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Tutta la verità
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E-book250 pagine3 ore

Tutta la verità

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Info su questo ebook

In due anni Elia Draghi ha imparato a controllare l’angoscia, la solitudine, la sofferenza. È venuto il momento di smascherare chi gli ha causato tutto questo. È venuto il momento di raccontare al mondo “tutta la verità”.
di Francesco Celentano
Aosta, Elia Draghi ha sperato in una giustizia che non è mai arrivata. Ora sa bene cosa siano l’angoscia e la sofferenza, ma ha imparato a controllarle e sono diventate un vantaggio. Proprio come è successo con la solitudine e con la sedia a rotelle su cui è costretto da due anni.
Al commissariato di Dora-Vanchiglia di Torino, l’ispettore, David Crespi sta investigando su quattro strane morti e sulla misteriosa scomparsa di un uomo che sembrano collegate a un vecchio caso irrisolto, da tempo la sua ossessione.
Le indagini dell’ispettore sembrano finire in un vicolo cieco, ma su di esse Draghi costruirà un rischioso piano per denunciare politici e magistrati perché, quando la giustizia non è più possibile, rimane soltanto la vendetta.
LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2020
ISBN9788833284484
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    Anteprima del libro

    Tutta la verità - Francesco Celentano

    Copertina

    Capitolo 1: Chemio

    26 febbraio 2011

    Erano passati tre anni da quando Elia Draghi era quasi morto.

    Ci era andato così vicino che quando si risvegliò dal coma i medici non seppero spiegarselo. Annebbiato dalla sofferenza, smarrita la sua proverbiale lucidità, si rese conto di vivere un’assurda, inquietante contraddizione: la parte razionale gli consigliava di arrendersi, l’istinto gli imponeva di non mollare. Decise di seguire il suo istinto e, controvoglia, intraprese il doloroso processo di guarigione, che affrontò nella solitudine più angosciante. Tempo per pensare ne aveva in abbondanza.

    Il 26 febbraio del 2011 entrò nell’Ospedale Regionale di Aosta e cercò di evitare di tornare con la memoria agli ultimi giorni di riabilitazione prima del ritorno a casa. Allora la disperazione lo assaliva all’improvviso mentre, spesso in piena notte, come l’ombra di se stesso vagava sulla carrozzella nei sotterranei silenziosi dell’ospedale.

    Nell’atrio, che tutti chiamavano la piastra, c’era un po’ di confusione. Elia fermò la sedia a rotelle e si guardò attorno; ci aveva passato ore in quel posto, con gli occhi fissi sull’entrata, lo sguardo allucinato dall’insonnia, cercando qualcuno… sperando di veder arrivare chi non sarebbe più tornato. Se fosse stata ancora viva, sua moglie avrebbe preso la carrozzella e lo avrebbe portato via da lì.

    Una donna tentava di farsi capire dall’impiegato dello sportello dei ticket urlando contro un vetro infrangibile. Nella lunga fila alle sue spalle la gente si stava spazientendo e inveiva contro i tempi d’attesa troppo lunghi e la solita disorganizzazione. Le tazzine tintinnavano oltre il piccolo bancone del bar nell’angolo, mentre il barista sbatteva con forza il filtro nel cassetto per pulirlo. Un vecchio con una benda su un occhio si trascinava aggrappato al treppiede che reggeva una flebo e la sacca del catetere. Con l’occhio buono velato dal patimento, non notò la sedia a rotelle che aveva appena oltrepassato. Lì, ognuno tentava di tenere a bada la propria sofferenza e non c’era modo di occuparsi di quella degli altri. Ed Elia Draghi, probabilmente, lo sapeva meglio di tutti.

    Passò le porte scorrevoli, lasciò la piastra e prese l’ascensore per arrivare nel reparto di oncologia.

    «Ciao Sam, come va?» chiese con voce roca, entrando con finta disinvoltura nella stanza.

    La luce soffusa, una tenda azzurra che serviva da divisorio e l’altro letto rifatto alla perfezione fu ciò che vide, ma l’odore del disinfettante gli penetrò a fondo nel naso e provò il disagio che un luogo così non poteva fare a meno di dare.

    In quella stanza, l’amico era l’unico paziente. Elia adocchiò il simbolo giallo del rischio biologico sul contenitore della flebo e un brivido gli si infilò lungo la schiena.

    «Come un innocente condannato a morte», rispose gelido Samuele Gangi.

    Era ancora vestito e con le scarpe infilate ai piedi, disteso sul letto per la seduta di chemioterapia. Tendendo gli aghi conficcati nel braccio, Sam afferrò la mano dell’amico in un’energica presa densa di significato. Calvo e tarchiato, sfiorava appena il metro e settanta, ma aveva le braccia e il torace più possenti che Elia avesse mai visto.

    Si conoscevano da quasi trent’anni, cioè da quando andavano alle superiori. Avevano fatto insieme il servizio militare ed erano l’uno il testimone di nozze dell’altro. In verità con i matrimoni non ci avevano tanto azzeccato: Samuele era divorziato, Elia era vedovo, ma la loro amicizia si era consolidata.

    Le persone che ruotavano attorno alle loro vite non potevano immaginare il numero di situazioni folli di cui erano stati protagonisti. Esisteva persino una sentenza della Corte Militare di Appello di Roma che proibiva loro qualsiasi accenno al passato. Col tempo, però, avevano imparato ad assistersi a vicenda, a vigilare l’uno sull’altro, sempre.

    «Come mai sei qua?» gli chiese Sam.

    Un’infermiera dai lunghi capelli neri entrò nella stanza senza dire una parola. Fece appena un cenno di saluto con la mano, diede uno sguardo per controllare che non ci fossero altre persone, poi se ne andò senza nemmeno verificare la flebo.

    «Ci sono delle novità!»

    «Davvero?»

    Sam si tirò su di scatto e poco mancò che si strappasse gli aghi dal braccio.

    «Ti ricordi l’ispettore David Crespi? Quello che seguiva il mio caso?»

    «Certo, all’inizio veniva in ospedale a farti tutte quelle domande», ricordò Sam.

    «Credo che in questi anni nemmeno lui si sia dato pace: non ha mai mollato il caso e adesso mi ha convocato a Torino.»

    «Se ti vuole parlare, deve essere per forza legato al tuo incidente.» Indicò la sedia a rotelle, ma Elia sapeva che si riferiva a ben altro. «Quindi li hanno trovati! Cazzo, finalmente…»

    Sam si allungò di nuovo sul letto. Si stava godendo il momento.

    «Non credo tutti e cinque. I morti, intendo…»

    «Sì, uno non lo troveranno mai…» Sorrise compiaciuto. «Comunque, sei un maledetto testardo! Avresti potuto farti gli affari tuoi, invece ora ti tocca andare a parlare con la polizia.»

    «Lo sai che non lascio mai le cose a metà, e poi non ho più nulla da perdere.»

    «Quindi, cosa farai?»

    «Oggi andrò a Torino ad ascoltare cosa hanno da dirmi. Del resto mi hanno convocato, mica sono venuti a prendermi con le sirene. Se le cose andranno male, mi arresteranno. Io racconterò la mia storia e loro cercheranno di insabbiare tutto, su questo ci metto la mano sul fuoco. Se invece andrà come spero, si lanceranno alla ricerca della persona sbagliata e noi getteremo l’esca per stanare quella giusta.»

    «Vuoi che ti accompagni?»

    «Non penso che vorranno parlare con te: nemmeno ti conoscono. E poi, nel caso le cose non vadano come previsto, ho bisogno che tu sia libero di muoverti.»

    «D’accordo, allora ti aspetto, non vedo l’ora di rimettermi in azione», replicò Sam, incrociando le mani dietro la testa pelata, cosa che fece gonfiare i bicipiti da culturista.

    Elia lo colpì con una manata su una coscia, girò sulle ruote e se ne andò. Quando uscì nel cortile dell’ospedale, vide che il cielo era sgombro e limpido e lo considerò un buon auspicio.

    Capitolo 2: Volo d’Angelo

    20 ottobre 2010

    L’acqua cadeva violenta e obliqua.

    Gli pungeva la pelle come una rosa di spilloni che infilza un cuscino di raso. In bilico sul cornicione di un palazzo altissimo, le braccia tatuate e muscolose allargate, sollevò il viso e chiuse gli occhi per qualche secondo. Doveva trovare la giusta concentrazione per analizzare i dolorosi ricordi che ormai lo tormentavano da tempo.

    Dopo un po’, l’irritante battito della pioggia sul viso divenne persino piacevole: per qualche misterioso effetto psicologico, quel dolore momentaneo distoglieva la sua attenzione da quello che si era radicato dentro di lui.

    Riaprì gli occhi e tornò a guardare un panorama che, per quanto squallido fosse, sarebbe stato senza dubbio l’ultimo che avrebbe potuto ammirare nella sua inconcludente e inutile vita. Vista da così in alto, ogni cosa gli appariva incredibilmente minuscola e lontana. A causa della pioggia battente, le luci del centro commerciale e la sua gigantesca insegna verde e rossa sembravano lontanissime. Nel grande parcheggio dell’ipermercato, ormai pressoché deserto, il lampione solitario tingeva di giallo gli scrosci d’acqua, facendoli assomigliare alle onde del grano maturo sferzato dal vento nella campagna rumena dov’era cresciuto. Rivide sua madre negli abiti lisi da contadina, il fazzoletto in testa che tratteneva i capelli ingrigiti prima del tempo; la fatica che faceva, lei, solo lei, mentre suo padre russava nel fienile, ubriaco da far paura. Ricordò le sue mani dalla pelle ruvida quando, di sera, glie le passava sul viso per farlo addormentare. Sentì una lacrima affiorare e poi scendere giù, fra le gocce che continuavano a bagnargli il viso.

    Guardò lontano. I fari delle automobili si riflettevano sulle strade tirate a lucido dall’acqua e il balletto dei fanali e dei lampeggianti aveva qualcosa di psichedelico. Uno spettacolo così poteva vederlo solo a Torino, dal terrazzo del grattacielo dove abitava. Se si fosse trattato di una serata come tutte le altre e se lui fosse stato semplicemente affacciato alla finestra del suo appartamento, il panorama sarebbe apparso desolante. Quella, però, era una serata che con le altre non aveva nulla a che fare.

    In vita sua era riuscito a essere solamente un’incapace pedina nelle mani di persone più ignoranti e violente di lui. Se fosse stato in grado di spiegarlo, però, avrebbe detto che, ora che aveva preso quella decisione, cominciava a sentirsi sollevato, come se le cose terrene delle quali era stato schiavo e per le quali aveva commesso imperdonabili atrocità fossero finalmente diventate insignificanti.

    Alla fine dei conti, ne era valsa la pena? Aver speso tempo e vita comportandosi come un cane rabbioso che azzanna tutto quello che gli capita a tiro, era servito forse a qualcosa?

    Proprio a niente! E adesso era arrivato il momento di farla finita con tutta quella sofferenza. Ciò che lo aveva spinto sul bordo del terrazzo a guardare in giù verso la morte non era stata una folgorazione. Subito dopo aver compiuto l’ultimo, tremendo crimine, aveva cominciato a provare quell’angoscia, figlia della consapevolezza di aver oltrepassato il limite oltre il quale non si è più esseri umani e nemmeno bestie. Si deve soltanto morire.

    E dire che si era sentito diverso dagli altri, dai suoi complici… dei veri criminali! Chissà perché si era considerato così, perché aveva creduto di avere un rigore morale che lo distingueva… Cazzate. Buono, lui? No, era solo un’illusione. Ed era proprio il malessere della disillusione ad averlo portato lì quella notte, sull’orlo del cornicione, con la testa in giù, verso la morte.

    A quel gesto, però, ci era arrivato prima del previsto…

    La pioggia gli rimbalzava sul cranio calvo, poi colava lungo il viso fin dentro il collo. Aveva una vistosa cicatrice sulla guancia destra che gli ricordava cosa avesse combinato due anni prima e da un taglio sopra il naso usciva un sottile rivolo di sangue, che si diluiva e sbiadiva nelle gocce di pioggia. Il dolore per il setto nasale rotto si stava attenuando.

    Piangeva. Lacrime inarrestabili che sentiva scorrere lente e calde sulle guance. Quando era stata l’ultima volta che aveva pianto? Non lo ricordava. Forse neanche quando erano morti i suoi genitori, anni prima.

    Nel mondo della criminalità dimostrarsi sensibili era sintomo di debolezza, ma soffocare il dolore lo aveva scavato dall’interno; adesso era pieno di buchi che non riusciva più a chiudere. Da quando era montato sul cornicione non erano passati che due minuti, ma il tempo sembrò rallentare ancora, fino a fermarsi del tutto; solo un leggero tremolio delle mani tradiva la paura che provava in quel momento.

    Lassù, in cima al palazzo in cui abitava, illuminato dalla luce potentissima di un’enorme insegna pubblicitaria che rendeva candido il suo petto nudo, osservava il freddo panorama torinese senza vederlo. Ciò che invece lo colpiva era l’assoluto silenzio che lo avvolgeva. Non sentiva più nemmeno la voce dell’uomo che gli stava alle spalle. Un silenzio che amplificava i suoi pensieri fino a renderli insopportabili. L’unica soluzione per zittire definitivamente i suoi sensi di colpa era permettere a quel silenzio di entrare nella sua testa, per sempre.

    Allargò ancora una volta le braccia nella pioggia, contrasse i muscoli e gli sembrò di percepire il tatuaggio a forma di croce che gli copriva quasi tutta la schiena. Sembrava pulsare e stillare sangue, come lo avesse appena fatto. Ma che senso ha, farsi tatuare un crocifisso, quando sei un assassino? Non lo aveva fatto per il Cristo, bensì perché gli piaceva come seguiva la curvatura della colonna vertebrale e dei muscoli dorsali. Tuttavia, era un simbolo con il quale era cresciuto.

    «Gesù ti proteggerà, sempre», gli aveva detto sua madre quando lo aveva visto per la prima volta, e lui ci aveva creduto.

    Invece, dopo che lei era morta, nessuno lo aveva più protetto, nemmeno il Cristo sulla schiena; aveva imboccato le strade sbagliate una dopo l’altra, una più insensata dell’altra. Era il peso di quelle strade che si sentiva addosso, il tormento dei morti che si era lasciato dietro. Era la paura di vivere, degli incubi che lo facevano urlare di notte, era il terrore delle strade, della gente che incontrava… delle telefonate che poteva ancora ricevere.

    Strinse ancora i muscoli e il tatuaggio si ingigantì sulla sua schiena. Adesso era lui il Cristo, un Cristo in croce e, come Lui, avrebbe espiato i peccati, i suoi e anche quelli degli altri. All’improvviso si sentì pervaso da una sorta di strana serenità e si decise. Smise di contrarre i muscoli, inspirò a fondo, guardò le luci sulla città per l’ultima volta e si lasciò cadere.

    Con un movimento impercettibile si inclinò in avanti, verso il baratro. Immaginò di avere le ali e di udire ancora una volta la voce di sua madre che lo chiamava îngeraş, angioletto. Era ancora un bambino e se lei avesse saputo quello che il suo angelo aveva fatto, sarebbe morta un’altra volta, di crepacuore.

    Non urlò e nemmeno si mosse; si lasciò soltanto trasportare in basso e si sentì felice. Felice, come soltanto un îngeraş può essere.

    Chiuse gli occhi e, in una posa pressoché perfetta, precipitò a testa in giù, incontro al suo ultimo viaggio, a quell’attimo benedetto che lo avrebbe portato alla destinazione finale, alla liberazione definitiva da quel peso sul cuore. Alla redenzione assoluta. Alla pace.

    Tutti i torinesi conoscono i due palazzoni prefabbricati che stanno alla periferia nord della città, ma nessuno li ha mai chiamati con il loro nome: Torri Di Vittorio.

    Quando, pochi minuti prima delle ventidue di quella sera, il sovrintendente Diego Bal telefonò al suo superiore, si limitò a dire: «Sembra che ci sia stato un suicidio ai Grattacieli. Io sono già qua.»

    «Arrivo subito», rispose a bassa voce l’ispettore David Crespi.

    Si alzò a fatica dal divano, spostando delicatamente sua moglie, che gli si era addormentata addosso. Dormiva già da un’ora, da quando aveva preso l’ultima pastiglia della giornata, quella che le evitava una notte insonne.

    Un quarto d’ora più tardi il sovrintendente vide arrivare il collega a bordo della sua malconcia Fiat Bravo. Gli andò incontro alzando il nastro bianco e rosso per farlo entrare nella zona delimitata dalle forze dell’ordine.

    Dopo essersi salutati, restarono a lungo in silenzio.

    Diego Bal adorava chiacchierare. Era uno che sapeva tenere alto il morale anche nelle situazioni difficili, ma conosceva i rituali da protocollo del collega e decise di rispettarli.

    David Crespi cominciò a spostare lo sguardo dalla cima del palazzo, poi in basso sul cadavere e di nuovo in alto. I grandi occhi azzurri faticavano a mettere a fuoco le immagini attraverso le gocce che si fermavano sugli occhiali dalla montatura in titanio. Continuava a sfilarseli per asciugarli con un fazzoletto, poi li inforcava di nuovo, l’ombrello pieno d’acqua infilato sotto l’ascella. Era lì da pochi minuti, ma già bagnato fradicio e i radi capelli, talmente biondi da sembrare bianchi, erano incollati alla testa. Il freddo lo faceva rabbrividire.

    Cinque volanti della Squadra mobile, due ambulanze e una camionetta dei vigili del fuoco erano disposte a raggiera nel parcheggio dei Grattacieli. I lampeggianti si riflettevano sopra le superfici lucide, costringendo i presenti a socchiudere gli occhi. Non c’era molta confusione; nessuno parlava, nemmeno gli immancabili curiosi che allungavano il collo per cercare di cogliere qualche macabro particolare oltre il perimetro della scena. Il veloce calpestio dei pompieri e dei poliziotti e il frastuono della pioggia sui tetti degli automezzi erano i soli rumori udibili.

    «Che volo, eh? Quanti piani saranno?» chiese Diego Bal.

    Il sovrintendente, più robusto e più giovane di dieci anni, guardava l’ispettore dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza. Anche lui era inzuppato fino al midollo, malgrado indossasse un pesante impermeabile blu scuro con tanto di cappuccio. Non amava usare l’ombrello, anche se quella sarebbe stata la serata giusta per cominciare ad apprezzarlo.

    «Venti piani. Più o meno settanta metri», rispose David, «ecco perché l’impatto è stato così devastante, la velocità di caduta è stata pazzesca.»

    Alla fine del suo volo, l’uomo si era schiantato sul tetto di una Peugeot 3008 bianca, nuova di zecca, e l’aveva completamente distrutta. Lo spettacolo era rivoltante: il corpo era irriconoscibile; alcuni brandelli di carne erano finiti all’interno dell’auto, che sembrava fosse passata sotto uno schiacciasassi. La pioggia trasportava il sangue lungo le portiere, formando delle strane colature sbiadite. L’uomo era piombato di testa sulla vettura e il suo corpo si era disintegrato. Per la violenza dell’impatto i finestrini erano esplosi e le schegge di vetro erano state scagliate a metri di distanza.

    «Mi ricorda la passata di pomodoro che faceva mia nonna usando un setaccio d’alluminio. La poltiglia che colava nella ciotola era simile a questa», disse caustico Diego. «Chissà quanto sarà incazzato il proprietario della macchina.»

    L’ispettore provò a fissarlo attraverso le lenti gocciolanti e scosse la testa.

    «Sappiamo come si chiamava?» chiese, spostando nuovamente lo sguardo verso la cima al palazzo per celare un timido sorriso.

    Quel ragazzo gli piaceva anche per questo: riusciva a sdrammatizzare anche i momenti più drammatici. Lavoravano insieme da un anno e fin dall’inizio quello spilungone dagli occhi verdi gli aveva fatto un’ottima impressione. Era intelligente, preciso e meticoloso; un po’ fanatico per le auto, ma era un difetto che riusciva a sopportare. Oltretutto era simpatico e la cosa non guastava, anzi un po’ di ironia era un toccasana in quel mestiere.

    «I vigili del fuoco hanno cominciato a recuperare i resti e il medico legale ha già fatto il riconoscimento. Si chiamava Mario Radu, aveva ventisette anni ed era di origine rumena. Ho inserito il nominativo nel terminale e risulta che è stato arrestato un paio di volte per furto e rapina. Abitava proprio in questo palazzo, al settimo piano. Presumibilmente è saltato dalla cima dell’edificio.»

    «Viveva da solo?»

    «Ho fatto qualche domanda in giro mentre ti aspettavo e sembra di sì.»

    «Andiamo a dare un’occhiata prima all’alloggio, poi all’ultimo piano.»

    Entrarono nell’androne del palazzo; senza dire nulla, un piantone porse loro degli stivali verdi di gomma. L’interno era squallido e sporco, con scritte e graffiti sui muri. Le porte degli appartamenti erano sfregiate e le luci al neon dei corridoi o erano fulminate o lampeggiavano a intermittenza, creando un’atmosfera inquietante.

    Presero un ascensore dal colore indefinito, con le pareti ricoperte da scritte indecifrabili e disegni osceni. Parecchi tasti della pulsantiera erano rotti e del vecchio specchio rimanevano solo i quattro grossi rivetti cromati.

    Al settimo piano, quattro porte si affacciavano su un lungo corridoio. Erano tutte socchiuse, con gli inquilini

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