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Il fantasma di Ermanno Bragaglia
Il fantasma di Ermanno Bragaglia
Il fantasma di Ermanno Bragaglia
E-book237 pagine3 ore

Il fantasma di Ermanno Bragaglia

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Info su questo ebook

Una famiglia travolta dalla strage alla stazione di Bologna. Il ragazzo si sente responsabile della morte di sua madre. Fra padre e figlio cresce un rapporto segnato dalla violenza. Fino al distacco che si consolida nel tempo, assorbito in una reciproca dimenticanza. Ma i ricordi riemergono alla morte del vecchio Bragaglia, complice una agenda rossa che rivela una figura sconosciuta: il ritratto che si compone stabilisce uno scambio di uomini in una cornice quasi poetica di sessualità ossessiva. Una comunanza surreale di sogni e meschinerie per riappacificarsi con un brindisi celebrato nel letto dove il vecchio si è suicidato.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2019
ISBN9788867829699
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    Anteprima del libro

    Il fantasma di Ermanno Bragaglia - Rino Margiotta

    Rino Margiotta

    Il fantasma di

    Ermanno Bragaglia

    Rino Margiotta

    Il fantasma di Ermanno Bragaglia

    Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    Tel 02.90970439

    www.gdsedizioni.it

    Tutti i diritti sono riservati

    DISPONIBILE ANCHE IN VERSIONE CARTACEA

    I

    «In contrapposizione non funziona.»

    «Sono d’accordo. È un rischio sistemico.»

    Lo studio televisivo brillava di luce arancione. «Le do un dato: ieri quattrocentoventi. Il centro di accoglienza ormai è collassato. » L’uomo sillabava «Col-las-sa-to».

    «È pieno di nigeriane.» Quasi s’inabissa sotto il tavolo ovale, forse aggrappato sull’orlo dell’ignoto, in un mondo primordiale abitato da fantasmi dalla pelle nera, abitatori di foreste inaccessibili, sulle sponde di fiumi che insinuano una giungla abitata da inumani con l’osso al naso. Forse pensa ad animali antropomorfi, nel suo dialetto siciliano con un intartaramento di voce.

    «Mai viste tante nere sui viali, sembrano pantere. »

    «Probabilmente quando vai a puttane te le cerchi negli anfratti bui», sorrideva Massimiliano Bragaglia abbassando il volume del televisore.

    «Mettono pure paura.» Spuntavano nere nella sua notte. «Avete notato? Sono tutte grosse.»

    A Bragaglia piaceva la calata sicula, la Trinacria madre, ma nella sua bocca era oscena, sputa parlando.

    «Non scherziamo, anche a me hanno dato del populista. Benissimo! Ma questa parola va bene per me, non per lei.»

    «E cioè?»

    «Per me è categoria politica, non mentale.»

    «Cioè io sarei razzista nell’anima?»

    «Lei è prepolitico. Occorre un progetto politico di ruo-lo», dice puntando la voce su ruolo, con la mano destra tesa di taglio. «Dell’Eu-ro-pa!» urla sillabando anche lui, mentre Massimiliano Bragaglia si dirigeva verso la parete, pronto ad abbattersi sulla zanzara. Che vola via. Ma gli gira intorno. Gli gira troppo intorno. Il suo sangue deve essere una leccornia. Di notte si divertiva davanti alla finestra, con la luce accesa, petto nudo protetto dalla zanzariera. Le aspettava, e loro si avvicinano. Annusavano la preda. Si attaccano alla retina. Lui, vicino a loro, ci strusciava il corpo mentre zampettano vogliose. Avrebbe potuto dargli la dritta per attraversare la rete. Prima una zampetta, poi la testa, altra zampa, l’addome, cucù! Non si passa. Così fragili su quelle leve eleganti da fenicotteri. E lui guancia a guancia per guardarle negli occhi. Ammesso di potersi riconoscere; lui le riconosceva, ma loro lo riconoscono? La leccornia che sta dall’altra parte, che avrebbe voluto guardarle sotto un microscopio. Sicuro avranno occhi inquietanti, globi di un altro mondo. Tutto al microscopio diventa alieno, è il terrore dell’infinitamente piccolo, ma ci portiamo dentro anche l’infinitamente grande, ed è una specie di paura con due teste.

    Anche la sua pelle liscia, che Marilena qualche volta gli ha detto hai la pelle di un ragazzino, neanche quelle pietruzze dure di grasso consolidato. Sì, va bene... ma sotto il vellutino sette bellezze c’erano metri di trippe aggrovigliate.

    Quella zanzara la rivedeva girare intorno alla televisione. Ammesso ci sia soltanto lei. Comunque l’aveva vista anche ferma sulla tenda. Difficile beccarla fra quelle pieghe che sventolano sotto il getto d’aria del climatizzatore impostato a velocità alta. C’era il manuale del telecomando ancora sul comodino – l’indirizzo del centro assistenza in viale Aristide Merloni 45 era stato evidenziato con un pennarello giallo – e l’Ariston soffiava contro la tenda un ondulamento che sicuro dà fastidio al dittero; non era anofele, questa è nera, adesso c’è l’invasione delle nere.

    Volò via ancora, e adesso sta sul muro, in campo aperto. Finalmente un punto nero fermo su fondo bianco, finalmente! E Massimiliano scattò con il cuscino della poltrona verso la parete, come la cavalletta con la katana nel fumetto che stava guardando prima d’addormentarsi… qualcuno l’ha dimenticato nel cassetto del comodino. La cavalletta gridava nella sua nuvola sonora, Attack!

    «Centro! Merdaiola, c’è le paste!» Sottovoce per non svegliare Marilena. Si può gridare nella mente e pensare di aver parlato sottovoce, si può. E scalzò il cadavere dalla parete come lanciava le biglie di vetro che hanno dentro un’elica colorata, da bambino, sulla spiaggia, sulle piste di rena con i contrafforti più alti in curva. Il pollice trattiene l’indice a elastico, tic!

    Restò soltanto un grumo rosso sul muro, il filo rosso di un cadavere. Uno in più nell’elenco. Alla fine saremo tutti insieme, con le zanzare ci saremo noi, ci saremo tutti, sarà la rivincita della morte. Tutti insieme messi in fila si farà mille volte il giro del mondo, tanto per fare cifra tonda nel girotondo. Cascherà anche la terra, e via. Restava in piedi la televisione:

    «Siamo di fronte a un esodo di proporzioni bibliche, ci sarà la guerra dell’acqua.»

    «Qualcuno prima o poi comincia...»

    «Intanto corrono sul mare... cercano di arrivare prima.» Era un giornalista de Il Sole 24 ore, collegato da Reggio Calabria.

    «Arriveranno…», dava l’idea di una corsa sulle onde, quasi che il mare potesse aprirsi, e i popoli scalzi si bagnavano appena le caviglie.

    «È una corsa ad ostacoli... », era un rovesciamento di continenti.

    I popoli, per non morire, sono destinati a colonizzare il mondo. Anche perché serve sangue nuovo a vecchi concallati. E questi fringuelli trasfondono seme, inondano. Nessuno potrà fermarli, neanche l’acqua del mare. Eppoi mare ce n’è sempre di più. Si sono alzate le temperature, si sciolgono i ghiacciai, sale l’acqua. E loro sempre avanti tutta. Certo, era dura pensare che anche Venezia sarà sommersa perché non la possono salvare le palafitte in una laguna che continua a salire, e certo non smetterà di crescere con la favola del Mose che non è quello dell’Esodo che divide le acque del mare ma una meccanica che assomiglia alla favola di chi voleva svuotare il mare col secchiello. Che anche ammettendo il secchiello, si vede benissimo che ce l’ha sempre in mano chi ributta l’acqua in mare. Tanto sarebbe lo stesso anche gettarla per terra, alla fine tornerà al mare, magari passa attraverso le rocce e filtra il sale, ritorna dolce ma poi si rimescolerà nel salato. Ci vorrebbe un organismo in grado di assimilare solo le percentuali potabili, pensava Bragaglia.

    Ma aspettando che passa un milione di anni, meglio lasciare il secchiello, e giù di pala, piccone, scavatrice, scavare a terra e piantare fondamenta per barriere ciclopiche contro il mare. Certo, non si può escludere che scavando magari si trova una vena aurifera. Quella sicuro se la prende lo Stato; in politica sanno come pescare in questa terra, e per non sbagliare sono diventati pescatori dell’anima. Pescatori di frodo che qualcosa trovano sempre, magari pescano la parola giusta. Adesso andava l’esodo e ci inzuppavano il savoiardo.

    «È una guerra!» Batteva le mani sul tavolo quello delle nigeriane, mentre sullo schermo passano i suoi titoli, professore della facoltà di scienze politiche, nominato nell’osservatorio nazionale sulla famiglia, quest’uomo sta intrafficato a livelli alti, però non scrivono quanto guadagna, proprietà mobili, immobili, entrature. Niente. Solo devoto alla scienza e alla repubblica.

    «Pallesticazzi.» Lo conosceva bene Massimiliano Bragaglia, quel viso prognato dai lineamenti allentati, la pelle flaccida che scivola sul collo; dalle maniche uscivano due manine grassocce, frenetiche, che si muovevano a zampe di scarafaggio rovesciato sul dorso, quando cerca la spinta per tornare in posizione. Aveva colto l’abbrivio, non vuole smettere di parlare, si agita, e Massimiliano invece l’avrebbe tenuto lì a pancia all’aria fermo sul tavolo in televisione, con uno stuzzicadenti infilato nell’ombelico, infilzato su un panno di velluto come una farfalla del Madagascar.

    «Bisogna accettare l’idea che siamo in guerra», insiste.

    «…Ah, vuoi la guerra? Pezzente! » Ci vorrebbe stare lui in trasmissione. «Bene. Allora ti levi dai coglioni e vai a difendere la cristianità nel califfato. I califfatori ti aspettano. Hanno ripreso a tagliar teste e apprezzano il maiale benedetto da Dio e dagli uomini della parrocchia! Pezzo di merda»

    Ma non smette: «Affondare tutti i natanti. Appena mettono la prua in acqua, affondare!»

    «Ci saranno pure i pescatori o no?», si era inserito da Reggio Calabria.

    «Tornino a fare gli agricoltori! Ormai è guerra, dobbiamo capirlo!»

    Quest’uomo ha il potere di solidificare le caccole sciolte dell’umanità peggiore. Per smascherarlo bastava far scorrere nei sottotitoli quello che ha detto contro le unioni civili, contro i finocchi e le lesbiche, le sue filippiche di antifascista ma anche anticomunista, quasi volterriano, liberista e keynesiano, in una sorta di eterogenesi che qualsiasi cosa dice e da qualsiasi parte la tira fuori, manifesta sempre la stessa natura viscida, leccaculo e massone di uno stato forte. Non conosce il rispetto.

    «‘Ntarricchie! Vafammocc a amammeta!»

    Il dialetto napoletano risponde perfettamente a certe miserie. Che se invece di cavalcare la guerra contro i migranti avesse cavalcato un’onda di luce, il suo tempo sarebbe fermo, avrebbe finito di parlare, per sempre. E invece si muove, continuava ancora più prognato a trastullarsi le mani.

    «Affondare i barconi!» Non la smette. A uno così il tempo potrebbe almeno rallentare per farlo riflettere. Ma non lo fa. E allora, via all’orizzonte degli eventi! Inghiottito da un buco nero! Gli piaceva immaginarselo allungato a stringa urlante, niente mascella, solo un urlo cosmico. Nessuna grazia. L’avrebbe fatta attraversare a lui l’Africa a piedi; le carovane, l’acqua putrida con i vermi visibili, che magari erano pure meglio di quelli che non si vedono. E andare avanti che uno su cento ce la fa, se riesce a resistere, perché appena lo vedono in panne fanno presto a lasciarlo indietro. Piste intere segnate con ossa levigate dalla sabbia, che quelle in fondo al mare sono un’insalatina di contorno, pensava Massimiliano Bragaglia seduto ai piedi del letto a un metro dagli occhi languidi di Pallesticazzi, con la voce della televisione al minimo per non svegliare Marilena che ancora dorme, forse dorme anche meglio con questo brusio di voce confuso al rumore del climatizzatore che sembra mettere in circolo parole ariose di ninnananna.

    «Infilerei a te sottocoperta al posto loro…giusto una botola per l’aria. Ti piacerebbe? Ci vorresti mettere la funcia per respirare? Ahi ahi ahi, ti è andata male… qualcuno si è seduto proprio sul buco. Aria finita. C’è la coperta sopra. La vedi una veste color cammello a striature? Eeeh, usano baracani, dicono tengono fresco anche d’estate. Guarda, non ce la fai più… la trippa t’esce dagli occhi.»

    «Sto facendo un ragionamento. Io non ce l’ho contro i neri...»

    «Insisti pure, piezz’ e mmerda. Ma non muori? Quanto ti pagano per non morire? Sicuro prendi più soldi dello scafista! Questo gli devi dire, stronza! Non gli devi far nominare neri . È possibile che non sapete chiamarli senza colore. Le parole ci sono già, non le dovete mica inventare, stronza!» E spense la televisione. «Dovrebbero pagare me per fare il conduttore! Allora si…»

    Stava per andare all’ultimo appuntamento con suo padre. Sapendo di averlo conosciuto così poco. Come se fra loro ci fosse stata una storia incompiuta… ma in fondo per tutte le cose è sempre così. Si arriva a un certo punto, poi si resta indietro. Ma anche andare avanti è sempre lo stesso margine che si allontana, che quasi raggiunto si allontana ancora: esprime il limite dell’indicibile. Il più delle volte è compreso nella farsa. Anche la morte di suo padre non sembrava una tragedia. Avrebbe potuto persino riderci sopra. Non lo faceva, ma una sorta di sorriso probabilmente ce l’aveva in faccia. Se lo sentiva…e per vederlo andò in bagno. Sulla specchiera non c’è niente che faccia trasparire l’ingresso di una morte che non è una morte qualsiasi… si tratta della morte di suo padre. Ma la morte è un lutto che appartiene di diritto a chi resta innamorato, e certo quello non era lui, suo figlio. Forse più Piero Anselmi, l’amico che piangeva al telefono. Massimiliano invece era rimasto muto. Gliel’aveva passato Marilena, così ha saputo che la sua amica è figlia dell’amico di suo padre. Un uomo che stava piangendo per consolare il figlio che non piangeva, si limita a parlare. «Quando?», «Com’è successo?», «Dove?», «Forse suicidio...», «Ah... ». Anselmi però non ci crede al suicidio, sicuro si tratta di uno sbaglio aveva detto. Impossibile il suicidio. E se anche fosse, perché?

    Comunque non cambiava. Dentro di lui, in fondo, suo padre era un vecchio che aveva smesso di frequentare. Si trattava di un vecchio. Muoiono giovani con tutta la vita davanti e i vecchi resistono concallati nei letti che sanno di piscio. Meglio sia morto lui. Le persone che credono nella scienza sanno che il tempo non è altro che una persistente cocciuta illusione. Ieri suo padre c’era, oggi non c’è più. Bisogna avere fiducia in una scienza che dovrebbe allungare la vita dei giovani, non quella dei vecchi. Che devono morire… bisogna ragionare su questo... magari ragionando così nascerà la nuova branca di una medicina calibrata da zero a venti anni, fine. Una nuova scienza fatta solo per loro, per mandarli dritti sani fino ai venti.

    Massimiliano stava facendo una specie di esperimento scientifico. Lo faceva sulla sua pelle, ed era riuscito a non concedersi neppure una lacrima per una morte che assomigliava a un sigillo burocratico sopra un legame interrotto.

    Era passato troppo tempo. Aveva tagliato la corda, un momento preso al volo durante la sagra di san Bernardino, nel capannone sotto la volta della Misticanza. Se lo ricordava benissimo Ermanno Bragaglia capotavola che dice testuale: «Qui si sta alle mie condizioni! Sennò aria!»

    «‘Fanculo!» gli aveva risposto. E suo padre s’era avventato da bestia, e lui aveva sentito la mano pesante abbattersi, più orecchio che guancia. E tutto rintronò sotto la volta, con la gente intorno, gli amici suoi e quelli di suo padre. E lui a terra ubriaco, perché aveva continuato a bere in faccia a suo padre. E bevendo lo guardava negli occhi, ogni bicchiere glielo faceva vedere bello in alto. E suo padre li avrà contati quei bicchieri. E lui continuava a brindare…però adesso era a terra sotto tacco a suo padre, davanti agli amici che guardano e aspettano una risposta. Che c’è stata. Massimiliano aveva afferrato un coltello dal tavolo, uno di quei coltelli per tagliare la carne, con il manico di legno e la lama seghettata. E aveva fatto solo la mossa, che sicuro si sarebbe fermato. Ma non aveva avuto neanche il tempo di fermarsi perché intervengono gli amici. E lui era rimasto così, come un pupazzo svuotato con un coltello in mano. Poteva solo urlare, mentre lo trascinano via da suo padre che però riusciva ancora a sentire il figlio che grida: «Razza di bastardo, devi morire! Uomo di merda che non sei mio padre, non sei mai stato mio padre!» E suo padre era rimasto fermo, non si è neanche alzato dalla sedia, forse non immaginava quest’odio. Neanche suo figlio lo poteva immaginare, forse perché non c’era, ma si è messo in moto e si alimentava da solo per una sorta di scissione di una potenza oscura.

    E adesso che è morto, riusciva a pensare suo padre come materia inerte ma anche come lo vedeva da vivo. I pensieri si equivalevano, erano della stessa consistenza. Il fatto che sia morto non cambia la struttura, il calore, il colore. In fondo appartenevano alla stessa razza di pensieri. Se aggiungi una postilla di morte, sembra un’appendice senza valore. Forse perché era una morte giusta. Era lo sfaldamento giusto della materia. Si sciolgono i ghiacciai. Lo scivolamento nel grande mare, nella grande terra. Dove tutti saremo inglobati, i vecchi giustamente prima. Uccidi tuo padre! Uccidi tua madre, sono parole classiche di ogni processo evolutivo. Lo diceva anche il Buddha: «Quando m’incontri, uccidimi!» D’accordo, Massimiliano aveva anche pensato di ammazzarlo... poi aveva capito che per uccidere veramente si devono distruggere cose indistruttibili come le ideologie… dio stesso in persona.

    Nel flusso dei ricordi Massimiliano era anche il chierichetto che recitava il quarto e il quinto comandamento e traduceva dal latino «Domine non sum dignus, copula, ut intres, congiuntivo, sub tectum meum... et sanabitur anima mea.» Tutto imparato a memoria. Erano squarci improvvisi, entrati in un fascio di luce. Vicino al chierichetto c’era un altro ragazzo che tornava a casa. Sempre lui, ma non per uccidere. Nascosto fra gli alberi, gli eucalipti squamati con le cortecce rosa, fissava il portone di casa. Finalmente Ermanno Bragaglia era uscito. Metodico, verso le dieci la passeggiata sul mare, l’antemurale. Aveva almeno un’ora di tempo. Gli era bastato meno per rubare i soldi nel cassetto del comodino, quasi settecentomila lire; se li rivedeva ancora ordinati sotto il libretto della posta. Ed era scappato via. Senza sentirlo più. Due anni, sì, almeno due anni. Poi la prima volta per telefono, da Londra; poi la prima volta a casa sua, poi la seconda e via andare, erano ripartiti. Comunque sempre così, quasi di passaggio.

    Veniva lui, suo padre mai. Un duro fino alla fine: aveva vinto. Comunque, uno da una parte uno dall’altra; in mezzo, terra di nessuno. Ma erano soltanto trecento chilometri, cinquanta di strada statale, poi tutta autostrada, che se l’era fatta in poco più di tre ore. Poi stanotte l’aveva sognato: non sembrava neanche suo padre, però era lui, legato su una sedia enorme, un vecchio bavoso sopra una specie di seggiolone, aveva pure un bavaglino. E adesso era la presenza paradossalmente vuota di un uomo, come una corrente che lo attraversava a ondate, lasciando sul fondo scoperto morene che affiorano, e rivedeva le mani carnose pesanti che sfogliano le pagine di un libro. Le mani del professore di lettere all’istituto tecnico Cesare Beccaria, via Martiri della Libertà. Ma era anche il Marchese del collegio docenti, perché si dava malato ogni mese, magari anche solo un giorno, periodico e costante come un ciclo mestruale. E se lo rivedeva col nasone carnoso straripante di sbirulini grassi dalla punta nerastra. Ma gli occhi non riusciva a vederli. Come occhi di avorio, non riusciva a vedere le pupille. E non le avrebbe riviste. Occhi chiusi per sempre. Che colore avevano? Quando gridava erano lampi che inceneriscono. Occhi che alimentavano la gelosia di un bambino. Geloso di quella potenza. I suoi polmoni riuscivano a gonfiare la borsa dell’acqua calda, un numero da circo che lo faceva rassomigliare a un Ercole, che mamma gli batteva le mani per farsi sollevare come una foglia. Anche il bambino batteva le mani. E allora lui solleva tutti e due, mentre Massimiliano lo guarda come un miracolo, uguale a quelli del catechismo, così il suo Ercole poteva essere anche Gesù cristo. Mentre sua madre non sarebbe mai stata la Madonna: di lei non poteva essere geloso

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