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Vite al macello
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E-book497 pagine6 ore

Vite al macello

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Vite al macello è un romanzo ambientato nella provincia matta e disperatissima di Torino; al centro della vicenda, l’amore turbolento tra M. e F., finito malamente dopo quarantacinque anni di matrimonio. Con un linguaggio dissacrante, ironico e politicamente scorretto, ci si addentra nelle dinamiche di una “classica” famiglia di commercianti: il fervore religioso di F., le risse nel retro di una macelleria, gli esorcismi sulle due figlie e infine il divorzio, con le conseguenti ripicche e vendette. E naturalmente ci sono i loro tre figli, spettatori di quell’amabile circo, indecisi se scappare via o farci su un business. “Nelle case non c’è niente di buono, diceva Céline, ma c’è anche qualcosa di profondamente tragicomico che sarebbe un peccato tacere, almeno in questo caso.
 
LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2022
ISBN9788832814576
Vite al macello

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    Anteprima del libro

    Vite al macello - Anzaldo Giovanni

    1.

    2019 – A un abisso dalla felicità

    M.

    «Sappi che tua madre è una gran puttana».

    Stavo ancora masticando il pezzo di cinghiale che non era riuscito a finire e mi affrettavo a buttarlo giù con l’ultimo goccio di rosso. Quello stronzo beveva come Ali schivava i pugni.

    «Una gran puttana».

    Temeva non mi fosse arrivato il messaggio. È sempre stato scrupoloso, mio padre.

    Il cameriere intanto si avvicinava per togliere la pila di piatti vuoti e l’insultatore seriale di madri ne approfittava per chiedere un bicchiere di prosecco che, dopo il litro di rosso, toglieva ogni dubbio sul fatto che non fosse un sommelier. Avrei voluto fare segno al cameriere e dirgli di annacquare il vino perché tanto non se ne sarebbe accorto; più che farlo per la sua salute, lo facevo per la mia. Quando era ubriaco il suo occhio diventava bovino e dalla sua bocca uscivano frasi sconnesse in cui le parole madre e troia erano le più chiare e ricorrenti.

    A trent’anni, che tu abbia un figlio o no, poco conta: diventi padre. Padre di pargoletti nuovi di zecca o di genitori colpiti da sindrome da rincoglionimento precoce. Mio padre per dire la sua età diceva sei-sei, non so perché, forse dire sessantasei gli sembrava troppo, o forse si aspettava che qualcuno aggiungesse un altro sei e lo proclamasse l’anticristo, cosa che quando era sbronzo non era così difficile da immaginare.

    Un anno fa, quando ne aveva sei-cinque la sua vita è precipitata in un baratro senza fondo. Mia madre, che adesso è la troia o la zoccola, era semplicemente sua moglie, e così era stato all’incirca per quarantacinque anni. Solo che poi si era innamorata di un suo amico di infanzia, tale Domenico, che quando era una bambina piccola e grassa le aveva detto: «Ti amo» e siccome nessuno, quando era piccola e grassa e viveva in Sicilia, le aveva mai detto ti amo, decise bene di fare come quelle bombe che vengono fatte brillare dopo sessant’anni e che costringono un intero quartiere ad abbandonare le proprie abitazioni in una domenica mattina. Insomma, quando si è accorta che, a conti fatti, di ti amo da quella prima volta ne aveva ricevuti un paio, ha deciso di prendere l’armatura, scappare dal drago, montare a cavallo, svegliare il suo principe settantenne addormentato ed esplodere. Da qui si evince che le favole, in famiglia, le abbiamo sempre interpretate un po’ a piacere.

    Così, dopo questa improvvisa rivalsa femminile, mio padre si è ritrovato single e in affitto. Come l’utero.

    Da lì è iniziata la fase discendente di quelli che erano i miei genitori e che ora sono i miei figli. Mia madre ha iniziato a trasformarsi in Avril Lavigne, con un tripudio di post romantici su Facebook e tinte ai capelli; mio padre invece è regredito alla pubertà, ovvero a quando pagava per le sue prime esperienze sessuali. Come se non bastasse, sono costretto a sorbirmi le sue lamentele sul carovita e sull’inflazione che, pare, abbia influito pure sul giro della prostituzione, rispetto ai magnifici tempi delle lire.

    Queste cose me le dice mentre sto mangiando. Mi parla di pompini e di disperate disposte a farglieli, e quando io reagisco con disgusto sembra non capire. Il mio disgusto sta nell’immaginarmi il suo pisello flaccido, mentre quella poveraccia sotto di lui cerca di compiere il miracolo, il tutto condito dallo stufato di cinghiale.

    «Prendili i piselli, a me non vanno».

    «No, grazie, non vanno neanche a me».

    «Che è? Perché fai quella faccia?».

    «Perché mi fa schifo pa’…».

    «I piselli?».

    «Non i piselli. Cioè sì, il tuo. Il tuo pisello».

    «E meno male che ti fa schifo…».

    «Vabbè, lascia perdere».

    «Che fai lo schizzinoso? I pompini a te non te li fanno?».

    «Ma che c’entra».

    «Sembra che i pompini non te li fanno. Che c’è da fare quella faccia?».

    «Lascia stare, dai».

    «È un peccato lasciarli lì…».

    «Sono pieno».

    Oltre a essere diventato il padre di mio padre, ovvero mio nonno, a volte incarno anche la figura dell’amico noioso del camionista (mio padre); io questo amico me lo immagino intento a cercare annunci porno per il socio alla guida e a fare da navigatore con lo stradario in mano. Peccato che il camionista, in questo preciso istante, sia ubriaco e non segua neanche una delle mie indicazioni. Credo comunque voglia andare in Slovacchia, lo deduco da come rilancia la conversazione:

    «Ci sono un sacco di slovacche giovani che si mettono con dei sessantenni».

    «Perché sono ricchi, papà».

    «No, no».

    «Non hai la benché minima speranza di metterti con una slovacca giovane».

    «Ho ancora qualche cartuccia, che ti credi…».

    «Sparala a casa, non vorrei ferissi qualcuno».

    «Mica sono come te, io le cartucce non me le sparo da solo».

    Quest’ultima battuta la urla, impugnando la forchetta come il microfono di uno stand up comedian. Qualcuno si gira. In molti ridono. Una ragazza lo guarda, lui ricambia ammiccante, poi mi strizza l’occhio come a conferma della sua tesi, come se quella ragazza mora e italianissima fosse slovacca e lo desideri ardentemente.

    Ho paura. Quando mio padre incontra lo sguardo di una donna ho paura. Faccio finta di niente e chiedo il conto.

    «Ci facciamo una grappa?».

    «No, dai».

    «E che cazzo sei diventato? Un monaco?».

    «Non mi piace la grappa».

    «Stai diventando frocio allora?».

    «No papà».

    Il cameriere porta lo scontrino: quarantacinque euro. Mio padre legge quattro-cinque. Gli anni che passano e il conto del ristorante sono le cose che più lo spaventano.

    Ci guardiamo fissi negli occhi, in silenzio. Almeno in questi momenti non mi parla di figa, credo sia perché in simili situazioni non gli diventa duro.

    «Lo sai che mi hanno abbassato la pensione?».

    Il pezzo di merda vuole che sia io a pagare.

    Mi metto al posto di guida e lo riporto a casa, quella in affitto.

    La casa di mio padre – che d’ora in poi per comodità e riservatezza chiameremo emme puntato, come le città dei romanzi russi – è un bilocale di una cinquantina di metri quadri, ubicato in una provincia dormitorio del torinese: Orbassano. Nessuna comodità e riservatezza. Per amore di querela, d’ora in poi Orbassano sarà sempre Orbassano. In posti del genere ci capiti solo se ti sei perso o se stai cercando un luogo triste per morire. Tu pensi che siano scherzi macabri di Google Maps, località amene dai nomi strani e originalissimi come: Tetti Francesi, Pasta, Macello, Candiolo, Dojrone. Nomi che solo a pronunciarli diventi un po’ più triste. Invece no, esistono davvero e sono abitati da presenze umane. È evidente che in quei posti ci capiti solo se sei senza fissa dimora e devi scontare gli arresti domiciliari a casa di uno zio pregiudicato, oppure se hai deciso che la civiltà, il buon senso, la voglia di vivere non fanno per te.

    Orbassano si presenta con una rotonda enorme piena di inutili decorazioni floreali – vano tentativo dell’amministrazione comunale di dare un minimo di dignità a quel posto dimenticato da dio – che è un po’ come profumare un morto, dipingere un bidone della spazzatura per renderlo meno bidone o suonare una trombettina di carnevale durante un funerale, così, tanto per tirare su gli animi. Oltre alle decorazioni, l’amministrazione ha pensato bene di installare una scritta che ricorda quella di Hollywood. Non su una montagna, ma sulla rotonda. Una serie di caratteri luminosi che se ci passi di notte si legge così: Benvenuti a… ano. Orbass al buio non si vede, amaro scherzo del destino.

    Dunque, la casa di M. è vicino alla rotonda con l’ano e da qui ne deduco che mio padre ha una fissa per le rotatorie dato che la casa precedente, quella in cui io e le mie sorelle siamo cresciuti, era esattamente di fronte a una rotonda, ma così vicina che volendo avremmo potuto aprire un McDrive e capitalizzare le orribili scelte immobiliari dei nostri genitori.

    La casa di M. sa di pino silvestre e vernice ed è incredibilmente pulita. Come tutti i serial killer M., infatti, nasconde un lato perfezionista. Appena arriviamo mi chiede se gli giro una canna, da qualche tempo ha iniziato a fumare, credo sia sempre per la storia di mia madre. Se fossi il figlio di Mick Jagger prenderei tutto con un altro spirito, tuttavia M., che purtroppo non sta per Mick, non ha scritto Paint It Black, ma ha aperto una macelleria ad Airasca, una di quelle periferie di cui sopra.

    «Me l’ha data la mia amica turca».

    «Ah».

    «Me ne giri due o tre?».

    «Addirittura…».

    «Io non le so fare».

    Non ho dubbi a crederlo, le dita di M. non sono prensili, credo che l’evoluzione, con lui, abbia avuto qualche cortocircuito.

    «Chi è la tua amica turca?».

    «Quella che vive a Milano, la lesbica».

    «La lesbica?».

    «No lesbica… come si dice… vuole sempre fottere».

    «Ninfomane».

    «Come?».

    «Ninfomane».

    «Niffomane».

    «NiNfomane».

    «E che ho detto io?».

    «Non hai messo la enne».

    «Niffomane, l’ho messa la enne».

    «Ma sì, infatti».

    Lascio perdere. Conviene sempre lasciar perdere. O lo ammazzi o lasci perdere.

    Gli do la canna, se l’accende, poi aspira per una decina di secondi e dalla sua bocca esce la fumata bianca del papa. Me la ripassa per poi abbandonarsi sul divano a una specie di estasi mistica o overdose, non saprei. Mio padre è la rockstar dei macelli. Ognuno ha il palco che si merita. Lascio spegnere la canna nel posacenere, mi volto e già russa. Non ha mai smesso di russare. Le ha tentate tutte, ma non è mai servito. Smettere di russare è come cercare di smettere di fumare, cambiare il karma, risorgere. Ci sono cose nella vita che è impossibile modificare, una sorta di marchio di fabbrica che anche dopo innumerevoli lavaggi o riverniciature non riesci a mandare via. E allora te le tieni e cerchi di non farle troppo vedere. Oppure trovi qualche feticista delle cose brutte che hai e cerchi di non lasciarlo più andare via. Mia madre per esempio diceva che non lo sentiva russare.

    «Papà non russa».

    «Ma che cazzo dici, mamma. Stanotte sembrava stessero buttando giù la parete a calci. Io non so come diavolo possa uscire un suono così dalla bocca di un uomo».

    «A me rilassa».

    «Dove sei stata concepita, in un rave?».

    «Un?».

    «Ciao mamma. Esco».

    Credo fosse l’unica persona in grado di poter dormire vicino a quel campionatore di suoni orribili. L’amore è così, quando c’è non ti accorgi del casino che ti fanno accanto, poi a un certo punto, krrr krrr, quel rumore lo senti e ti chiedi come sia stato possibile resistere così a lungo. Improvvisamente noti il naso troppo grosso, quella saliva che parte ogni volta che si pronuncia la effe, la forfora sulla maglietta, la bava sul cuscino. Di fronte a te hai un essere umano, in tutto il suo schifo.

    Ora M. è un uomo solo che russa e in casa non c’è più nessuno disposto a farglielo notare o a negarlo platealmente. Lo lascio lì con quella bocca tremolante che si apre e si chiude e mi faccio un giro nell’appartamento al mentolo; è ancora vuoto, tranne per alcune foto mie e delle mie sorelle attaccate alle pareti con inclinature bizzarre. C’è anche uno scatto di M. un po’ più giovane dove siamo tutti e tre, io avrò avuto due anni, sono un ciccione con gli occhi fuori dalle orbite e non ho la più pallida idea di dove mi trovi, mentre le mie sorelle mi stringono contente e sanno con certezza che quell’albero dietro di noi – quello che ora è stato tagliato – appartiene alla casa di Lido di Dante, residenza estiva della famiglia A. (anche qui c’è della riservatezza, ma credo sia inutile). Nella foto, M. ha un braccio amputato, non credo si tratti di una ferita di guerra, anche perché non me lo vedo mio padre con una granata in mano disposto a morire per la patria, penso più che altro sia stata brutalmente tagliata la persona che in quel momento stava abbracciando.

    Sicuramente in quella foto sorrideva anche mia madre, e tutto avrebbe pensato tranne che quel sorriso sarebbe poi finito nel cestino dell’umido tra un guscio d’uovo, un osso e un pezzo di plastica – mio padre la raccolta differenziata non riesce a concepirla. Intanto, dal divano, il rumore del motore di un Boeing 707 continua imperterrito e io penso che quello è stato il suono della mia infanzia. Guardare questa fotografia tagliata, in compagnia di questo rumore così familiare, mi riempie di una strana malinconia. Siamo mai stati felici? A giudicare da quei sorrisi direi di sì, ma non è forse anche vero che nelle foto si deve sorridere per forza?

    Mi focalizzo su quel bambino ciccione che stringono le mie sorelle, sulla sua faccia meravigliata, allibita, confusa e mi chiedo se non è forse quella l’espressione più sincera. Nasciamo per decisione di altri e ci dicono che in fondo è quella la vita che abbiamo sempre desiderato e che meritiamo. E allora si sorride. Nelle foto con gli amici, con la famiglia. Sorridiamo. Forse solo a due anni ci è concesso questo legittimo dubbio, questa espressione allibita.

    Dove sono? Chi sono queste vicino a me? E chi sono quei due che si abbracciano e che sembrano essere i mandanti di tutto questo progetto diabolico?

    Eravamo illogicamente felici e penso che è così che vadano avanti gran parte delle famiglie. Avanti. Nonostante i rumori. Nonostante questo rombo di motore faccia tremare le pareti.

    «Papà».

    «Oh…».

    «Stai bene?».

    «Benissimo».

    «Quanto cazzo russi?!».

    «Russavo?».

    «Come un animale».

    «Mi devo comprare i cerotti».

    «…».

    «Ti fermi qui a dormire o vai da tua sorella?».

    «Mi fermo qui».

    «Allora preparo qualcosa. Vuoi della carne?».

    «No, carne no».

    «Allora faccio del prosciutto».

    «…».

    «Va bene?».

    «Va bene».

    2.

    1984 – Lido di Dante

    Ci troviamo nel giardino esterno della villetta a schiera di Lido di Dante.

    M. e F. – mia madre – sono giovani e speranzosi, neanche trent’anni, sposati da quasi dieci e già due figlie a carico. Avrebbero già tutti i ragionevoli motivi per mandare ogni cosa in rovina e figliare con altra gente, invece continuano a farsi allegramente del male perché pare che durante i primi giorni del loro rapporto si siano trovati davvero bene. Un po’ come fanno gli eroinomani. Dunque, M. e F. sono nel giardino, guardano la loro casa a due piani e di fronte a loro c’è un agente immobiliare che sta scavando in terra per piantare un piccolo, piccolissimo pino. M. e F. si tengono per mano e guardano quell’uomo vestito da becchino. Sono commossi, forse tristi, ma per ora chiamiamola commozione. M. in cuor suo sa già che quel cazzo di pino gli costerà uno sproposito e già si vede mentre toglie le pigne e gli aghi dal tetto, o mentre taglia i rami che rischieranno di spaccargli le finestre ed entrargli in casa. Ma chiamiamola commozione. F. è felice perché ha sempre desiderato un po’ di verde, anche se quel pino poi diventerà alto dodici metri e tutto quel verde servirà solo a coprire il sole e a rendere quella casa buia d’estate e fredda d’inverno.

    L’agente immobiliare scava e scava, ed è qui che parte la musica: The Godfather Waltz di Nino Rota. Esatto, quella de Il padrino.

    Il suono di una tromba in lontananza ricorda il vecchio monito di un parente lontano.

    M. e F. si voltano in direzione di quel suono, poi riprendono a guardare l’agente immobiliare sempre più sudato.

    Quel parente, quindi quella tromba, sembra dire (ovviamente in siciliano):

    «Ve l’avevo detto di non fare una cazzata del genere, la casa ve la dovevate comprare in Liguria, non in Emilia Romagna, che da Torino ci mettete quattro ore ad andare e quattro a tornare. E quanto cazzo vi costa ‘sto scherzetto tra benzina e casello?! Lascia perdere adesso che la benzina costa poco, ma tra una ventina d’anni tutto cambierà e quella casa finirà per prendere solo umido».

    M. stringe preoccupato la mano di F.

    Si sente adesso un leggero ritmo di walzer…

    Attacca poi un mandolino che più o meno dice la stessa cosa.

    Quello strumento a corde simile a una chitarra, però meridionale e triste, ha qui le fattezze di una vecchia zia vedova con un neo in mezzo alla fronte e strabica per giunta. Chiamiamola zia Concetta.

    Zia Concetta è vestita a lutto perché il lutto le si addice, come a Elettra. Anche lei si accoda alla tromba: «Una follia, una sciagura, una maledizione!» così dice il mandolino Concetta, che è sempre stato esagerato e tragico.

    F. si copre con il suo scialle, guarda il cielo coperto di nubi scure. I parenti aumentano: l’arpa Maria, il flauto Tino, il violino Carmelo, il tamburo Michele, il trombone Giovanni, solo non si vedono i due liocorni. Entra anche il coro, rappresentato da tutti i parenti sparsi per il Belgio. Sono sporchi di carbone e vengono direttamente dalle miniere; pure loro, con note basse e impercettibili, dicono a quei due giovani genitori che stanno facendo una gran cazzata. Glielo dicono in siciliano, con contaminazioni estere:

    «Potevate prendervi una casa in affitto, un camper, come fanno tutti, e invece ora sarete costretti a pagare delle bollette a cazzo per una villetta a schiera che utilizzerete due mesi l’anno; per giunta sarete obbligati a venire ogni estate in questo posto che, vabbè, noi tutti ci domandiamo: come ci siete finiti? Chi ve l’ha consigliato? Come diavolo vi è venuto in mente? Non potevate prendere un appartamento a Genk?».

    Genk, il corrispettivo belga di una provincia nel torinese.

    Il coro è spietato e forse per questo, dal fondo della scena, fa il suo ingresso l’amico burlone e spensierato: Pasquale, qui rappresentato da alcuni strumenti a fiato, flauti traversi, normali, obliqui, flauti di tutti i tipi.

    «Che cazzo ve ne frega» dice il flauto Pasquale «ci facciamo un sacco di cene, feste, dormiamo in quindici nonostante ci siano cinque posti letto, e poi… siamo nella riviera delle feste! A due passi da Rimini, Riccione, a due passi dall’Aquafan, Mirabilandia, la tomba di Dante».

    Ma è una voce che dura poco, perché in un attimo torna la pesantezza di quegli avi che sanno sempre tutto e lo dicono sempre troppo tardi.

    Queste voci dei nostri usi e costumi non smettono mai di parlarci. Hanno il sapore rauco di una Nazionale senza filtro, l’odore del pane vecchio ormai diventato umido e spugnoso. Queste voci che provengono dal profondo delle nostre radici sanno di terra secca su cui niente ormai può crescere. Ci dicono che la casa la stiamo pagando troppo cara, che il figlio dovremmo viziarlo di meno e che l’investimento conveniva farlo da quel parente che da qualche mese si è buttato nella finanza e pare abbia fatto fare soldi a un sacco di gente, salvo poi essersi indebitato fino al collo e aver tentato il suicidio.

    Erano questi i pensieri che risuonavano come sottofondo nelle teste dei giovani e ignari M. e F., questa la loro colonna sonora.

    Fortunatamente quando si è giovani, le trombe o i mandolini degli avi raramente prendono il sopravvento e F. e M. soffocarono quelle voci, forti della loro ignara leggerezza e commozione.

    Perché ignari? Perché leggeri?

    Immaginiamo M. con una valigia piena di soldi che non avrebbe mai più guadagnato o anche solo visto in tutta la sua vita. La carne, quella che vendevano lui e sua moglie, sembrava essere l’ingrediente segreto per la ricetta della felicità. Come per la Nutella, la Coca-Cola, la carne non faceva male, non era cancerogena, anzi era un forte antidoto contro l’anemia, potente corroborante usato da pugili, sportivi, gente sana, in salute, ricca. Niente vegani, vegetariani e altre malattie simili: la carne dominava il mondo.

    Con quella valigia piena di soldi avrebbe acquistato due, tre, forse quattro case, con una sonora pernacchia alla Alberto Sordi a tutti quelli che ancora lavorano in Fiat e si accontentavano di quel milioncino al mese. Con estrema leggerezza, quei due guardavano la loro villetta a schiera e pensavano a come avrebbero trascorso lunghi pomeriggi assolati al Bagno Classe, a mangiare piadine crudo e squacquerone, a ballare la mazurca e ad ascoltare Raoul Casadei. Quando si distraevano dalla melodia straziante di quel walzer parentale al sapor di marranzano, allora prendeva il sopravvento l’orchestra romagnola di Milva. La salsedine si appiccicava sui loro volti, spalmandoli di un soffice sudore cristallino in grado di attirare i raggi del sole e di renderli olivastri anche nei mesi invernali.

    I motivetti leggeri delle cose nuove hanno sempre una forza creativa e salvifica in grado di scrollare la polvere più ostinata di tutte le tradizioni che non ci risuonano più.

    Con questo spirito M. e F. si congedavano dall’agente immobiliare ormai fradicio e lo lasciavano rientrare nel suo ufficio di false speranze e solide realtà.

    Finalmente soli, fecero il loro ingresso nella casa appena acquistata. Sembrava uno chalet di montagna, senza vista panoramica e senza montagna. Non ricordava affatto una casa al mare, non c’erano quadretti blu o pareti bianche, non c’erano reti da pescatore o altri ornamenti decorativi a forma di lisca di pesce. Il piano terra era una sorta di open space con la cucina separata da una porta pieghevole in plastica, a fisarmonica. Il pavimento era scuro, marroncino e nero, poi c’era una ripida scala che portava al piano di sopra. Un gradino di quella scala equivaleva a venticinque gradini normali o a una mezz’ora di trekking sul Monte Bianco. Il piano superiore era composto dalla camera matrimoniale, dal bagno più piccolo del mondo e dalla cameretta dei bambini, con due letti a castello, ai quali poi si sarebbe aggiunta una brandina per il terzo figlio. Le due camere erano collegate da un lungo balcone, che durante l’anno diventava un tappeto di aghi di pino. Due piani distribuiti malino. La casa rimase sempre così, fatta eccezione per un dispendioso cambio di divani letto in offerta, a venti euro l’uno nel 2019. Ah no, rifecero anche il bagno e il box doccia, ma soprattutto costruirono un’imponente veranda abusiva in plexiglass, capace di raggiungere gradi Fahrenheit che neanche il Big Bang.

    Quando M. e F. entrarono dentro alla loro seconda proprietà, non pensarono all’imu, perché erano giovani, ignari e soprattutto spregiudicati, ma notarono la grande umidità che caratterizzava quel posto. Pareti scrostate, odore di cantina. Si guardarono senza ombra di preoccupazione: loro lavoravano nelle celle frigo, puoi capire cos’era un poco di umidità. Senza lasciarsi prendere dallo sconforto, sfogliarono le pagine gialle, ordinarono subito un bel divano che sarebbe rimasto con lo stesso rivestimento di plastica per trent’anni e poi andarono in spiaggia.

    M. fece il suo ingresso al Bagno Classe con uno slip aderente e il petto villoso, orgoglioso della sua stempia già ustionata dal sole. Vide il mare, prese la rincorsa e ci si tuffò dentro. In realtà cadde, perché quel mare era profondo come una piscina di plastica bucata. Si toccava sempre. M. finse entusiasmo e camminò al largo.

    Ma che cazzo di mare è?, pensava il giovane M. abituato a quello dello stretto di Messina che bastava guardarlo per annegare. Fece un saluto a sua moglie, che non lo vide. F. infatti era rimasta a riva dato che, al contrario suo, era terrorizzata dall’acqua e persino quando pioveva aveva paura di morire. La mandò affanculo tra sé e sé e proseguì la sua camminata in direzione della petroliera che si intravedeva all’orizzonte. Un sorriso comparve sul suo volto: non aveva mai camminato sull’acqua.

    Si fermò un momento, guardò verso il cielo, pensò a tutti i soldi che avrebbe fatto con la sua macelleria e si sentì incredibilmente vicino a dio.

    3.

    1984 – Narcos

    Brano musicale consigliato: Tuyo di Rodrigo Amarante.

    O una qualsiasi musica colombiana che parli dell’incredibile ascesa di qualche narcotrafficante.

    M. non si sbagliava. Quel giorno, sul mare Adriatico, fu davvero baciato da dio ed è principalmente per questo motivo che iniziò ad andare a messa la domenica mattina. Il rituale della domenica era sempre lo stesso: contava i soldi seduto sul letto e poi li suddivideva in due blocchi. Un blocco rappresentava il guadagno effettivo, l’altro era per l’affitto e le spese dei fornitori. Quando contava i milioni si leccava le dita, come si fa quando si sfogliano i libri. Esattamente come morirono tutti i monaci de Il nome della rosa. Così, prima della messa delle undici, M. pregava e contava il suo personalissimo dio, poi, dall’enorme mazzetta che rappresentava il guadagno effettivo, estraeva una banconota piccolissima e la infilava, qualche ora dopo, dentro la cesta delle offerte, omaggiando così l’altro dio, quello appeso in croce. Dopo la messa, F. preparava da mangiare, solitamente coniglio e patate e M. tirava fuori il pintone di vino rosso che verso fine pranzo era già diventato aceto.

    M., la domenica, era un uomo stanco e soddisfatto. Verso le due di pomeriggio, dopo aver divorato la testa del coniglio, si sbottonava la camicia e iniziava il suo sermone festivo. Le piccole figlie lo guardavano annoiate, mentre F. pensava in silenzio a come potersi uccidere e porre fine a quella vita con tanto sangue e poco pathos.

    «Monica…» così iniziava il sermone.

    «Monica…».

    Monica era distratta, anche lei pensava ad altro. In quel momento si stava chiedendo se poteva fare una richiesta d’affido nonostante i suoi sette anni e se per compilare la domanda dovesse per forza avvalersi di un assistente sociale o se bastava un qualsiasi maggiorenne. Però c’era qualcosa che evidentemente sbagliava con quelli del Telefono Azzurro, perché non rispondevano mai… Sbagliava il prefisso o proprio non doveva metterlo? Sì, forse era questo il problema.

    «Monica, ascoltami…».

    Monica finalmente lo guardava.

    «Se io e mamma moriamo…».

    «Non parlare di queste cose, è piccola» interveniva F.

    «È giusto che sappia» diceva M. già alterato, deciso ad alzarsi dalla tavola e a mettere a tacere quella bocca femminile sempre pronta a contraddirlo. «Che se poi crepiamo, allora tu, per non dirle niente, la fai stare male il doppio».

    La fulminava con lo sguardo, poi prendeva uno stuzzicadenti e continuava:

    «Quando moriremo sappi che sotto, in tavernetta, c’è la cassaforte e ci sono ottanta milioni…».

    La piccolissima Teresa, allora di quattro anni, piangeva. Era il suo modo di togliere dall’impiccio la sorella maggiore.

    «‘Sta cazzo di bambina piange sempre…». Non era vero, si confondeva. Teresa non piangeva mai. Forse parlava di qualche altro figlio illegittimo.

    «Capito, Monica? Quando creperemo, sappi che ci sono quei soldi lì. Soldi che io e mamma stiamo sudando con il sudore della fronte. Mamma lavora tutto il giorno in un supermercato e io sputo sangue nella macelleria, quindi se ti senti sola sappi che c’è un motivo. Lo facciamo per te e tua sorella, per potervi garantire un futuro migliore del nostro, per potervi dare un’educazione».

    Il discorso andava avanti per una mezz’oretta, ed era un pot-pourri di senso di colpa, senso di responsabilità e senso di un litro di vino in corpo.

    Così Monica, a sette anni, scoprì la morte.

    Dopo il lauto pranzo, M. andava a riposare per quindici ore e continuava i suoi sogni di ascesa sociale, quelli che lo avrebbero consacrato nell’olimpo dei macellai e che gli avrebbero finalmente dato quell’aura di rispetto che meritava. Lui, figlio di contadini, ce l’avrebbe fatta e tutti l’avrebbero chiamato… no, nessuno l’avrebbe chiamato dottore, ma almeno sarebbe stato riconosciuto per strada come Il Macellaio.

    Quando qualcuno gli avrebbe stretto la mano in presenza di uno che non conosceva, l’altro avrebbe chiesto: «Ma chi è quello a cui hai stretto la mano?» e la risposta sarebbe stata: «Il Macellaio».

    M. il Macellaio. Quello che ha la carne buona a prezzi stracciati, quello che fa la salsiccia alla siciliana, col finocchietto, senza quella merda di noce moscata che mettono in Piemonte. Nei suoi sogni era benvoluto, rispettato. Uno di quegli uomini con la governante in casa, con il pranzo pronto, il salotto che sa di pulito, il divano che sa di pulito e la vita così pulita che sarebbe stato un peccato cagare. Così, quando M. si svegliava, all’incirca verso le otto di sera, finiva il suo litro di rosso all’aceto e si sentiva il padrone del mondo. Era giovane, forte e con il fiuto per gli affari. Erano i ruggenti anni Ottanta e il mercato esaudiva le richieste dei più audaci, e lui era M., il macellaio più audace del mondo. L’indomani sarebbe andato al lavoro saltellando e avrebbe detto a quelli dell’igiene: Plata o Plomo, poi avrebbe allungato loro una mazzetta per far mettere un timbro a tutte quelle bestie appese nella sua cella frigo e il piombo l’avrebbe conservato per il poligono, il suo nuovo hobby. Chissà, forse un giorno sarebbe partito con la sua pistola per Chicago o New Orleans e lì, dove pare mangiassero bistecche grosse come le sue mani, sarebbe diventato M. The Butcher.

    Sì, si sarebbe spinto oltreoceano e avrebbe affettato manzi per signore extralarge innamorate della sua carne latina.

    Per ora però si doveva accontentare di servire fettine di vitello alle sciure piemontesi e lavorare tredici, quattordici ore al giorno. Ma andava bene. Si sentiva come il re dei narcos prima della scalata nel mondo del crimine. Forse per questo ingrassò e si fece crescere dei lunghi baffi. Era il padrone della sua piccola macelleria e nessuno l’avrebbe mai fermato.

    Un giorno però F. andò a trovarlo in quello che allora era il suo impero: la nuova macelleria di Orbassano. Pioveva, come sempre, e il cielo sembrava un saggio sulla depressione. M. vide comparire F. che con una mano teneva in braccio Teresa e con l’altra la piccola Monica. Che cazzo ci facevano in giro? Cosa ci faceva F. a piede libero? Avrebbe dovuto essere al lavoro…

    Qualcosa non tornava.

    «Un attimo signora, arrivo subito».

    M. lasciò il banco e abbandonò la cliente nel pieno di un’operazione. Prima di congedarsi dalla signora si inchinò svariate volte come da tradizione orientale. Uscì dal negozio e si parò dalla pioggia con l’enorme coltello che teneva in mano.

    «F. che minchia ci fai qui?».

    «Ho litigato con Lia…».

    «Lia chi?».

    «Quante Lia conosci? Tua cognata!».

    «Mia cognata?».

    «Sì».

    «Perché? Arrivo subito signora!».

    «Voleva l’aumento».

    «‘Sta stronza».

    «Dice che non può tenere Teresa e Monica dodici ore al giorno per trentamila lire».

    «‘Sta buttana».

    «Se n’è andata…».

    «Eccomi signora, mi scusi tanto eh…».

    «Come facciamo?».

    «Licenziati dal supermercato».

    «Ma sei pazzo?».

    «C’è abbastanza lavoro, ce la possiamo fare…».

    «Ma sei sicuro?».

    «Sì, stai con le bambine e ogni tanto mi dai una mano».

    «Ma io non so lavorare la carne».

    «Ti insegno io».

    «E quando vengo in negozio chi le tiene le bambine?».

    «Le portiamo qui».

    «In macelleria?».

    «Sì».

    Et voilà, da quel giorno il baby park delle due piccole figlie cambiò sede e si trasferì nel retro della macelleria. La televisione venne attaccata tra l’insaccatrice e la macchina del sottovuoto, proprio di fianco al segaossa. Inoltre adagiarono in terra un tappetino dove le piccole potevano sedersi e giocare, a due passi dall’enorme cella frigo, dove all’interno riposavano tutti i loro amichetti: i conigli, i maialini e i polli morti.

    Intanto M. iniziò F. all’antica arte del taglio della carne. Si prodigava nei suoi confronti come avrebbe fatto un giovane e aitante maestro di tennis con la sua allieva. La sua mano gigante guidava quella più piccola di F. e pazientemente indicava dove l’animale morto doveva essere reciso, quali nervi doveva lasciare e quali togliere. I loro corpi vibrarono d’una rinnovata intesa e la punta della lama, per la prima volta, prendeva la stessa direzione. Lavorarono spalla a spalla, fianco a fianco. Le loro frustrazioni, il loro odio, vennero riversati sulle bestie, ormai prive di vita. Capitò spesso che M. tranciasse con forza un pezzo di coscia fissando con desiderio e odio F., e che F. usasse il batticarne immaginandosi di schiacciare il cranio gigante di M.

    Per un po’ non litigarono più. Lavorarono e lavorarono forte. Le figlie crebbero così, tra il rumore del frigo e quello dell’affettatrice.

    Quando Monica compì dieci anni, ritennero fosse grande abbastanza per stare a casa e badare a Teresa. Le due iniziarono così un processo di autogestione, dove impararono a cucinare, lavare, stirare e farsi male. Vissero come le spose bambine in India o come vivevano le ragazze di quell’età a fine Ottocento, nel Sud Italia, in una famiglia numerosa, con i genitori senza lavoro e il pozzo dove prendere l’acqua ogni mattina. Vissero di stenti e privazioni, nonostante la macelleria fruttasse grandissimi denari.

    M., infatti, era solito lamentarsi: «Non ce n’è soldi». Questa era la frase più ricorrente. La diceva ovunque: dal panettiere, in bagno, in chiesa. Viveva come Gandhi nonostante fosse violento e milionario.

    Fu in quel clima di frattaglie, miseria e figlie autogestite, che nacque il loro terzo figlio. Fu una nascita del tutto inaspettata perché F. dopo la secondogenita aveva deciso di farsi mettere la spirale. Lo decise un giorno in cui non sapeva se infilarsi un cappio al collo o lanciare la piccola dalla finestra. L’inatteso terzo figlio lo chiamarono come il nonno di M.: Giovanni. Che poi sarei io. Ma ancora non so parlare, non so chi sono quei

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