Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La dama dei Medici
La dama dei Medici
La dama dei Medici
E-book363 pagine5 ore

La dama dei Medici

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un grande romanzo storico ambientato nella Firenze del Rinascimento

Da un'autrice bestseller internazionale

1478. La Firenze dei Medici si arricchisce dei più grandi artisti del mondo grazie a Lorenzo il Magnifico. Nei vicoli e nelle strade malfamate, intanto, continua la quotidiana lotta per la sopravvivenza degli ultimi, destinati al silenzio della storia.
Giuliana è un’orfana cresciuta nel famoso Ospedale degli Innocenti: la sua indole ribelle l’ha resa fin da piccola una presenza sgradita. Così, all’età di quindici anni, è stata messa davanti a una scelta: entrare in convento o sposarsi con un uomo che non amava. Piuttosto che piegarsi, Giuliana ha preferito fuggire. Durante i due anni passati sulla strada, è sopravvissuta grazie a piccoli furti, imparando a confondersi tra la folla dopo aver svuotato le tasche giuste. Ma tutto cambia quando una delle sue vittime, un anziano signore, la coglie con la mano nella sua borsa. Invece di portarla in prigione, l’uomo, presentatosi come “il Mago di Firenze”, le fa una proposta: diventare la sua assistente. Così, tra rivelazioni esoteriche e sottili stratagemmi, Giuliana sarà messa a parte della misteriosa attività del cabalista, custode di un segreto che ha a che fare con il suo oscuro passato… 

Un’autrice bestseller internazionale
Oltre 500.000 copie

Nella Firenze del Rinascimento una ragazza senza passato si trova invischiata in una pericolosa rete di spie

«Come si può non amare un thriller storico con un’eroina ribelle, intrighi, tradimenti e magia? Una lettura in grado di far rimanere svegli tutta la notte.»

«Questo libro è una vera gemma che merita di essere scoperta.»

«Ho adorato ogni pagina, ogni frase, di questo romanzo! Il lavoro di ricerca che c’è dietro è immenso e la scrittura è evocativa.»

«Un viaggio nella Firenze del Quattrocento, intorno a cui ruota una storia magica.»

«Questo nuovo libro di Jeanne Kalogridis dimostra ancora una volta che è lei la regina del romanzo storico. Bravissima!»
Jeanne Kalogridis
È nata in Florida nel 1954 e vive in California. Ha insegnato per otto anni inglese all’American University di Washington. Autrice di romanzi storici, scrittrice di culto grazie al successo ottenuto con I diari della famiglia Dracula, ha al suo attivo numerosi bestseller mondiali. Torna a pubblicare in Italia con La dama dei Medici.
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2018
ISBN9788822724014
La dama dei Medici

Correlato a La dama dei Medici

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La dama dei Medici

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La dama dei Medici - Jeanne Kalogridis

    Uno

    La sera che venni colta con le mani nella tasca di un gentiluomo – la sera che mi cambiò completamente la vita – faceva un gran freddo, talmente pungente che non avevo né avrei mai più provato niente di simile in vita mia. Sarei rimasta in casa se non ci fossimo trovati a corto di cibo e denaro, o se la luna, di cui non potevo tollerare che andasse sprecata la luce, non fosse stata piena. Per questo uscimmo, io e Tommaso, per le strade acciottolate e immerse in un silenzio quasi totale, alla luce azzurrina, con la luna enorme e splendida in un cielo terso tempestato di stelle, l’aria assolutamente immobile e pungente sul volto scoperto. Per via del freddo, camminavo talmente in fretta, correvo quasi, che Tommaso ansimava e gemeva perché con le sue gambette non riusciva a tenere il passo. Lo ignorai, ovviamente, e affrettai il passo finché non ebbe più fiato per lamentarsi. Non feci la solita sosta alla Taverna del Fico, dove i potenziali gonzi seppur non ricchi erano abbondanti, ma mi diressi invece alla Taverna del Buco. Le nostre chance di trovare un unico e grasso borsellino lì erano migliori: volevo tornare in fretta a casa e al caldo.

    Camminavamo spediti per una via secondaria con edifici alti e stretti che si accalcavano fianco a fianco, muri continui di pietra a vista e intonacata su entrambi i lati, quando Tommaso urlò qualcosa che mi fece finalmente rallentare.

    «Paolo!», gridò, con quella sua vocina acuta. «Svegliati! Non puoi dormire qui fuori stanotte!».

    Impaziente, mi fermai e voltandomi vidi Tommaso che si rivolgeva a qualcuno davanti a un portone. All’epoca, Tommaso sembrava davvero un cherubino. Sei anni al massimo, biondo come un tessitore tedesco, ed esile, una spruzzata di lentiggini sul naso e le gote, la testa troppo grande rispetto al corpo, gli occhi celesti troppo grandi rispetto alla faccia. Era avvolto in una coperta piena di buchi, perché per far funzionare il nostro Tranello era necessario che avesse l’aria il più commovente possibile. Commovente e adorabile, in grado di sciogliere qualsiasi cuore. Tranne il mio, naturalmente. Aveva uno speciale talento per il raggiro e adorava il Tranello: sarebbe uscito anche a piedi nudi se glielo avessi permesso, tanto per l’effetto. Avevo dovuto insistere perché quella sera si mettesse il berretto di lana, soprattutto perché gli tenevo i capelli rasati, come i miei, per tenere lontani pidocchi e pulci. Avere i capelli corti nel mio caso aveva un vantaggio in più: quello di far credere ai malintenzionati di trovarsi davanti un ragazzo di strada e non una fragile giovanetta.

    Mi avvicinai di un paio di passi e vidi la figura seduta, la schiena premuta contro lo stipite con la speranza di cogliere un alito del calore proveniente dal focolare all’interno. Gli ero passata davanti senza darci peso: uno dei tanti poveri barboni che morivano di fame e freddo per le vie di Firenze. Se mi fossi fermata davanti a ciascuno, sarei stata io a morire di fame. E in quella notte, di freddo.

    Ma quel povero barbone lo conoscevamo.

    Tutta Firenze conosceva il giovane Paolo e il suo gatto Vecchia Spugna, un gatto rosso che ora gli stava raggomitolato in grembo. All’apparenza dormivano e il padrone aveva la testa che gli ciondolava col mento sul petto. Paolo e Vecchia Spugna stavano in pianta stabile sulla scalinata del duomo, dove Paolo faceva buoni affari estorcendo elemosine anche ai cuori più coriacei grazie alla gamba mancante dal ginocchio in giù, alla sua allegria e al gatto ubriacone. Se la cavava bene a camminare con la gamba di legno, ma quando chiedeva l’elemosina si sedeva a gambe divaricate, con il moncherino bene in evidenza. I donatori fissi ricordavano sempre di portare un po’ di birra per Vecchia Spugna e di versargliela nella ciotolina che il padrone conservava apposta per lui. Una ciotola per le monete e una per il gatto. Vecchia Spugna miagolava di contentezza, lappava prontamente la birra, poi scuoteva la testa per togliersi la schiuma dai baffi.

    Mi si strinse la gola. Ero affezionata a Paolo e a Vecchia Spugna, ma l’affetto per la povera gente che cercava faticosamente di sopravvivere era un lusso pericoloso.

    «Vieni via, Tommaso», dissi a bassa voce, sperando di risparmiargli un dolore. «Paolo sa quello che fa». Avevo capito come stavano le cose, ma non c’era motivo di turbare Tommaso. Doveva restare lucido per il Tranello. Io dovevo restare lucida per il Tranello.

    Tommaso finse di non sentire. Si avvicinò e scosse il giovane per la spalla. «Svegliati», disse. «Morirai di freddo. E anche Vecchia Spugna».

    Paolo e il gatto non si mossero.

    Tommaso scosse la spalla più forte.

    Alzai la voce. «Vieni via subito, Tommaso».

    Troppo tardi. Tommaso diede una spinta, facendo cadere Paolo su un fianco. Il gatto lo seguì, ancora raggomitolato, e cadde sul selciato accanto al padrone, entrambi stecchiti.

    Dopo che Paolo fu caduto, seguì un attimo di silenzio: Tommaso era scioccato, ma non appena li avevo visti, avevo capito che Paolo e il gatto erano morti. Attesi rispettosamente un secondo, poi tastai il cadavere in cerca di qualche moneta, senza trovarne. La caduta di Paolo aveva rivelato la parte inferiore del portone di legno, dove qualcuno aveva dipinto le parole Morte al papa, e di sotto un altro buontempone aveva scritto Lorenzo va a letto con la madre.

    A essere sinceri, la seconda frase non era proprio così, ma avete capito il concetto. Lorenzo de’ Medici, il cittadino più ricco, più potente e teoricamente più rispettato era in guerra contro il papa e Roma, e questo significava che lo era anche Firenze. Gli eserciti nemici combattevano a pochi giorni di viaggio dalle mura cittadine, di conseguenza cominciavano a scarseggiare viveri e altri beni e sempre più persone come Paolo morivano di fame e freddo per strada. Erano diminuite le persone che donavano soldi o cibo ai mendicanti, e il ceto medio aveva meno denaro da farsi derubare. Le scritte ingiuriose erano uno spettacolo frequente in città e di recente erano indirizzate soprattutto contro Lorenzo perché non aveva posto fine alla guerra, anche se la colpa era tutta di papa Sisto iv. C’erano state sommosse per il pane e richieste perché Lorenzo si arrendesse, anche voci su un suo abbandono della città per salvarsi la pelle. Non fraintendetemi, ero sempre stata fedele a Lorenzo, ma ero arrabbiata con tutti e due per la guerra, dura per i ceti ricchi e borghesi ma micidiale per noi poveri. Quando il cibo scarseggia, indovinate chi se lo prende?

    Lavoro o fame. Quale altro motivo poteva avere avuto Paolo per arrischiarsi a uscire con quel freddo?

    Quale altro motivo avevamo noi?

    Fu allora che mi accorsi che la gamba di legno di Paolo non c’era più: anche se avesse voluto non avrebbe potuto andarsene. Qualche bastardo doveva avergli preso il denaro e la gamba, in modo che Paolo non potesse inseguirlo. Avvertii un moto di tristezza e di rabbia, ma voltai le spalle alle emozioni: non sarebbero servite a Paolo né tantomeno a Tommaso.

    Tommaso cominciò a piangere.

    Gli afferrai la mano e lo tirai via, riprendendo il passo di prima.

    «Piantala di frignare», sibilai, mentre Tommaso mi singhiozzava accanto. «Non lo riporterà in vita. E a me, mi vedi piangere?».

    Dovevo dirlo, bisognava che lo capisse. Altrimenti il cuore gli si sarebbe spezzato così tante volte da cedere alla disperazione: un modo sicuro per finire come il povero Paolo.

    Due giorni prima avevamo trovato una madre scheletrica e un neonato congelati in un vicolo, e Tommaso aveva pianto tutta la notte. Avevo dovuto abbracciarlo e consolarlo per farlo smettere. Ma, come cercavo di insegnargli, non ci si può far condizionare da cose simili, perché succedono di continuo per strada. Mi piaceva Paolo, allegro e simpatico malgrado le circostanze, ma non potevo prendermela troppo per ciò che gli era accaduto. Tutti noi reietti della strada saremmo andati incontro a una morte precoce. Come avevo spiegato a Tommaso, da un momento all’altro avrei potuto essere trascinata in prigione, o ammazzata da un rivale o uno stupratore, o morire per una pestilenza. Affezionarsi a qualcuno, me compresa, era stupido e basta: perché a quel punto, avrebbe pianto fino a impazzire, e questo non avrebbe fatto altro che renderlo una preda più facile.

    Non m’importa, aveva singhiozzato, stringendosi a me. Ti voglio bene comunque. Tu non mi vuoi bene?

    Non avevo risposto e questo l’aveva fatto piangere ancora più forte, ma l’avevo tenuto stretto finché alla fine non aveva smesso e si era addormentato. Non volevo che mi considerasse sua madre. Troppe volte avevo visto cosa succede per strada a madri e figli.

    Quando si tratta di battezzare osterie, noi fiorentini abbiamo un approccio pratico. Prendete le due taverne più famose della città, quella del Buco e quella del Fico, che producono molto più capitale dalla carne umana che dalla birra. Prendono il nome dal tipo specifico di carne che spacciano.

    In dialetto fiorentino buco può voler dire molte cose. Oltre al suo significato primario, nelle compagnie meno garbate – soprattutto tra gli uomini che frequentano questa specifica taverna – si riferisce a una particolare parte anatomica. Fico, d’altro canto, oltre al frutto è anche il modo più volgare per riferirsi alla parte più dolce di una donna. Volete un ragazzo? Andate al Buco. Cercate una donna? Passate al Fico.

    Non mi è mai piaciuto molto lavorare vicino al Buco, anche se si rivolge a una clientela più agiata. Non perché abbia qualcosa contro i gentiluomini che preferiscono i ragazzi. Secondo la saggezza popolare, tutti i ragazzi attraversano questa fase, che dovrebbero aver superato una volta arrivati al matrimonio. E nessuno fa caso agli uomini più anziani, soprattutto scapoli e vedovi, che vanno al Buco in cerca di un tenero virgulto. Due uomini adulti insieme, quello sì che è un tabù in questa crudele città. Sono questi che attirano l’attenzione degli Ufficiali di Notte e vengono arrestati per sodomia. Ma se uno dei due è un ragazzino, che ha appena superato la pubertà, come Paolo, allora lo si considera assolutamente naturale: la Chiesa ovviamente storce il naso ma la polizia si volta dall’altra parte.

    Io sono ladra e maledetta e non sto a giudicare gli altri. Non mi è mai piaciuto andare al Buco semplicemente perché lo stretto vicolo che ci arrivava non offriva molte vie di fuga. Preferivo tendere il Tranello dove c’erano migliori possibilità di allontanarsi. Ma faceva freddo e volevo il mio grasso borsellino.

    Quando arrivammo al vicolo davanti al Buco, Tommaso aveva smesso di piagnucolare, perché gli avevo raccontato stupide storie su Paolo e Vecchia Spugna in paradiso, dove Paolo aveva tutte e due le gambe, correva dietro alle ragazze e le raggiungeva tant’era veloce, e dove Vecchia Spugna aveva un barilotto personale e se ne stava sdraiato sulla schiena con la lingua allo zipolo, a lappare tutta la birra che riusciva a ingoiare, diventando ubriaco fradicio. Tommaso aveva riso, ma poi si era fermato e aveva detto con tristezza: «Ma tu non credi nel paradiso».

    Quello che davvero credevo era che il paradiso non fosse per persone come me e Tommaso, perché era evidente che Dio non si curava di noi. Era più semplice dire che non ci credevo che spiegare che ero convinta che Dio ce l’avesse con me. Perché mai sennò la mia vita faceva tanto schifo? Dio e paradiso erano per le persone buone, gentili, che potevano permettersi di volere bene. Il mio problema era che avevo voluto fin troppo bene e se non fosse stato per Tommaso mi sarei tagliata la gola da un pezzo. Avevo dovuto imparare a proteggermi il cuore e il meno che potessi fare era insegnare a Tommaso a fare altrettanto, in modo che non se lo spezzasse.

    Feci spallucce. «Forse mi sbaglio», dissi e questo fu sufficiente a renderlo pensieroso più che piagnucoloso.

    Stranamente, dopo che ci sistemammo ai nostri posti ai lati opposti del vicolo vicino alla porta della taverna, divenni nervosa, come se sentissi che qualcosa sarebbe andato storto. Stringevo il rasoio nascosto nella tasca del mantello tanto forte che la mano guantata mi doleva. Cercai di sfoderare il mio più invitante sguardo da prostituto ignorando Tommaso. Era sabato e, malgrado il clima, il Buco era piuttosto affollato. Quasi ogni minuto la porta si apriva o si chiudeva per far entrare uomini sobri o uscire barcollanti ubriachi a coppie riversando una luce gialla nel vicolo.

    Mentre stavo sul lato del vicolo di fronte a Tommaso, cercando di non guardare il luccichio del moccio che gli colava dal nasino, a condividere il vicolo con noi arrivò qualcun altro. Un giovane sui vent’anni, malvestito e tremante. E attraente, anche se di solito non mi abbandonavo mai a certe considerazioni. Lo si poteva definire bello, con il labbro superiore arcuato e occhi di un incredibile azzurro sotto ciglia scure lunghe ed effeminate. Non mi piacciono gli uomini belli – a volte devo sforzarmi di rammentare che non posso permettermelo, punto e basta – ma quello era innegabilmente bello malgrado i capelli lisci e lunghi color rame e la frangia fuori moda che gli ricopriva le sopracciglia.

    Era sicuramente sufficientemente bello da fare parecchi affari, ma aveva dieci anni di troppo per offrire la sua mercanzia fuori dal Buco. Diventati adulti i giovani prostituti devono trovarsi un impiego più onesto, ed è per questo che si guardano intorno in cerca di ricchi clienti che paghino loro un’istruzione. Quel bel malvivente apparteneva ovviamente alla schiera dei meno fortunati, ma avrebbe dovuto avere il buon senso di capire che aveva superato l’età del ruolo sessuale passivo e che avrebbe dovuto dedicarsi a un altro tipo di mestiere.

    Non degnò Tommaso di uno sguardo ma poi mi notò in piedi vicino alla porta e mi rivolse una fugace occhiata d’interesse, subito corretta in un cipiglio. Inutile flirtare con un giovane collega. Ricambiai il broncio. Non mi sarei mai fatta sorprendere a guardare un uomo con aria sognante. Mantenni la posizione, obbligandolo a restare più lontano dalla porta di quanto probabilmente avrebbe voluto: non volevo che si trovasse tanto vicino da interferire con il Tranello se le cose fossero andate storte.

    La massiccia porta della taverna si riaprì, riversando il calore, la luce e il frastuono degli uomini che scommettevano sui dadi o sui combattimenti dei galli. Legavano alle zampe degli uccelli speroni e a volte rasoi e la settimana prima una delle bestie si era rivoltata contro il padrone tagliandogli la gola per averla fatta combattere troppe volte. L’uomo era morto sul colpo. Avevano trascinato via il cadavere ed erano tornati per acciuffare il gallo e ucciderlo. Ma qualche astuto avversario se l’era già portato via.

    Dalla taverna uscì una coppia. Due tipici avventori: un uomo ben vestito sulla trentina, che il tocco rosso di feltro identificava come un ricco mercante, e un ragazzo di neanche diciassette anni – la mia età – con un sottile mantello grigio lustro per l’usura. Erano entrambi ubriachi e intonavano un canto carnascialesco carico di doppi sensi. Si tenevano per la vita e la testa del più anziano, e più basso, ciondolava sulla spalla del ragazzo. Non si accorsero di me o del bel rivale, né di Tommaso, che a quel punto era riuscito a farsi uscire altre lacrime – finte stavolta, per i clienti della taverna – che gli scorrevano lungo le guance sudice.

    Il nostro bel prostituto guardò con un sospiro la coppia che passava, ma io non gli badai, concentrata com’ero a osservare la figura solitaria che s’incamminava lungo il vicolo diretta verso di noi e la taverna.

    Appoggiandosi pesantemente a un bastone, l’uomo si trascinava lento nell’arco della luce gettata dalle torce. Un uomo molto anziano, a giudicare dalle spalle curve sotto il mantello nero e dalle scompigliate chiome bianche che gli ricadevano sulle orecchie. Indossava un tocco rosso di feltro di tradizione fiorentina, aderente alle orecchie e alle tempie e leggermente svasato in cima, come pasta di pane lievitata in una teglia tonda. Aveva il volto magro e lungo con un mento appuntito e un lungo naso adunco, abbastanza grosso, ma niente in confronto ai giganteschi mostri sfoggiati dalla crema della società fiorentina, i Tornabuoni e i Medici. Ma ciò che soprattutto lo caratterizzava era la stretta benda di fine seta nera legata attorno al capo, che gli ricopriva un occhio. Sono brava a indovinare le professioni e lo ritenni un banchiere.

    La coppia ubriaca uscita dalla taverna superò barcollante il vecchio e lo urtò tanto che questi vacillò e si raddrizzò a fatica. Guardò con un cipiglio di disapprovazione il premuroso sorriso del bel prostituto.

    Mentre il vecchio mi si avvicinava, l’impugnatura del bastone scintillò alla luce delle torce. Oro puro. Lo vidi come un falco in volo che individui una lepre nel bosco sottostante. Il mantello era di una lana pesante di finissima qualità, semplice ma dal taglio perfetto. Ed era solo, e sicuramente con un borsellino pieno di monete destinate ai piaceri del Buco.

    Un gonzo succulento – ricco, debole e mezzo cieco, alleluia – ci era caduto in grembo come la manna dal cielo. Il mio grasso borsellino. Era troppo bello, troppo facile.

    Di conseguenza mi preoccupai. Il bastone era una potenziale arma, e il bel prostituto era ancora lì vicino. Di sicuro, al vecchio serviva il bastone per restare in equilibrio ed ero certa che il giovane alla vista del mio rasoio se la sarebbe data a gambe. Se eravamo fortunati, quello sarebbe stato il nostro primo e ultimo Tranello della serata.

    Feci un discreto colpo di tosse, forte abbastanza da farmi sentire da Tommaso. Quando mi guardò, inclinai la testa leggermente verso il vecchio e mi portai l’indice sinistro sotto il naso, come a volermelo grattare. Era il segnale.

    Il Tranello aveva inizio.

    Tommaso entrò in azione, correndo in lacrime verso il vecchio. «Signore!», gridò con quella sua vocina da bimba. «Signore, vi prego!». Tremava, stringendosi nella coperta con le mani nude, le gambette magre come stecchi. «Mia madre è morta e io muoio di fame! Solo un denaro, signore, solo uno per amore di Gesù e della Vergine…!».

    Il vecchio si fermò, con espressione di senile confusione in volto, e guardò il bambino. «Eh», disse. «Eh…», e si accarezzò il portamonete, nascosto in una tasca interna del mantello. Sul lato destro, per bontà divina, quello cieco, nonché il posto dove avrebbe cercato un borsaiolo.

    Fortuna – o nel mio caso, destrezza ed esperienza – volle che mi trovassi proprio sul lato destro del vecchio. E gongolai tra me e me per quel dono del cielo. Un vecchio inerme, che si palpeggiava il borsellino rivelando esattamente la sua ubicazione: di solito dovevo andarci a sbattere e frugare per trovarlo. Non solo, il bel prostituto era scomparso, forse fiutando le nostre intenzioni e non volendo farsi coinvolgere.

    Avvicinandomi alla vittima trattenni un sorriso.

    Tommaso era incline all’improvvisazione e quella sera non fece eccezione. Invece di piangere più forte e crollare in ginocchio per distrarre ulteriormente il gonzo, secondo i piani, si piegò a quattro zampe per prendere un oggetto invisibile sul sudicio selciato.

    «Ma guardate!», fece esultante. «Guardate qui, signore! È un miracolo!».

    «Come?», disse il vecchio, chinandosi per quanto gli consentivano le gambe malferme. «Come?»

    «Una moneta, un intero soldo! Un miracolo della Vergine! Ha ascoltato le mie preghiere! Guardate!».

    Passando sfiorai il vecchio e i nostri mantelli si lambirono. Era più robusto di quanto sembrasse. Poi finsi di perdere l’equilibrio, come se fossi ubriaca, e lo urtai. Lo spinsi quel tanto che bastava perché non si accorgesse che gli tagliavo il mantello col rasoio. Con due dita, sfilai dalla tasca il borsellino di velluto gradevolmente pesante mormorando al contempo: «Perdonatemi». In un lampo, il portamonete era al sicuro nella tasca del mio mantello.

    Nell’istante in cui nascondevo il borsellino, la voce angelica di Tommaso diceva con straziante delusione: «Oh! Me lo sono immaginato! Oh no! Aspettate! Era questo?».

    Continuò a grattare in terra mentre io giravo il piede, voltando le spalle al vecchio, pronta ad allontanarmi in fretta e in silenzio per il vicolo, via dal gonzo, via dal Buco, verso casa.

    Ma mentre mi stavo girando, una mano mi afferrò il polso, quello reo attaccato alle dita che avevano sfilato il borsellino.

    Cercai di divincolarmi, ma la presa era troppo forte. Apparteneva al vecchio, che aveva lasciato cadere il bastone e stava perfettamente eretto, con le spalle dritte. Era in realtà alto e massiccio, quel lurido imbroglione.

    «Al ladro!», urlò, con potente voce da basso. «Al ladro! Aiutatemi!».

    Estrassi il rasoio e glielo puntai contro: non è né grosso né particolarmente impressionante, ma è pericoloso abbastanza da farmi mollare dai soliti gonzi. Quello però non lo degnò neanche di uno sguardo. Mi fissava negli occhi con sguardo imperioso e impavido, come se fosse un re e io un verme strisciato sul suo cammino. Mi aveva in suo potere e voleva che lo capissi.

    Cercai di liberarmi. Non volevo usare il rasoio a meno che non fosse assolutamente necessario – se le cose si fanno cruente, poi non si può più tornare indietro – perciò vibrai dei fendenti in aria avvicinandomi a poco a poco alla sua mano.

    Lanciai intorno un breve sguardo e vidi che Tommaso era già scappato. Gli avevo sempre detto che se uno dei due fosse stato preso, l’altro doveva correre come il vento senza voltarsi: ognuno per sé. Anche se fossi stata incline a preoccuparmi di ciò che poteva accadere a un bambino di sei anni solo per strada, non ce n’era motivo, perché Tommaso aveva un invisibile vantaggio. Sotto i cenci, indossava il mio bene più prezioso: un magico talismano d’argento, che in quell’istante avrei voluto con tutta l’anima avere io.

    Dieci anni prima all’orfanotrofio, quando non ero molto più grande di Tommaso, suor Anna Maria mi aveva preso da parte in giardino, dietro un alto ginepro dove nessuno poteva vederci, e mi aveva mostrato quell’amuleto.

    Cos’è?, avevo chiesto, piena di curiosità, fissandole il palmo della mano, con sopra quello che sembrava un grosso medaglione d’argento su un laccio di cuoio. Se avessi parlato a quel modo – con infantile schiettezza – alla badessa che gestiva l’orfanotrofio, mi avrebbero spaccato i denti. Nelle bambine la franchezza non era tollerata. Ma suor Anna Maria era paziente e in genere gentile.

    È un talismano, aveva spiegato. Un ciondolo, che ti hanno dato probabilmente per proteggerti, anche se i bravi cristiani non dovrebbero credere in cose simili. Ma è giusto che lo abbia.

    Avevo levato lo sguardo, sorpresa. Indossava un abito bianco perché era estate e si era accovacciata in modo da potermi parlare faccia a faccia. Aveva un volto molto lungo e sottile, con un naso troppo grosso e labbra troppo sottili, ma occhi grandi e belli.

    Perché, sorella?, avevo chiesto.

    Perché lo portavi il giorno in cui ti trovai fuori nella vasca, aveva detto.

    Qui a Firenze, i neonati abbandonati vengono lasciati nella vasca, una spaccatura in realtà, scavata nella bella fontana marmorea nella piazza antistante l’orfanotrofio. Prima dell’alba, le madri o altri parenti lasciavano lì i neonati, dove le monache li avrebbero trovati al mattino. Nessun’altra città d’Italia, o probabilmente d’Europa, era progredita quanto la nostra. Nessuna madre doveva provare vergogna o disperazione, perché lo Spedale degli innocenti era non solo nuovo e pulito, ma anche un capolavoro di architettura. I suoi benefattori erano estremamente ricchi e di conseguenza i bambini erano ben nutriti e vestiti.

    A quanto pare mia madre aveva sentimenti contrastanti riguardo alla mia sopravvivenza: ero stata lasciata nuda nella fredda pietra in pieno inverno. Nuda, se si eccettuava il talismano. Se non mi avessero trovata e portata dentro in fretta, sarei morta.

    Avevo fissato il lucente metallo in mano alla suora.

    Perché non me ne avete parlato prima?, avevo chiesto.

    È molto, molto raro e prezioso. Non eri grande abbastanza per custodirlo con cura, aveva risposto.

    Volete dire, per nasconderlo alla badessa. Mi riferivo a quell’acida Serva di Maria di suor Maria Ignatia, la badessa del convento annesso all’orfanotrofio. Me l’avrebbe strappato dal collo e mi avrebbe picchiato per aver indossato un oggetto tanto esecrabile.

    Suor Anna Maria aveva annuito tristemente. Non farglielo vedere mai. Non puoi neanche mostrarlo agli altri bambini, altrimenti lo scoprirà e te lo prenderà.

    È dei miei genitori, avevo detto lentamente. Le gote e il collo mi ardevano, la voce tremava. Il talismano era raro; era prezioso. Questo significava che i miei genitori erano stati – o erano ancora – ricchi. Avevo sempre immaginato fossero poveri, e che fossero morti prematuramente a causa di una delle epidemie che sempre colpivano i quartieri più miseri della città o che non avessero da mangiare e neanche un cencio in cui avvolgere la figlioletta.

    In altre parole, credevo che mi avessero abbandonato o perché erano morti e non potevano fare altrimenti o perché mi amavano e volevano darmi una vita migliore.

    Ma no, i miei genitori erano gente ricca. Quindi avrebbero potuto offrirmi una vita molto migliore. Anche se erano morti, o io ero una bastarda, a Firenze c’era comunque una ricca famiglia che mi considerava un incomodo.

    Suor Anna Maria mi fece cenno con un sorriso di prendere il disco d’argento. Lo afferrai e lo gettai con violenza in terra. Lo stavo schiacciando con la suola quando mi aveva preso per le braccia tirandomi via.

    Ti volevano bene, mi aveva detto con grande sicurezza, altrimenti non l’avresti avuto. È molto prezioso. Devi tenerlo, l’hanno toccato le mani di tua madre.

    Ci avevo sputato maldestramente sopra e gran parte della saliva mi era rimasta sul mento. Se mi avessero voluto bene, avevo ribattuto con amarezza, non sarei qui. Se l’ha toccato lei, non lo voglio.

    Ero corsa via.

    Non avevo guardato suor Anna Maria per una settimana, ma poco dopo avevo cominciato a pensare al talismano. Era mio, e la suora aveva detto che valeva molto. Potevo tenerlo da parte per venderlo il giorno in cui avrei lasciato l’orfanotrofio.

    Quindi avevo cominciato a lanciare segnali alla buona sorella per farle capire che avevo cambiato idea. Mi aveva ignorato per alcuni giorni, ma vista la mia insistenza, alla fine me l’aveva consegnato. Di nascosto, ovviamente.

    Abbine cura, aveva detto. Non è un talismano qualsiasi. Guarda: ha il marchio del Mago di Firenze. Quel piccolo sole e la luna congiunti, vedi la minuscola mezzaluna? L’aveva indicata con un’unghia. Circonda il sole, quel cerchio con un puntino al centro. Lo vedi come stanno sulla punta interna della M, vicina alla F?

    Era un bel medaglione massiccio con iscrizioni in bassorilievo. Strane linee e simboli ornavano una faccia e sul rovescio c’era un quadrato con diverse file di numeri apparentemente casuali.

    Alla menzione del Mago mi era sfuggito un gridolino di paura e mi ero chiesta come mai una monaca fosse a conoscenza di cose simili.

    È maligno?, avevo domandato. Non che m’importasse, ma avendoci sputato sopra temevo potesse venire qualche demone a punirmi.

    Suor Anna Maria aveva sorriso un po’ divertita. È stato fatto per proteggerti, Giulia, quindi come potrebbe essere maligno? E l’ha fatto. Ovviamente non devi parlarne alla badessa…

    Già da tempo ero giunta alla conclusione che la badessa fosse una vera idiota, quindi sicuramente non le avrei detto niente. Presi il talismano e lo guardai.

    C’erano altri maghi in città, ciarlatani per lo più, ma un solo leggendario Mago di Firenze. Persino gli orfani, protetti dal mondo oltre le mura del convento, lo conoscevano: era antico, immortale e l’uomo più pericoloso della città perché i suoi poteri erano illimitati. Poteva costringere gli uomini a uccidere contro la loro volontà, a innamorarsi, a obbedirgli ciecamente. La sua clientela era costituita dagli assetati di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1