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Caffè felicità
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E-book207 pagine3 ore

Caffè felicità

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Info su questo ebook

Un vecchio professore attende la sua ora seduto a un tavolo di una lurida osteria, abbandonandosi al vino e ai ricordi di una vita. Sbircia ogni tanto all’interno di quelle quattro mura, attraverso una piccola vetrina, lo sguardo vivace di un bambino, interessato alle bustine di figurine ivi esposte. Da subito il lettore è aggredito dall’evidente contrasto tra il locale e quello che sta fuori, l’esistenza che va spegnendosi da un lato e il fiorire di una giovane promessa dall’altro, due destini lanciati verso poli totalmente opposti, si direbbe, il passo stanco del vecchio professore e lo sgambettare allegro di un fanciullo gracile e intelligente, eppure le traiettorie si incontrano, magicamente, in una favola dal sapore antico. I due protagonisti di queste pagine ci raccontano di una umanità che non può dirsi mai perduta, se trova il coraggio di affrontare i propri fantasmi e guardarsi dentro con sincerità. Fabrizio Voltolini ci regala in essi uno specchio in cui rifletterci, un’occasione straordinaria per meditare su chi eravamo e chi siamo diventati e abbandonare ogni resistenza per godere appieno della bellezza della vita che ci attende. Per sorseggiare con voluttà il nostro caffè felicità.

Fabrizio Voltolini ha pubblicato:
Fragmina (silloge poetica) (Italia Letteraria, Milano 1984)
Malyn (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2009)
Il cercatore di armonie (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2011)
Hy-hoon (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2013)
Maledetto Mendelssohn (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2015)
Eduard Epstein (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2016)
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2018
ISBN9788856790177
Caffè felicità

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    Anteprima del libro

    Caffè felicità - Fabrizio Voltolini

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-9017-7

    I edizione elettronica marzo 2018

    A Giorgio Tabellini,

    immenso Amico

    "La Bellezza

    ci può trafiggere come un dolore".

    (Thomas Mann - I Buddenbrook)

    PROLOGO

    Non è buona cosa passare molte ore all’osteria a giocare a carte. Si beve per forza, e quando mi rendo conto che ho esagerato è sempre troppo tardi, capita quasi tutte le sere. Me lo diceva sempre Teresa, la mia povera giovane moglie, pace alla sua anima brontolona! Del resto non rimane che questo dopo il tramonto ed io il mio tramonto l’ho passato da un pezzo. Sarei già dovuto essere morto da tempo oramai, ma non mi decido, e poi cos’è il tempo, forse della sabbia che precipita da un vetro strozzato, qualcuno ad un certo punto capovolge l’attrezzo e tu hai chiuso, qualcun altro prenderà il mio posto al tavolo e le mie carte, fino al suo turno. Per quello che ne so, potrei anche essere già trapassato e non essermi accorto di niente, senza dolore, magari nel sonno, ed ora forse sto vivendo nello specchio di un cosmo parallelo insieme agli altri tre ubriaconi con i quali solitamente mi gioco una bottiglia o due, fumando una quantità di sigarette scadenti, senza filtro.

    Giacomo, il gestore del caffè che tutti chiamiamo Giacomino, quello sì che è morto, o almeno pare. È piccolo, pallido, piegato dalla sua spina dorsale malata in un umiliante, perenne inchino. In bocca gli mancano parecchi denti e quando parla sputacchia dappertutto. È uno schifo. Ma è buono come il pane e, se fossimo davvero in paradiso, certamente sarebbe un angelo. Chi ha mai detto che gli angeli siano accecanti di bellezza celeste? Giacomino è orribile come una macchia di vomito sul marciapiede, come quelle che ogni tanto lascio anch’io sulla via di casa, ma è buono, parla sempre a voce bassa e le bottiglie da litro le riempie sempre più del necessario. Anche il suo locale è uno schifo, in via Messer Gasparo Bertolotti, quel tale che dicono abbia inventato il violino. Sulla strada si apre una piccola vetrina con due ripiani d’alluminio; tre ceste di caramelle scartate, un poco di liquirizia in forma di omino od arrotolata come una stringa attorno ad una pallina di zucchero rosso, poi bustine di figurine con le fotografie di famosi calciatori sparpagliate a caso, nient’altro. Accanto, una porta a vetri di ferro scuro che, aprendosi, fa tintinnare una campanella, come quella che agitano i chierichetti all’elevazione durante la messa. Ma è inutile, la porta cigola da sempre sui cardini e, quando qualcuno entra, lo si sente inevitabilmente, anche per il freddo che penetra. Dalla porta si scendono quattro gradini di pietra. Il caffè non è che uno stanzone: a destra il banco e in mezzo, sul pavimento di vecchie piastrelle di cotto, cinque o sei tavoli, non li ho mai contati. Tavoli di legno sudicio, impregnato di vino, disegnato in cerchi spezzati e di sputi. Sulle pareti gialle, due calendari di anni passati da cui ci guardano belle donne fetenti, nude e felici di vederci bere da tanto lontano.

    Giacomino spunta appena da dietro il bancone, con le spallucce rachitiche e la sua testa dai capelli corti e ricci color sale e pepe. Ha il viso segnato da rughe profonde, sulla fronte e tutto intorno alla bocca. La vita deve averlo castigato, quel pover’uomo; deve essere stato uno di quelli che si augurava gli venisse un po’ di rogna sotto i piedi così, grattandosi, poteva trovare una gran soddisfazione. Prende le ordinazioni con garbo, scoprendo i suoi denti disordinati e in silenzio porta le bevande ai tavoli, su vassoi di latta impressa da una vecchia pubblicità di aperitivi. Non credo di averlo mai visto arrabbiato o semplicemente inquieto, la settimana scorsa mi ha fatto anche credito, devo ancora pagarlo. Con tutta la cagnara che facciamo dalla mattina fino a notte inoltrata, avrebbe potuto mandarci al diavolo almeno una volta, invece niente! C’è quel Lofaro, che gioca al tavolo vicino al nostro con altri del suo paese, che urla come un maiale dalle giugulari recise, quando perde anche pochi centesimi o, se vince, canta canzonette melodiche in un dialetto che non mi sono mai preoccupato di capire. Giacomino lascia fare. Ogni tanto, se non è preso dalle sue faccende, afferra uno sgabello e vi sale sopra per aprire una finestrella, protetta da due sbarre incrociate, che dà sul retro, in un cortile buio e umido. Così esce un po’ di fumo e quel fetore di caffè e vino appena infiascato che ristagna nel locale. Mi rendo conto che non è cosa da signori ma molti di questi rottami umani, me compreso, bestemmiano con accanimento e senza molta fantasia. Questo mi fa pensare che non sono ancora morto o almeno non sono esattamente in paradiso, anche se tutto sommato mi sento felice. Certo il buon Dio mi chiederà, arcigno in volto, di rispondere dei miei innumerevoli peccati, un giorno. Se avrò tempo e voglia lo confesserò al prete quando porterà l’olio santo vicino al mio letto di morte, quello bello, appartenuto al mio bisnonno garibaldino, una delle poche cose che non mi sono ancora venduto. Giacomino non approva che noi si maledica tutta la sacra famiglia ed i parenti in alto e, quanto ne sente una grossa, inarca semplicemente le sopracciglia scuotendo la testa, e continua ad asciugare calici.

    Talvolta, quando le sere invernali sono particolarmente fredde e piovose, Giacomino tollera che io ceni lì con lui. Dietro il bancone si apre una porticina che un tempo doveva essere stata dipinta di bianco. Da lì si scende ad un altro oscuro stanzone dove l’omino conserva le damigiane pronte per essere infiascate, un fornello a gas ed un tavolaccio.

    Si mangiano soltanto uova sode con il sale, qualche fetta di salame e, quando va bene, polenta abbrustolita. Per me è un lusso, perché poi mi viene una sete tremenda e così posso ricominciare a bere alla faccia della mia coscienza. È una delle rare occasioni che mi capitano di parlare con lui, anche se, in verità, parla poco e, mi pare, mal volentieri dei fatti suoi.

    Racconta episodi minimi, piccole tessere di un’esistenza che mi sforzo di collegare con quelle già ascoltate, ma sono ben lontano dall’aver anche una mezza idea di quello che è stata la sua vita. È abile invece, non certo con malizia, ad ottenere confidenze che peraltro non mi risulta faccia trapelare ad alcuno. Gli ho raccontato almeno tre volte le cose importanti della mia vita: la mia infanzia in campagna quando, come un cane sciolto, marinavo la scuola, ma riconoscevo il proprietario di un nido a trenta metri. La terribile guerra, i disumani rastrellamenti, poi, strano, l’università in una città di confine e la fatica dello studio. Gli anni di insegnamento di greco e di latino in un ginnasio di provincia e poi Teresa e di come troppo presto l’ho perduta per una bastarda malattia polmonare. E infine la nausea, la voglia di lasciarsi vivere così come viene, fino ad ora, alle scodelle di minestrone che l’ente comunale di assistenza mi elargisce meritoriamente alle dodici di ogni giorno. Faccio la fila con altri poveracci che puzzano di letame, qualcuno di orina, rosi dalle tarme dei ricordi e sono convinto che non gliene importi niente se domani è giovedì o domenica. Quasi nessuno parla o saluta, beccano il dovuto e arrivederci.

    Ho scoperto per puro caso che anche Giacomino ha moglie, o l’ha avuta. Una donna alta, non bella, ma con molte pretese. Credo che si sia vergognata di un marito mal riuscito che s’andava stropicciando ogni giorno di più. Qualcun altro mi ha detto che ha pure una figlia, alta come la madre e brutta come lui, certamente è andata a vivere altrove. Non è una gran compagnia Giacomino, non bestemmia, beve e fuma con moderazione e non sparla di clienti e di compaesani. Quanto alle donne mi sento di escludere che ce ne sia una, oltre alla fantasmatica moglie, anche prezzolata, che se la senta di farlo arrivare fin lassù. Tuttavia con lui sto bene, ho cominciato a pensare che potrebbe essere un buon amico. L’ho creduto del vino, delle femmine sudaticce dei bordelli. Tutte balle da mentecatti. Giacomino è proprio un angelo, se è di buon umore è capace anche di offrirti da bere.

    Da qualche settimana capita che la domenica pomeriggio passi nella via un bambino, avrà sette o otto anni. Si ferma davanti alla vetrina, guarda quel che c’è, sempre le stesse cose, poi si ficca le mani in tasca e se ne va di buon passo. È un bambino di quelli veri, quello lì! Porta i pantaloni grigi fino al ginocchio, calzettoni candidi e giacca blu sempre a misura. Deve per forza avere una nonna che fa la sarta, o una zia. Da queste parti non abbiamo famiglie ricche. L’ho notato un giorno che stavo calando un re di bastoni. Perdevo, come al solito.

    Il ragazzino si era fermato a guardare nella vetrina, ma non sembrava avere interesse per caramelle o liquirizie, del resto aveva denti bianchissimi e regolari. Piuttosto osservava le bustine di figurine e pareva almanaccare qualcosa tra sé. Non credo che gli altri disgraziati seduti nell’osteria ci abbiano fatto caso ma, se l’avessero osservato, avrebbero notato i suoi occhi scuri e vivaci e i capelli a spazzola rossicci. Sono perfino arrivato a pensare che, se avessi avuto la fortuna di fare in tempo ad avere un figlio, l’avrei voluto così, con quel faccino sveglio e quelle gambette dritte e magre.

    Certo era gracilino, uno di quelli che, nel campetto dei preti, sta solo a guardare gli altri che giocano al pallone o si scazzottano lordandosi i vestiti. Quanto alle figurine dei calciatori, ne sono sicuro, non le comprava perché non aveva un soldo. Mi sembra di vederlo, là nel prato vicino alla chiesa, con il libro del catechismo in tasca, uno di quei libri che rappresentano i peccati mortali come macchie d’inchiostro sul cuore e i peccati veniali come puntolini. Dopo la confessione al prete, puzzolente e miope come un geco, il cuore risplende di luce gialla, proiettata da dietro. Chissà se i preti si ricordano d’averci predicato che a forza di toccarci là, perdiamo la vista!

    Non ho mai saputo come si chiamasse quel bambino ma, in cuor mio, spero si chiami Gianni, non perché mi ricordi qualcuno, forse perché è un nome semplice, facile da appiccicare a chiunque. Anche Giacomino lo ha notato. La domenica, verso le due, pare lo aspetti. A quell’ora non siamo mai in molti nel locale, i più fortunati di noi hanno uno straccio di famiglia e fanno tardi a tavola, quegli epicurei! Talvolta siamo solo io e quel brutto angelo. Di solito leggo il giornale, quell’altro non so neppure se sappia scrivere. Gianni arriva puntuale alle due meno dieci, guarda oltre il vetro e si mangia con gli occhi qualche bustina odorosa di caolino. Poi se ne va, e mi pare sereno.

    Domenica scorsa quell’imbecille di Giacomino ha aperto la porta e lo ha chiamato dentro. Gianni è sceso dalla scaletta soltanto per due gradini, aveva certo timore e doveva essere nauseato dal fetore che impregnava l’aria dell’osteria. I bambini vanno protetti, finché si può, dalla vita; non gli si fa vedere quanto ci si può putrefare! Giacomino ha afferrato dalla vetrina un mazzetto di bustine e gliele ha regalate. Il bambino ha sorriso felice e anche noi eravamo felici. Certo non l’avremmo raccontato a quegli altri miserabili.

    CAPITOLO PRIMO

    L’avvocato Amedeo Cremonesi invitò l’anziana a sedere davanti a sé, nell’essenziale sala riunioni dello studio legale associato. Anche se questo non accadeva di frequente, riteneva infatti che essa fosse più adatta a ricevere persone di normale, se non modesta, estrazione sociale, senza doverle forzatamente sottoporre all’ingombrante e talvolta imbarazzante formalità del suo studio privato, arredato con austeri mobili antichi, ponderosi volumi di diritto e orpelli costosi come si conviene ad un affermato professionista, ancorché soltanto poco più che trentenne, che sappia abilmente e cinicamente maneggiare creative interpretazioni di leggi e vincolanti lacciuoli.

    Dalle finestre della saletta entrava la luce grigia e incerta di un mattino uguale a tutti gli altri, come sempre saturo del traffico cittadino, puzzolente di gas di scarico, rumoroso di motori e delle imprecazioni dei condannati al lavoro, prigionieri nelle loro automobili comprate a rate. La signora Prassede poggiò a terra la borsa di cartone che recava con sé e alzò timidamente lo sguardo oltre le spalle del giovane avvocato. Guardò fuori dalla finestra e vide la malinconica muraglia di un alto condominio del tutto simile alla bruttura di tutti gli altri in quel capoluogo di provincia. Ebbe un brivido pensando che dietro a quelle finestre listate d’alluminio dorato e quei balconcini tristemente ridotti a ripostigli all’aperto, si potesse nascondere la vita di famigliole che si sforzavano di essere felici comprando a debito la paccottiglia che quotidianamente rifilava la pubblicità televisiva, spacciandola come vistosa e imprescindibile necessità.

    L’anziana sembrava a disagio in quel luogo così asettico e modernamente ricercato, lineare nella sua esasperata essenzialità. Ella non sapeva trovare le parole per definire quella stanza, non era mai stata brava ad esprimere quello che le veniva in mente, neppure durante i pochi anni in cui aveva frequentato la scuola del paese ma, se solo avesse avuto un po’ più di tempo per pensarci, forse avrebbe detto che quella era una saletta arrogante, sì arrogante! Come tutte quelle cose dette o fatte con l’ipocrisia della semplicità ma in realtà fatte apposta per mettere in soggezione chi ti sta davanti. Ella era certamente abituata a vivere nell’anonimato della provincia, in poche stanze in cui esistevano e resistevano le povere cose appartenute ai genitori e, prima di loro, ai nonni e forse anche ai bisnonni. I medesimi semplici arredi, così come le abitudini, le piccole felicità e gli argomenti delle chiacchiere di sempre che ella aveva imparato a rispettare e ad amare come confortevoli e rassicuranti compagni di viaggio. Il fatto stesso di trovarsi faccia a faccia con un importante professionista, anche se come età poteva abbondantemente essere suo figlio, le procurava un acuto senso di inadeguatezza, un fastidioso disagio, ma una promessa è una promessa e, nella purezza di certe anime, diviene un obbligo a cui non ci si può sottrarre.

    L’avvocato Cremonesi aveva soltanto trentadue anni, nondimeno nell’ambiente della procura e del tribunale si era già fatto conoscere per la tempra del carattere e la totale mancanza di scrupoli nell’affrontare cause penali e civili anche di rilevanza nazionale. Sempre inappuntabile ed elegantissimo, pareva cavasse una sottile soddisfazione nel nutrire la sempre crescente fama di squalo sanguinario e di scapolo rubacuori che lo stava via via circondando. Egli era infatti persuaso che le battaglie si vincessero più agevolmente quando il proprio esercito era preceduto da cupi clangori d’armi e dal digrignare di denti di prezzolati mercenari. Eppure egli non aveva certamente origine da un ceppo famigliare di rango forense né industriale, anche lui, come molti giovani laureati, si era trasferito dal paese natio alla grande città guadagnando, negli anni fertili, visibilità professionale nelle varie discipline e molto denaro. Aspetto, questo delle proprie radici, che lo stimato avvocato si guardava bene dal rendere pubblico, anzi sembrava averlo completamente rimosso, preferendo sorvolare sull’argomento o accennare a fumose e non verificabili origini da lontane città dell’ovest. Quasi che lui e gli ambiziosi legulei che lo frequentavano considerassero disonorevole l’essere nati e cresciuti giocando a palla avvelenata o a nascondino nei vicoli ombrosi, respirando l’aria buona di un paesetto di provincia. Esibiva lussuose automobili straniere, mani assai curate, abiti scelti con gusto classico e capelli rossicci sempre in ordine. Gli stessi accessori come penne stilografiche, occhiali e persino la carta da lettera utilizzata, denunciavano la sua maniacale attenzione alle pagine patinate di certe riviste di moda. Tutto di lui si poteva dire, tranne che non fosse oltremodo elegante nel

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