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Villa Cedraia
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E-book227 pagine3 ore

Villa Cedraia

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Info su questo ebook

Una narrazione coinvolgente che trascinerà il lettore in una saga familiare affatto scontata dove a dominare sono le tensioni e le aspirazioni dei protagonisti, le descrizioni intense ed avvincenti, con panorami che riempiono gli occhi e il cuore e sentimenti a volte celati ma non per questo meno forti. La modernità irrompe, ma sulle rive del lago di fronte a villa Cedraia si respira ancora il profumo del passato.
Rocco Maria è un giovane appartenente alla borghesia che cerca la sua dimensione esistenziale facendo tesoro dei preziosi insegnamenti del nonno Alfredo, maestro liutaio che con i suoi racconti lo trasporta in un mondo fatto di bellezza, ma anche caratterizzato dalla più grande tragedia umana: la guerra. Tra perdite dolorose – un efferato omicidio - e prime esperienze amorose si dipana il filo della vita del giovane protagonista che ancora non sa se serbare rancore contro chi lo ha ferito irrimediabilmente o voltare pagina e vivere ogni attimo come fosse l’ultimo, come gli ha insegnato l’adorato nonno.
Sarà un’inattesa scoperta, rivelatrice della magia tragica che intesse le trame del vivere, a cambiare il destino del protagonista e il corso degli eventi.


Fabrizio Voltolini ha pubblicato ottenendo numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali: Fragmina (Italia Letteraria – Milano – 1984).

Per il Gruppo Editoriale Albatros il filo: Malyn (2009) – Il cercatore di armonie (2011) – Hy-hoon (2013) – Maledetto Mendelssohn (2015) – Eduard Epstein (2016) – Caffè felicità (2018) – La pietra e il sogno (2018).
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788830631120
Villa Cedraia

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    Villa Cedraia - Fabrizio Voltolini

    Fabrizio Voltolini

    Villa Cedraia

    Romanzo

    Postfazione di Flavio Casali

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2698-0

    I edizione ottobre 2020

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2020

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Villa Cedraia

    Romanzo

    Che più inverni ci abbia concesso Giove

    O questo estremo che infranto tra le opposte scogliere estenua il mare Tirreno

    Sii saggia, servi il vino

    A un orizzonte minimo riduci la speranza

    Mentre stiamo parlando è già fuggito

    Nemico il tempo

    Cogli l’istante

    Meno che puoi credendo al successivo

    Orazio, Odi (1.11)

    A

    Nerina Ghizzoni Lugli

    e Antonio Lozzia

    docenti di bellezza

    e maestri di vita

    CAPITOLO PRIMO

    Rocco Maria era ossessionato da quella musica. Pulsava nelle sue tempie come sangue forzato nelle arterie e nelle vene, quasi queste fossero incapaci di contenere l’energia scarlatta che pure è necessaria per far scorrere la vita. Quella maledetta melodia non sembrava volerlo abbandonare, pareva piuttosto aver occupato ogni area del suo cervello, durante le ore di luce, mentre se ne stava curvo e diligente a studiare ciò che famiglia e docenti del liceo gli avevano imposto, così come nel buio della sua camera, mentre caparbiamente cercava di sfuggire a quell’insopportabile assedio, talvolta abusando nascostamente di sedativi sottratti all’ansia della madre.

    Egli non poteva certamente dirsi un musicista vero, anche se in verità una partitura non aveva molti segreti per lui, tutt’al più un esperto autodidatta, nipote d’arte, a cui piaceva ascoltare tanto brani di musica colta quanto canzoni leggere e alla moda, un adolescente come tanti, con in più una bulimica curiosità per tutto ciò che attenesse ai suoni e ai metodi per ottenerli. Probabilmente, almeno così gli piaceva pensare, una passione, se non addirittura una corrosiva mania, ereditata dall’adorato nonno paterno, macchinista delle regie ferrovie di giorno, e apprezzato liutaio di notte.

    «Ogni strumento è una voce, mio caro Toffee» soleva spiegare il vecchio rivolgendosi al piccolo con quel delizioso nomignolo e con il suo tono bonario e profondo. Bronchi in evidente debito con i troppi sigari perennemente lasciati consumare nell’angolo della bocca grinzosa, o forse con i gradevoli e tuttavia venefici effluvi di resine, colle e vernici che con colorato disordine occupavano il tavolaccio da falegname sistemato nel grande scantinato di villa Cedraia. Una sorta di misterioso stanzone che, agli occhi infantili di Rocco Maria, pareva il magico laboratorio di un incantatore, illuminato solo dal cono di luce della lampada che pendeva dal soffitto fino quasi a toccare lo spazio di lavoro del nonno Alfredo.

    «La luce deve essere forte, nitida e limpida come la voce delle tavole che sto assemblando» amava spiegare al curioso nipote, conteso tra il desiderio dei giochi solitari all’aria aperta nel grande giardino che dolcemente scivolava fino al lago, e l’insostenibile fascino di quell’antro dei sortilegi.

    «Vedi Rocco? I miei occhi sono ormai malati di vecchiaia, ma anche forse di saggezza. La luce generosa fa sì che il taglio dei legni possa essere perfetto, e inoltre servono acero rosso e abete di prima scelta, mano ferma e una mente serena, sgombra da rabbia e preoccupazioni. Da questo lavoro sgorgherà armonia, se io fossi arrabbiato o astioso, il legno assorbirebbe i miei sentimenti e allora non sarebbe più in grado di produrre quella musica squisita che solo i grandi maestri riescono a suonare».

    «Ma nonno» soleva interrogare il piccolo con voce sottile e gioiosa «anche tu suoni benissimo, ti ho sentito tante volte suonare il violoncello, tu non sei un maestro?»

    Il vecchio Alfredo pareva contento di poter rispondere a quella domanda ricorrente che, se pur velatamente, andava vellicando la sua vanità. «No, Toffee, non sono un maestro, ma la musica è il mio sangue e il mio respiro, è la mia vita. La musica ha salvato il Creato: senza di lei, il mondo intero sarebbe stato un completo disastro, un fallimento!»

    Rocco non comprendeva. Don Ferdinando, al catechismo domenicale, con una disgustosa saliva spumosa e biancastra addensata negli angoli della bocca, andava cianciando di meraviglia, di giustizia, di gioia e di amore. Secondo lui sarebbe bastato volgere lo sguardo tutto attorno, e il Creato avrebbe manifestato tutta la sua accecante bellezza. Allora perché nonno Alfredo diceva queste cose? Egli, probabilmente, dopo aver conosciuto l’orrendo macello della guerra, non se la sentiva di stare a sentire le prediche dei preti. Talvolta, soprattutto nei bui dopo cena invernali, raccontava esperienze di paura, fatica, morte di amici, ma esitava, sembrava lo facesse malvolentieri, narrava come se stesse ricordando sogni maligni, incubi notturni destinati a dissolversi con le prime luci del giorno. Taceva dei brandelli di carne degli amici che gli erano schizzati addosso per l’esplosione di una granata austroungarica, taceva della disperata rassegnazione all’orrore, della speranza di essere colpiti da una pallottola nemica per fermare un incubo da cui credeva non sarebbe mai uscito. Rocco Maria le ascoltava come fossero storie inventate, con un immancabile lieto fine, una sorta di film come quelli che vedeva all’oratorio, dove gli attori fingevano ogni azione, anche il morire trafitti da una freccia indiana, per poi rialzarsi tranquillamente alla fine della ripresa.

    Tuttavia, proprio da queste esperienze di trincea gli derivava paradossalmente il suo amore per la liuteria e per il violoncello in particolare.

    Il richiamo alle armi, per una guerra che al caro prezzo di tanto giovane sangue avrebbe dovuto redimere alcune province del Nord-Est e riportare le Alpi al loro ruolo di confine naturale con i crucchi, era arrivato, atteso e temuto, consegnato in un mattino di pallido sole dal signor Albertino, il portalettere che, contrariamente al vezzeggiativo che lo distingueva, si portava in giro, in una grigia divisa troppo stretta, una mole di molto superiore al quintale per un’imponente altezza di quasi due metri. Egli sapeva che in quei giorni andava recapitando avvisi di morte, e lo faceva con sincero rincrescimento, quasi si sentisse egli stesso responsabile del prossimo addio a una madre, a una moglie, ai figli piccoli che probabilmente sarebbero cresciuti orfani. Tuttavia, insieme al genuino dispiacere di separare solidi affetti e antichi legami, egli percepiva anche la colpevole tranquillità di essere al riparo da queste tragedie, grazie a quei pochi centimetri che facevano delle sue gambe una coppia dispari, dettaglio che tra i paesani gli aveva guadagnato il poco generoso nomignolo di metronomo, a causa del suo evidente e ritmato claudicare.

    L’Alfredo aveva allora circa vent’anni, alto, robusto, bello e benestante da far invidia ai più, con un dignitoso impiego nelle regie ferrovie e una raffinata melomania nutrita con assidue frequentazioni alle piccionaie del Teatro Grande del capoluogo. Da dove originasse questa sua passione per la lirica non era affatto chiaro, forse il nonno Angelo, anche lui ferroviere, gli aveva trasmesso, oltre la fascinazione per i treni, anche l’inclinazione alla musica, essendo egli stesso il primo ottone nella modesta banda cittadina del paese. O forse ancora, l’eco del canto della madre, mentre la ricordava intenta alle faccende domestiche, lo aveva incantato e rasserenato nei momenti di malinconia adolescenziale. Non era dunque dato sapere da dove provenisse questo suo evidente talento, fatto sta che, piuttosto di frequentare osterie o i primi cinematografi che stavano ipnotizzando le folle, egli preferisse salire con quattro vecchi amici sulla corriera azzurra che li avrebbe portati al capoluogo, fino al primo gradino della breve scalinata che conduceva dentro la vellutata magia dei matinée del Teatro Grande. Come ogni loggionista che si rispetti, anche il giovane Alfredo conosceva a memoria un gran numero di opere liriche, soprattutto degli autori italiani che prediligeva e, pertanto, i trenta e passa chilometri percorsi per ritornare al paese e le bevute con i compari, a conclusione della giornata, erano dedicati ad accese discussioni circa le qualità o la mediocrità degli interpreti e dei musicisti e, non di rado, l’accalorarsi delle diversità delle opinioni dava luogo a malumori e litigi. E tutto questo sarebbe andato avanti per chissà quanto altro tempo della loro scapigliata gioventù, se non che, si mise di traverso l’attentato omicida all’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono austro ungarico, perpetrato da tal Gavrilo Princip a Sarajevo il 28 giugno del 1914, fattaccio che, tra tentennamenti dettati da opportunità politiche e improvvisi incendi patriottici, trascinò l’intera combriccola di amici melomani nel gelido fango pidocchioso e mortale delle trincee giuliane. Tre di loro, il Giovanni, il Sergio e il Vincenzo, rimasero sul terreno, taluno falciato insieme a molti altri da una sventagliata di mitragliatrice, altri sgozzati da baionette nemiche perché impigliati nella ragnatela dei fili spinati che difendevano le trincee avversarie. Generosamente ricompensati dalla patria, certamente, con una monumentale sepoltura a Redipuglia, insieme ad altri centomila commilitoni che forse avrebbero preferito l’anonimato di un mungitore di mucche in una cascina sperduta nelle nebbie padane o di un transumante abruzzese. Soltanto il Bigio e l’Alfredo trovarono miglior sorte e fecero ritorno a casa che pesavano la metà.

    Il Bigio, più basso e mingherlino, fu assegnato alla fanteria e sopravvisse fortunosamente ai testardi e reiterati scontri frontali sull’Isonzo voluti da quell’ineffabile stratega del generale Cadorna. L’Alfredo, grazie alla sua prestanza fisica, venne fatto alpino conduttore di muli, miti bestie con le quali facilmente poté fraternizzare, più che con gli arroganti ufficiali, buoni solo a comandare di uscire, storditi dalla grappa, dalle trincee per assaltare le linee nemiche difese da terribili nidi di mitragliatrici.

    Evidentemente le comuni difficoltà generate dalla pura sopravvivenza, dal terrore della morte, dalla malinconia di casa, dall’insopportabile freddo e dalle malattie da denutrizione poterono cementare, tra i sopravvissuti agli stenti, un’amicizia solida e duratura.

    Fu così che in una gelida notte di luna calante, Alfredo si ritrovò a fasciare stretta, con un lurido strappo di stoffa, una profonda ferita da fucilata alla gamba destra di un sergente maggiore, tal Bartolomeo Guarneri da Cremona.

    «Mi hai salvato la vita, soldato. Hai rischiato la tua per venirmi a prendere in quella maledetta buca in cui mi ero rifugiato, sarei morto dissanguato senza il tuo coraggio. Che ne è stato del crucco che mi ha sparato?» disse lamentandosi per il dolore in mezzo a mille altri gemiti di soldati rientrati in trincea dopo l’ultimo inutile assalto.

    «Credo sia morto…»

    «Lo hai ammazzato tu, vero? Non ho visto, ma ho sentito un colpo partire dal tuo novantuno».

    «A volte si è costretti a fare cose che ripugnano» disse a mezza voce l’Alfredo senza togliere gli occhi dalla ferita che stava medicando alla meno peggio, e cercò di cambiar presto discorso, continuò: «Per fortuna la palla vi ha attraversato la gamba senza rompere l’osso o grossi vasi, ma ha comunque perso molto sangue, accidenti!».

    «Da dove vieni, alpino?» domandò questi con un difficoltoso sorriso di gratitudine e lamentandosi ancora per il feroce dolore.

    «Dal lago di Garda, signor sergente maggiore, là c’è un golfo che è un paradiso in terra».

    «Conosco quei luoghi, lì è nato e vissuto un uomo che, a tutti gli effetti, posso considerare come il papà del mio lavoro».

    «Scusate signore, ma non capisco. Cosa intendete dire?»

    «Non hai mai sentito parlare di messer Gasparo Bertolotti?»

    «Certamente» rispose l’Alfredo stringendo la fasciatura. «È considerato l’inventore del violino, lo sanno tutti».

    «Amico mio, qualcuno nella mia città potrebbe offendersi. A Cremona circola soltanto il nome di Nicolò Amati, è una bella contesa, una bega secolare direi. Ma lasciamo perdere. Vedi, soldato, io prima di trovarmi mio malgrado coinvolto in questa merda di guerra, facevo il liutaio, costruivo strumenti a corda insomma, legni armonici dal suono stupefacente».

    Alfredo annodò la lunga cordicella dell’improbabile fasciatura e sedette nel fango rappreso dal gelo accanto al sottoufficiale, domandò con gli occhi che gli brillavano di gioiosa curiosità «Voi fabbricavate violini?»

    Il Guarneri parve imbarazzato, forse non amava parlare di sé e magnificare il proprio prezioso artigianato né la nobile discendenza, forse neppure pensava che il ragazzotto che lo stava medicando capisse qualcosa di quanto stava per spiegare e credeva che questi stesse ad ascoltarlo solo per piaggeria da sottoposto, disse comunque: «Sembra che la cosa ti interessi, non credevo, è un lavoro talmente strano il mio! Sì, costruivo anche viole ma soprattutto violoncelli. La mia è una famiglia di liutai da quasi tre secoli, e a me è stato perfino imposto il nome del capostipite: Bartolomeo Giuseppe. Il mio antenato veniva chiamato del Gesù perché firmava i suoi strumenti con la sigla IHS. Ah, se solo quello stesso Gesù vedesse ora come siamo ridotti!»

    «Che notizia, signor sergente maggiore!» sbottò il giovane Alfredo che pareva essersi improvvisamente dimenticato della sudicia situazione in cui il destino l’aveva costretto. «Io sono malato di musica, di musica lirica intendo, non quella che trasmettono alla radio al giorno d’oggi, sembrano tutte gallinelle alla cova. No, io adoro il bel canto e la musica che sgorga dalla buca dell’orchestra, quell’insieme temibile di voci e suoni che il direttore deve domare e condurre. Oh, signor Guarneri, voi siete dunque un artefice di quelle magie!»

    Il sergente minimizzò: «Senti soldato, trovami per piacere l’alpino infermiere in mezzo a tutti questi altri disgraziati, e vedi se ha una pastiglia per lenire almeno un poco questo dolore, maledette pallottole crucche!».

    «Vedo quello che posso fare». E sgattaiolò svelto nel buio, al riparo della trincea, fino alla baracca interrata dove a turno cercavano di dormire alcuni sottoufficiali e gli infermieri, ma non trovò alcuno, erano tutti impegnati a recare cure e conforto ai numerosi feriti di quella notte. Si mosse fino a che intravide e riconobbe nel buio una piccola croce rossa in campo bianco sulla manica di un commilitone. Dopo circa una mezz’ora tornò dal Guarneri: «Ci hai messo un sacco di tempo, ragazzo». Lo rimproverò bonariamente. Rispose l’Alfredo: «Vi ho portato anche un paio di bustine di cordiale, ho dovuto barattare il tutto con un pacchetto di sigarette».

    «Grazie soldato, forse verrà un giorno in cui potrò sdebitarmi per il tuo atto di coraggio e ricambiare il tuo aiuto, magari fuori da questa merda!».

    «Certo, signor sergente maggiore». L’Alfredo sorrise. «Ho già una mezza idea in proposito».

    Il sergente maggiore Guarneri si era presto addormentato profondamente seduto sul fondo gelato della trincea, la schiena appoggiata al fango indurito della parete, vinto dal farmaco che l’Alfredo gli aveva procurato. Nella mano sinistra un fogliaccio appallottolato gli cadde dalla presa vitale. Alfredo lo raccolse, dopo mille esitazioni lo aprì e lesse: «Cara moglie, adorati figli, venerata madre, sono gravemente ferito, ho una gamba maciullata da un colpo nemico. Tra poco qualcuno dei miei compagni forse mi verrà a prendere, altrimenti sarà tutto finito. Ma il mio unico e ultimo pensiero è per voi, nella mente, nel cuore e in questa breve lettera che troveranno nella mia tasca».

    Era la stagione delle castagne bollite, dei primi brevi sorsi di vino giovane concessi dai sorridenti genitori, e dell’odore avvolgente della stufa a legna che sapeva scaldare le membra e i cuori.

    Nonno Alfredo sedeva sempre a capotavola nella grande cucina di villa Cedraia, ma lo faceva con la mite autorevolezza del saggio, non con l’arroganza del vecchio capostipite a cui tutto è dovuto per diritto di casta. Egli era un uomo robusto, dal portamento nobile ed elegante, ma nondimeno poco incline alle maniere affettate e ipocrite di certi benestanti e benpensanti del paese. Schivo di carattere con gli estranei, appariva invece assai affabile e generoso con i propri famigliari, soprattutto con il prediletto nipotino Rocco, nel quale egli aveva intravisto la prosecuzione della propria linfa vitale. Poco gli importava che la gente gli avesse affibbiato il nomignolo di orso. Sarà forse stato per il suo modo di fare apparentemente ruvido, o la corporatura ingombrante, o ancora la sua scarsa predisposizione a frequentare le fumose bettole del borgo, certo è che l’Alfredo faceva ben poco per apparire simpatico ai compaesani. A lui bastava andare al lavoro di buon’ora, fare con coscienza, per fedeltà al Re, quello per cui era pagato alla fine di ogni settimana e infine tornare sobrio al cancello di villa Cedraia, non come quelle anime perse e sghembe, clienti abituali dell’osteria dell’orologio, che ad ogni imbrunire gli capitava di incontrare per le vie.

    Casa era per lui una sorta di parola magica, una certezza che sapeva scaldargli l’anima.

    Villa Cedraia.

    Entrandovi, essa sembrava avere da sola qualcosa da raccontare. Non era soltanto un armonico insieme di robusti muri ortogonali, ma la solida e concreta testimone della faticosa storia dei suoi antenati, della propria e, verosimilmente, del prossimo futuro del piccolo Rocco Maria. Vi aveva abitato da sempre, e lì, nei primi anni trenta del Novecento, aveva portato a vivere con sé la giovane moglie Maria, il cui nome sarebbe stato poi imposto al nipote che ella, morendo prematuramente, non aveva mai avuto modo di conoscere. Quelle stanze avevano protetto amore e tanta, tantissima musica. La nonna Maria poteva infatti dirsi

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