultori della bioetica… insomma, costui mette insieme il tutto e dopo averlo scopiazzato, a destra e a manca, si presenta ai congressi al solo scopo di creare confusione nella mente di colleghi giovani e inesperti, dottori che non si sono ancora ben confrontati con la validità dei principi che vi ho appena esposto. Mi sono procurato una copia della sua relazione congressuale e

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