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Pensi a qualcosa di bello. Racconti di un medico
Pensi a qualcosa di bello. Racconti di un medico
Pensi a qualcosa di bello. Racconti di un medico
E-book208 pagine1 ora

Pensi a qualcosa di bello. Racconti di un medico

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Info su questo ebook

Una serie di entusiasmanti racconti scritti da un medico da leggere tutto d'un fiato.

Ritratti di pazienti nella quotidianità di un medico di famiglia, avventure ospedaliere di un anestesista, riflessioni e storie di un medico curioso dell'animo umano e appassionato del suo lavoro.

Una nuova galleria di personaggi "non illustri" ma assolutamente "straordinari", da conoscere, da scoprire.

Un viaggio di incontri e di ricordi, un percorso pieno d'incanto, perché tanto i ricordi quanto gli incontri di un viaggio evocano più che descrivere e lasciano dentro una forza che trascina.

Per riscoprire, con ironia e meraviglia, un'umanità in lotta con la malattia ma innamorata della vita!
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2021
ISBN9791220377553
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    Anteprima del libro

    Pensi a qualcosa di bello. Racconti di un medico - Luigi Gioia

    14 marzo 2020, Melzo.

    1. Il dottor Scannavini

    (Maestro di medicina interna)

    "Descrivere il passato,

    comprendere il presente

    e prevedere il futuro:

    questo è il compito del medico."

    (Ippocrate, 460-377 a.C.)

    Alto.

    Dinoccolato.

    Attraente.

    Brillante.

    Il dottor Scannavini: primario di medicina interna presso un piccolo ospedale alla periferia di Milano.

    Fine anni ottanta.

    Il mio praticantato per l’abilitazione professionale.

    Lo affiancai per un mese nel suo reparto.

    Voce tonante.

    Poche parole, al posto giusto.

    Un camice che avrebbe avuto bisogno di un buon restauro.

    Camicia e cravatta allentata.

    Sempre.

    Un cespuglio di capelli bianchi, ribelli.

    Un paio di occhialini sulla punta del naso.

    Occhi autoritari, pieni, sicuri.

    Abbronzatura di un uomo di campagna.

    Manone abili, decise.

    La semeiotica: la sua Bibbia.

    Come i medici di una volta.

    Pochi esami, tanta attenzione ai segni ed ai sintomi del paziente.

    Con poche cordiali parole entra in sintonia col malato.

    Sgretola il timore incusso.

    Lo ascolta con pazienza.

    Lo guida nel farsi raccontare la sua malattia.

    Osserva il volto, la lingua, gli occhi, la pelle.

    Sente il polso radiale e pedidio mentre osserva gli arti.

    Ausculta, pone le mani e tamburella le dita sul torace.

    Palpa prima delicatamente poi profondamente l’addome.

    Esegue con destrezza un Giordano, un Mc Murphy, un Blumberg.

    Manovre che ci rilevano la presenza di calcoli al rene o alla colecisti.

    O l’infiammazione dell’appendice.

    Corruga la fronte.

    Si schiarisce con un boato la voce facendo sobbalzare il paziente.

    Una strana luce negli occhi.

    Ha raggiunto un verdetto.

    Una diagnosi presunta.

    Con delicatezza condivide il suo parere col paziente.

    Gli spiega con chiarezza quale sarà il percorso.

    E lo sguardo del paziente è preoccupato ma fiducioso.

    Si sente ascoltato...

    Si sente più sicuro anche nel suo momento di debolezza.

    Sente che può farcela.

    Che potrà anche guarire.

    Si sente curato.

    Le ansie e le angosce si attenuano.

    Una luce.

    Un po’ di serenità.

    Quanto avremmo bisogno anche oggi di medici così.

    Capaci di curare.

    Grazie Dr. Scannavini per questo insegnamento.

    Mi è rimasto nella mente e nel cuore.

    "Una gran parte di quello che i medici sanno

    è insegnato loro dai malati"

    (Marcel Proust)

    5 aprile 2020, Melzo.

    2. Flaminia

    (Bellezza e demenza)

    "Una sola cosa

    non può fare

    neppure Dio:

    disfare il passato"

    (Agatone, 445-347 a.C.)

    Un pugno nello stomaco.

    Il contrasto tra la bellezza coinvolgente delle foto e la caducità del presente.

    Appese sulle pareti delle ampie scale di legno dell’antica casa padronale.

    Lussuosa, un tempo.

    Decadente, oggi.

    Occhi magnetici.

    Lineamenti perfetti.

    Le foto in bianco e nero di lei seminuda.

    Con le mani a coprire un seno prorompente.

    Erotica e regale.

    Un tuffo in un film holliwoodiano degli anni Cinquanta.

    Lo sguardo complice.

    Seducente.

    Impossibile non esserne catturato.

    Ammaliato.

    Mentre salgo lo scalone per raggiungere la sua stanza.

    In visita domiciliare.

    La fantasia vola.

    La realtà mi riporta sulla terra.

    Seduta nel letto mi guarda curiosa.

    Ultraottantenne.

    Il viso delle foto si è sfaldato.

    Un trucco pacchiano come difesa.

    Un carmiglio rossetto slabbrato.

    Oggi sono il suo medico.

    Quarant’anni fa ero un suo studente.

    O meglio: insegnava educazione fisica alle ragazze della mia classe del liceo.

    Era una persona squisita.

    Nelle sue ore ogni problema svaniva.

    Tutto era un gioco.

    Anche la sua vita.

    Ma oggi non mi riconosce.

    La sua lucidità è svanita da tempo.

    Mi domanda chi sono.

    Mi accoglie con garbo ed eleganza.

    Mi dice che sta bene.

    Mi chiede perché sono venuto a trovarla.

    Scambio uno sguardo complice con la badante.

    La sua magrezza è un segno di denutrizione, conseguenza della demenza.

    Concordo con la badante una dieta arricchita da integratori alimentari.

    Con dentro una tristezza.

    Non riesco a togliermi dalla mente la spumeggiante donna di un tempo.

    Della mia adolescenza.

    Solo il suo barboncino bianco è ancora in sintonia con la sua mente.

    Le appoggia teneramente la testa al seno.

    Se mi avvicino, ringhia.

    Come per proteggerla.

    Con una dedizione incondizionata.

    Con un affetto spropositato.

    Come solo i cani sanno fare.

    L’immagine di lei di un tempo si perde nei suoi grandi occhi nerissimi.

    Come in un portale spazio-tempo.

    Ridiscendo triste l’elegante scalone.

    La forza di quelle foto ancora mi cattura.

    Mi inumidisce gli occhi.

    Pensando alla sua giovane bellezza.

    Alla mia adolescenza.

    Che non torneranno più.

    "Ogni canzone d'amore

    Svanisce nel vento e lo sai dove va?

    Va da una donna sognata,

    Perduta per sempre

    Che non tornerà"

    (Ogni canzone d’amore, Roberto Vecchioni)

    10 aprile 2020, Melzo.

    3. Piaghe e gatti

    (Ulcere cutanee e diabete mellito)

    "Non volete parlarmi un poco della vostra vita?

    Sedete qui.

    Parlatemi di voi.

    Come avete vissuto?"

    (Francesca da Rimini Atto III Scena V, Gabriele D’Annunzio)

    Dopo tanti anni da medico ospedaliero non ero più avvezzo alle visite domiciliari.

    Ciò che accadde quel pomeriggio, nelle mie prime settimane da medico di famiglia, supera ogni immaginazione.

    L’indirizzo corrispondeva ad un palazzone fatiscente in un quartiere popolare della città.

    Un ascensore malandato, che tossiva ad ogni piano che superava a fatica, mi accompagnò davanti alla porta della signora Tecla.

    Il campanello fuori uso.

    Bussai lentamente e la porta si aprì da sola al primo tocco.

    Venga dottore, una voce stridula mi invitò ad entrare.

    Pile di scatoloni e mucchi di ogni genere di cianfrusaglie lasciavano solo uno stretto passaggio obbligato.

    Un odore acre di cose vecchie e muffa mi riempì i polmoni.

    Seguii il percorso forzato superando un paio di ampi locali fino a raggiungere la stanza.

    Non ero per niente preparato allo spettacolo che mi si presentò d’innanzi all’improvviso.

    La signora, di un’età indefinibile, mi aspettava con uno strano sorriso sulla sua carrozzina.

    Capelli grigi arruffati, da tempo dimenticati da shampi e pettini.

    Un volto pallido, emaciato, precocemente invecchiato.

    Un vecchio vestito a fiori, sporco e impolverato.

    Due gambe enormi, avvolte da bende sudicie e ingiallite.

    Gli occhi rassegnati prendevano vita solo per seguire gli spostamenti randomizzati di una dozzina di gatti randagi.

    Alcuni le leccavano avidamente le garze, altri saltavano incuranti da una pigna all’altra di panni sporchi.

    L’inferno olfattivo era nauseabondo.

    Un misto di carne marcia e urina di gatto che si spalmava come un velluto polveroso nelle mie narici.

    Con una grande stanchezza nella voce mi salutò, si scusò per il disordine e sentenziò: Dovremmo medicare le piaghe….

    Munito di guanti e mascherina iniziai lentamente a scrostarle le bende delle gambe.

    Ogni piccolo movimento le provocava un fremito di dolore.

    Un lamento profondo.

    Primordiale.

    Ciò che vidi sotto quelle garze mi impresse nella mente che la sopportazione umana non ha limiti.

    Dai ginocchi alla punta delle dita dei piedi si aprivano delle profonde piaghe ulcerate.

    L’infezione si era mangiata la cute e il grasso sottocutaneo mettendo in evidenza con chiarezza i muscoli, i tendini e, in alcuni punti, le ossa.

    Il colore era uno strano marrone, la consistenza molle e malacica.

    Risultato di anni di diabete scompensato e incuria.

    Con delicatezza iniziai a lavare il tutto con abbondante soluzione fisiologica.

    Stringendo il mio stomaco per evitare i conati.

    Poi un’ampia e accurata disinfezione dei tessuti nelle cavità con garze al betadine.

    Infine uno strato sottile di una crema stimolante la rigenerazione tessutale e la medicazione con garze pulite.

    Non era finita: si spostò a fatica sul lato per mostrarmi un’altra enorme ulcerazione che dal gluteo si approfondiva fino all’osso dell’anca.

    In quella caverna poteva entrare tutta la mia mano ed una parte dell’avambraccio.

    Stessa procedura.

    Stesse sensazioni.

    Stessi odori.

    Alla fine la prescrizione di una terapia antibiotica e antidiabetica cronica, analgesici e la promessa di attivare un ciclo di medicazioni quotidiane da parte del servizio infermieristico convenzionato.

    Perché di essere ricoverata in ospedale non ne voleva proprio sapere.

    Anche per non abbandonare i suoi gatti.

    Unici suoi compagni di vita.

    Mi ero ritrovato all’improvviso in un mondo di povertà, degrado e decadimento cognitivo.

    Ma anche di dignità, eccezionale capacità di sopportazione e di umiltà.

    Quando i suoi occhi incrociarono i miei mi sentii pervaso da un’immensa gratitudine.

    Da una straordinaria pace.

    Da una prorompente essenzialità.

    Capii che aveva un gran bisogno di parlare.

    La sua solitudine era palpabile.

    Un fiume di parole spesso incomprensibili.

    Emozionata e commossa.

    Essere ascoltata le bastava.

    Ed io mi fermai.

    In silenzio.

    Paziente.

    Avevo combattuto tante battaglie per salvare vite nelle sale operatorie ma il senso di appagamento che provai quel giorno, solo per aver lenito delle terribili ferite, solo per essermi messo in ascolto, non aveva precedenti.

    E mi esplose nel cuore la convinzione di quanto fare, o meglio, essere medico sia straordinario.

    E umano.

    Buona vita!, signora Tecla.

    12 aprile 2020, Pasqua, Melzo.

    4. Pilloli e

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