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CIM. Cento Imperfetti Mondi
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E-book307 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Eleonora minaccia i vicini con l’acido muriatico; Anna Maria, ex tossicodipendente, aggredisce chi le sta intorno; Ludovica ha sviluppato un’ossessione per la chirurgia estetica e vorrebbe rifarsi le orecchie, sebbene le sue orecchie non abbiano nessun problema apparente; Piero, poco più che ragazzo, si prostituisce; Giobatta conduce la sua guerra contro i medici del Reparto psichiatrico; infine, c’è Palma, abusata dal suocero.
E ancora le sorelle Lercari, Angiolina, Charles, Martino, Elena… Cosa hanno in comune tutte queste storie? I Cento Imperfetti Mondi sono vite differenti, accomunate dal fatto di riempire altrettante schede cliniche. Vicende reali, ricostruite… certamente verosimili. Vite, non casi.
Due autori, due stili, un unico approccio alla scrittura e alle storie. Attraverso la scelta narrativa, ai «matti», agli esclusi, agli ultimi vengono restituite sensazioni, pensieri, dignità. Giacinto Buscaglia e Franca Pezzoni, psichiatri, firmano questa raccolta di racconti, ciascuno dei quali spoglia medici e pazienti dalle loro maschere, mostrandoli per quel che sono: uomini e donne.

Giacinto Buscaglia e Franca Pezzoni, psichiatri, hanno lavorato per tutto il loro percorso professionale nei Servizi psichiatrici territoriali. Hanno scritto insieme Parlare di follia. Esperienze di vita quotidiana nella pratica psichiatrica (2006), La porpora e il nero. La forza degli uomini imperfetti (2008) e L’artiglio del grifone (2018). Giacinto Buscaglia ha scritto Il medico di Aquilia (2007), L’amore in fondo (2009), La mia Laigueglia (2015), Lumecan con M. Schiavon (2021). Franca Pezzoni ha scritto A caval donato (2007).
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2022
ISBN9788830662605
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    Anteprima del libro

    CIM. Cento Imperfetti Mondi - Giacinto Buscaglia

    Introduzione

    di Paolo Milone

    Ho lavorato con Franca Pezzoni per almeno vent’anni, non fianco a fianco, ma molto vicino, io in un reparto psichiatrico ospedaliero e lei in Salute mentale; vuol dire che lei mi affidava i pazienti acuti ed io li riaffidavo a lei non appena dimessi, e questo gioco è sempre avvenuto con chiara fiducia reciproca. Ho sempre stimato la profonda capacità professionale e umana di Franca, poi ho scoperto che era amante della letteratura latina.

    Poi ho conosciuto Giacinto Buscaglia, presentatomi da lei. È difficile immaginare una coppia di scrittori più affiatata: hanno scritto diversi romanzi, non insieme, ma un capitolo per uno. Come questo sia possibile resta per me un mistero, secondo me sono collegati telepaticamente. Anche in questa raccolta di racconti brevi troverete pezzi scritti da uno o l’altra, variamente mescolati: provate a capire chi è l’autore di un singolo pezzo. È difficilissimo, eppure è impossibile scrivere con lo stesso stile. Conoscendoli, io uso un trucco: Franca, che come me lavorava nel centro di Genova, usa ambientazioni prettamente urbane; Giacinto invece ha lavorato in un comune più piccolo, quindi, se il racconto presenta fughe in campagna, allora è suo. Almeno è più probabile. Ma anche questo metodo non funziona e i miei errori di attribuzione sono probabili. Forse alla base di questa capacità simbiotica c’è la stessa passione per il mestiere, la stessa attenzione al paziente, la stessa umanità.

    Questi racconti superano il limite che frequentemente si incontra nello scrivere di persone con una sofferenza mentale. Spesso chi scrive lo fa per dimostrare o supportare una teoria. Facilmente chi scrive di psichiatria, consapevole o no, ha una visione del mondo fortemente filtrata, limitata da una teoria, qualunque essa sia. Le teorie in psichiatria sono inevitabili perché servono a rassicurare, consolare, ma in narrativa le teorie non servono, anzi sono zavorra: si scrive di casi clinici, non di persone. In questi racconti si sente invece il piacere di raccontare le vite di personaggi senza un finale obbligato, ma imprevedibili nel loro svolgersi. Colti dalla penna nel loro essere nel mondo. Solo così la scrittura, la narrativa, non più suddita della clinica, ha il compito di dire qualcosa di imprevedibile e inaspettato.

    Questo miracolo, a mio giudizio, è ben evidenziato in due pezzi. Uno è la descrizione di una visita domiciliare in cui due operatori, davanti alla porta chiusa del paziente, ascoltano i suoi rumori e i suoi spostamenti, e su questa base discettano a lungo su cosa stia combinando e su quali siano le sue condizioni mentali; poi, ad un tratto… ma non posso anticipare la sorpresa. L’altro pezzo narra dell’accompagnamento di un paziente in una Comunità terapeutica fuori porta e racconta il suo epico scontro con un tabaccaio incontrato per strada. Puro piacere di scrivere e di leggere. È con invidia, confesso, che farei carte false per aver scritto io quei due pezzi; pagherei per comprarli e dirli miei, se potessi, ma Franca e Giacinto sono incorruttibili.

    Una giornata al mare

    Il porticciolo è in fondo al paese, in una piccola cala. Migliaia di volte ho affrontato la salita, fin da bambino, per raggiungere l’insenatura e la barca a vela monoposto dove ho imparato a navigare. In cima a una breve scalinata avevo davanti agli occhi il golfo in tutto il suo splendore. Correvo su per i gradini, con le ali ai piedi, eccitato per l’avventura che mi aspettava.

    Oggi invece ho un leggero affanno, il cuore accelera e mi devo fermare, con la scusa di ammirare un paesaggio che mi incanta sempre, ogni volta nuovo e uguale. Non posso dare la colpa a nulla, né alla fretta né al sole che splende implacabile.

    L’affanno è diventato una costante, mi accompagna ogni volta che salgo fino al porto. Devo prendere atto che il tempo è passato, che ho superato i sessant’anni e sto per andare in pensione.

    La giornata è bellissima. Seduto sul mio gozzo, guardo il mare calmo, ascolto lo sciabordio dell’acqua. Sto aspettando Ettore, mio compagno di scuola alle elementari, alle medie e al liceo. Si è trasferito in Scozia dopo l’università e ora fa l’architetto.

    In tutto questo tempo siamo sempre rimasti in contatto. Questa estate Ettore ha deciso di venire in vacanza nei luoghi della sua giovinezza e così ieri ci siamo rivisti per la prima volta dopo quarant’anni.

    Lo vedo arrivare dalla banchina, con l’andatura caracollante che aveva già da ragazzo. È vestito come il classico turista milanese: cappellino, maglietta a righe bianche e blu, ciabatte infradito, asciugamano sulle spalle. Il tempo ha fatto il suo lavoro spietato ma ha lo stesso sorriso, la stessa risata che sembra un grugnito o un brontolio.

    Ieri sera al bar sulla piazza, parlando delle nostre vite, abbiamo fatto le due di notte senza nemmeno accorgercene. È bastato un attimo per ritrovare la sintonia di allora, come se tutti gli anni passati non avessero intaccato nemmeno un poco il legame profondo di due bambini che sono diventati adulti insieme.

    Ettore sale sulla barca oscillando pericolosamente, con la goffaggine che già allora deridevo con perfidia. Seduto a poppa, accendo il motore e parto.

    «E così hai fatto lo psichiatra! Ho sempre pensato che fosse il lavoro adatto per te.»

    Ride, mentre il gozzo lascia il porticciolo e si allontana dalla costa.

    «Dici sul serio?»

    «Ma certo. Ti prendevo in giro per la tua mania di fare l’avvocato delle cause perse, sempre dalla parte dei più deboli, anche quando nessuno te lo chiedeva. Insomma non ti facevi mai gli affari tuoi e soprattutto sei sempre stato un po’ matto. Lo vuoi negare?»

    Si interrompe e guarda a bocca aperta un pesce che a pelo d’acqua segue la nostra barca. Mi piace che abbia saputo conservare la capacità di meravigliarsi.

    «Scusa, a parte le battute, mi chiedo davvero perché hai scelto un lavoro così strano.»

    «Mi sono laureato qualche mese prima di te. Ricordi? Facevamo una gara per vedere chi si laureava prima e… hai perso!»

    Ettore sbuffa e allarga le braccia, una gestualità per me nuova. Ai tempi mi avrebbe mandato a quel paese con un gesto della mano.

    «In Italia avevano appena chiuso i manicomi. La legge 180 era qualcosa che andava oltre la medicina, riguardava la politica, la società. Credo che la ragione più profonda della mia scelta sia stata questa. Sai di cosa sto parlando?»

    «Certo che so cos’è la legge 180. Se cominci a trattarmi da ignorante torno a riva.»

    Guardo la costa che si allontana, il mare a quel punto già bello profondo:

    «Prego, fai pure, tuffati e torna a riva a nuoto. Allora nuotavi piuttosto male, pensa adesso dopo decine di anni di Highlands!».

    Questa volta non ribatte e diventa improvvisamente serio:

    «Una sorella di mia moglie è ricoverata da anni in un ospedale psichiatrico a Glasgow. A te ne posso parlare. Per la nostra famiglia è stata una tragedia. Una ragazza brillante, bella, iscritta alla facoltà di Medicina. Poco prima della laurea ha avuto una crisi terribile: diceva che vedeva il diavolo, ha fratturato un braccio alla madre. Il fidanzato, bravissimo e innamorato, dopo qualche mese non ha retto e l’ha lasciata. Ora è uno zombie, pesa novanta chili. Qualche volta torna a casa in permesso, è uno strazio».

    Gira la testa e guarda il mare.

    «Ecco perché il tuo lavoro mi interessa così tanto. Ma è stato davvero un bene chiudere i manicomi? I malati di mente non sono inguaribili? Non sono pericolosi?»

    «Ho cominciato a fare lo psichiatra nei Servizi di salute mentale, sparsi nei quartieri della città e nei paesi. L’idea forte, in cui credo ancora, era che i malati dovessero restare a casa, per non fargli perdere i contatti con il loro ambiente.»

    «Quindi non hai fatto il medico in manicomio?»

    «No, ma ci sono stato molte volte prima che li chiudessero. Ci andavo per conoscere i pazienti che venivano dimessi e organizzare la loro sistemazione. Ti assicuro che non era un lavoro facile. Come spesso succede in Italia era stata fatta una legge rivoluzionaria ma senza predisporre prima le strutture necessarie.»

    «Com’era la vita là dentro?»

    «I ricoverati non avevano diritti, perdevano la capacità di prendersi cura di se stessi, diventavano passivi perché stavano in un’istituzione che ostacolava qualsiasi iniziativa personale. La loro malattia diventava cronica anche per questo. Ricorderò sempre un uomo di sessant’anni, seduto su una panca davanti a un padiglione del manicomio. Si dondolava avanti e indietro, toccava le ginocchia con la fronte e poi il muro alle sue spalle con la nuca. L’ho visto quando sono entrato per incontrare dei colleghi. Quando sono uscito due ore dopo lui era ancora lì che si dondolava. Sono rimasto sconvolto.»

    «Lavorare in quel periodo deve essere stata un’esperienza appassionante.»

    «Puoi dirlo! Dovevamo inventarci un lavoro del tutto nuovo. Seguivamo delle idee di fondo che ci guidavano ma navigavamo anche un po’ a vista, come stiamo facendo adesso su questo gozzo. Eravamo giovani, entusiasti, spesso alla prima esperienza di lavoro in psichiatria.»

    «Chi veniva ai vostri Servizi?»

    «Curavamo praticamente solo i matti, cioè i pazienti che pensavano di essere perseguitati, avevano delle idee deliranti, sentivano le voci, avevano allucinazioni, spesso perdevano il contatto con la realtà. Erano persone uscite dal manicomio oppure persone all’inizio della malattia, che non erano mai state curate prima.»

    Sentiamo il rombo di un motore. Un grosso motoscafo ci affianca e ci supera a forte velocità. Le onde colpiscono la fiancata e la barca comincia ad oscillare. Ettore impallidisce e si aggrappa al bordo dello scafo. Quando si calma proseguo:

    «Non mi è mai più capitato nella mia carriera di incontrare pazienti così strani e bizzarri ma a modo loro affascinanti. In quell’epoca andavamo spesso a casa delle persone, conoscevamo amici e parenti, vicini, medici di famiglia. Credevamo davvero nella possibilità di aiutare il paziente nel suo ambiente di vita.

    Come se non bastasse, i nostri Servizi a quei tempi seguivano anche i tossicodipendenti. Era il momento di massima diffusione dell’eroina. Abbiamo visto molti ragazzi giovani morire di overdose, qualche anno dopo di AIDS.

    Mettevamo le flebo con i farmaci per disintossicarli, correvamo il rischio di prendere l’AIDS anche noi, prima che si sapesse qualcosa della malattia, venendo a contatto con gli ambienti e le situazioni più difficili».

    Ettore sembra impressionato:

    «Che vitaccia! Non ti invidio».

    «In effetti passavamo momenti drammatici, ma per fortuna anche altri divertenti, persino esilaranti. In tutti i casi il rapporto umano con queste persone era molto intenso e spesso durava per decenni, perché avevamo a che fare con malattie molto lunghe, a volte croniche.»

    «Non capisco proprio, forse perché come architetto sono abituato a ragionare seguendo dei calcoli. Che senso aveva quello che facevate? Non c’era una tecnica, un criterio scientifico da seguire, invece di affidarsi all’improvvisazione?»

    «Tranquillo. Aspetta e vedrai. Ti devo ancora raccontare il seguito.»

    01

    Questa vicenda è accaduta prima della chiusura degli ospedali psichiatrici.

    Sono tempi bui. Per finire in manicomio basta poco. È sufficiente essere di peso per la famiglia o di ostacolo a qualche interesse economico. Peggio ancora se sei nullatenente, fragile, incapace di difenderti, se non hai santi in paradiso.

    Giovanni, povero in canna, non è un fulmine di guerra. Alla morte dei genitori è stato allevato dagli zii, che sono stufi di occuparsi gratis di un impiastro come lui.

    La giornata è un incanto. Il caldo soffocante dell’estate è alle porte, ma per ora è solo cielo azzurro e brezza di mare. Giovanni ha in mano un borsone e aspetta sulla porta di casa.

    Gli zii gli hanno detto che deve andare qualche giorno in ospedale. Lo guardano salire in ambulanza, mentre lui sorride e li saluta con la manina.

    A Giovanni piace guardare fuori dal finestrino. I prati, le case, i pali della luce, persino le nuvole nel cielo corrono all’indietro e spariscono, per essere rimpiazzati da altri prati, altre case, altri pali della luce. Vede passare una casa e prova a immaginare chi ci abita, ma non fa in tempo a pensarci che la casa è già sparita e ne arriva subito un’altra.

    Il dottore dei pazzi, così lo chiamano in tutta la regione, ne ha già accompagnati parecchi in manicomio. Oppresso dal peso, suda come un maiale, seduto a fianco dell’autista. Non sa nemmeno chi sia Giovanni. Lo vede per la prima volta adesso, mentre l’ambulanza corre verso il manicomio. Pensa alla cena che lo aspetta a casa e all’altro ricovero che farà domani. Non si fa troppe domande, deve solo mettere una firma e intascare i soldi. Ha il pregio di non essere esoso, guadagna sulla quantità.

    Ci vuole più di un’ora per arrivare a destinazione. Superato il cancello, l’ambulanza attraversa il grande parco dell’istituto e si ferma davanti all’ingresso. Il medico dei matti esce e si allontana insieme all’autista.

    Giovanni ha paura di sbagliare e aspetta che gli dicano cosa deve fare. Non arriva nessuno e comincia a pensare che si tratti di un gioco. Gli viene da ridere. Indossa un camice appeso a una gruccia, scende e cammina nel viale, osservando le rondini che si rincorrono.

    Arrivano due infermieri che gli chiedono dove sia il paziente.

    Forse Giovanni non ha capito o magari ha capito benissimo. Indica il dottore che sta telefonando da un telefono a gettone.

    All’improvviso il medico dei pazzi sente delle mani robuste che gli afferrano le braccia. Non ha il tempo di reagire e in un attimo si trova a terra.

    «Ma che diavolo…»

    Non ascoltano le sue proteste e lo tengono più forte. Sente un ago che lo punge e poco dopo perde conoscenza. Lo portano in reparto con la barella.

    SCAMBIO DI PERSONA

    02

    Il mare è come una vertigine blu che trascina in basso, oltre il verde delle fasce e i costoni di roccia. Ho il tempo di guardarlo nel suo respiro calmo fino a un orizzonte staccato di netto dal cielo senza una nuvola. Intorno danzano ulivi abbarbicati su lingue di terra divise da muri centenari fatti di pietre e di lucertole.

    Sento sbuffare Pietro, lo psicologo, mentre arranca sulla salita che ci porta alla casa di Angiolina. Resto attaccato con le unghie e con i denti alla brezza che il sole del mattino intiepidisce appena, all’odore dell’erba non ancora arsa dall’estate, al tempo sospeso di una natura indenne dalle nefandezze umane. È la casa che spunta tra i pini a riportarmi alla realtà e al motivo per cui siamo venuti in questo paradiso.

    Angiolina è una paziente che seguiamo da anni, suo malgrado uno dei pilastri su cui si fonda il nostro lavoro, se non altro perché corrisponde alle descrizioni che si leggono sui libri di psichiatria. La ringraziamo per questo, ma nello stesso tempo la malediciamo perché il filo che ci fa torcere è più duro del ferro.

    Angiolina, se si incazza, non sente ragioni. Di solito ci aspetta sul terrazzo, armata di pietre e del contenuto fetido del suo pitale. Le pietre sono armi spuntate che lancia con una certa grazia, dal basso verso l’alto, come se spandesse petali di rosa. La guerra batteriologica è tutt’altra faccenda. In una recente occasione il suo infermiere preferito ne ha subito le conseguenze, non letali come l’olio bollente medievale, ma senz’altro più pestilenziali. Pisciato, l’infermiere ha abbandonato il campo a capo chino.

    Angiolina vive con la madre in una casetta immersa nel verde, a picco sul mare, da cui si vede la Corsica, in certe mattine invernali dall’aria cristallina. La figlia sta a pianterreno, la madre al piano superiore e le incombe sulla testa, come fanno in modo impeccabile certe madri che conosciamo bene. Inutile dire che lo strategico terrazzo è un perfetto bastione di difesa contro le truppe dell’armata psichiatrica.

    Troviamo la mamma piazzata davanti al portone, con in mano un mattarello di legno massiccio.

    Pietro, già esperto del caso, mi dice all’orecchio: «È giorno di tagliatelle».

    La donna resta immobile, mentre tutto intorno è silenzio campagnolo, ovverosia un rumore assordante prodotto dal fischiare del vento, dai cani che abbaiano, dal canto di un gallo disorientato nel tempo. Non si muove, ma parla:

    «A l’è serrò a cà soa. Pruvaighe ma nu ve drove¹».

    Qualche giorno prima aveva telefonato al Servizio dicendo che la figlia era indemoniata, secondo il suo personale manuale diagnostico delle malattie mentali. Aveva provato a guarirla con l’acqua benedetta, procurata in uno dei suoi viaggi a Lourdes. Il vano tentativo si era concluso quando una delle preziose bottigliette si era infranta sul muro di cucina, a un centimetro dalla sua testa.

    Ci guardiamo sconsolati, dando un’occhiata al terrazzo, che sembra deserto. Non ci resta che suonare alla porta, sperando (sperando?) che ci apra, mentre la madre, vecchia lenza, gira i tacchi e si allontana, riparandosi al piano superiore. Vediamo il suo culone, fasciato da una gonna di tela nera, inerpicarsi sui gradini di ardesia.

    Siamo al dunque. Non ci sono alternative, dobbiamo riuscire a parlare con Angiolina, convincerla a prendere le medicine.

    Pietro bussa alla porta timidamente, due colpetti leggeri a cui non segue alcuna risposta. Lo scosto e prendo in mano il comando delle operazioni. Angiolina deve capire chi ha l’autorità: «Angiolina, ci apra. Sua madre ci ha detto che…».

    Mi arriva una gomitata nelle costole.

    «Cosa ti è saltato in testa di dire che ci ha chiamato sua madre? Non aprirà mai!»

    È vero, me ne stavo dimenticando. Pietro, che si è formato alla scuola di Palo Alto, è un fautore del concetto della madre schizofrenogena. La madre è la causa della malattia della figlia e per entrare in rapporto con Angiolina dobbiamo tenerla il più distante possibile, non nominarla nemmeno per scherzo.

    Dall’interno della casa si sentono dei rumori e Pietro mi invita a mantenere il contatto.

    «Apri, Angiolina. Vogliamo solo essere sicuri che stai bene.» Stai bene! Mi compiaccio per l’errore grammaticale, fatto di proposito per stabilire un contatto. Tratteniamo il fiato e sentiamo distintamente che i rumori si allontanano.

    «Angiolina, ci apre?»

    I rumori si fanno più forti. Sembra che stia giocando con il chiavistello della porta. Sentiamo tintinnare, raspare.

    «È l’ambivalenza» dice Pietro.

    «Cos’è?»

    «Come cos’è? È l’ambivalenza, secondo il concetto psicoanalitico del conflitto tra il desiderio e la paura. Vorrebbe aprire la porta, entrare in contatto con noi, ma nello stesso tempo ne ha paura. Per questo si avvicina e si allontana.»

    Questi psicologi ne sanno una più del diavolo. Pietro è lanciato: «In caso di ambivalenza si deve adottare una comunicazione paradossale. Lascia fare a me».

    Gonfia il petto ed esclama con voce stentorea:

    «Se non apre subito, ce ne andiamo immediatamente».

    Mi sembra una scemenza, ma non glielo dico. Pietro è suscettibile.

    La comunicazione paradossale non funziona, ma per lo meno non peggiora le cose. I segni di vita continuano, anzi, si intensificano e noi insistiamo nei nostri tentativi. Intanto il tempo passa. Cinque, dieci minuti…

    Il fracasso di vetri che vanno in frantumi ci fa sobbalzare.

    Pietro ha capito tutto: «Chiara manifestazione di rabbia, che si esprime con un agito pantoclastico. Preparati a gestire uno stato di agitazione psicomotoria». Più che altro mi preparo a darmela a gambe il più velocemente possibile.

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