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Metti una sera in val codera
Metti una sera in val codera
Metti una sera in val codera
E-book190 pagine2 ore

Metti una sera in val codera

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Info su questo ebook

Giugno 2004. È una splendida giornata, il clima ideale per fuggire dalla monotonia della vita da pensionati, disintossicarsi dai mali della città e concedersi un’escursione in montagna. Ed ecco che cinque amici decidono di avventurarsi per i sentieri della Val Codera, zaino in spalla, cappellino in testa, bastone in mano. Il paesaggio intorno è incantevole, il silenzio è quiete, senso di libertà, benessere interiore, il viaggio dei cinque amici è come la vita, faticoso ma bello, lungo ma soddisfacente. La montagna è impegno, determinazione e sudore, ma è anche soddisfazione per il risultato ottenuto. La montagna, però, ogni tanto colpisce con i tranelli dovuti alla natura stessa del terreno, con i dirupi, i precipizi e i cambi repentini delle condizioni atmosferiche. A volte è vendicativa, anche con chi la ama. Ed ecco che una salutare giornata in montagna diventa improvvisamente pericolosa e piena di potenziali insidie in cui si può addirittura mettere a repentaglio la propria incolumità, ma è anche l’occasione per una riflessione intima e profonda sulla vita e sui ricordi personali, sfociando nell’ironia e a volte nell’autocritica. Le brutte esperienze, quando terminano senza lasciare strascichi, possono anche divenire delle belle storie da raccontare.

Giancarlo Cerasi è nato a Urbino nel 1942, ma a 8 anni si è trasferito con la famiglia a Macerata, dove ha compiuto gli studi. Ha svolto vari lavori fino a trovare impiego stabile presso una società petrolifera del Gruppo ENI a San Donato Milanese. È sposato dal 1971 e ha una figlia. Sin da giovane ha frequentato gli ambienti sportivi dedicandosi soprattutto al calcio e all’atletica leggera: poi, in età adulta, è passato al tennis, sport che tuttora pratica. Una volta andato in pensione ha deciso di rientrare nei luoghi della sua fanciullezza tornando quindi nelle Marche, prima a Corridonia e poi definitivamente a Macerata.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ago 2018
ISBN9788856792768
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    Metti una sera in val codera - Giancarlo Cerasi

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-567-9276-8

    I edizione maggio 2018

    www.gruppoalbatros.com

    Libri in uscita, interviste, reading ed eventi.

    METTI UNA SERA IN VAL CODERA

    (Il portafoglio)

    INTRODUZIONE

    Il presente racconto concerne una avventura-disavventura vissuta direttamente dall’autore (Giancarlo), in occasione di una giornata particolare passata in una località di montagna in compagnia di quattro amici.

    Quanto descritto non ha minimamente ambizioni letterarie, ma è stato riportato su carta per uso e consumo dei cinque protagonisti e di qualche altro curioso che avrà voglia di leggerlo per farsi due risate.

    Il narratore, che all’epoca dei fatti era un sessantaduenne, è un pensionato che ha trascorso una quarantina d’anni nell’hinterland milanese, ove, da giovane, si era trasferito per motivi di lavoro dalle natie Marche: natie Marche nelle quali è in seguito ritornato definitivamente.

    La parte iniziale, di carattere autobiografico generico e non prettamente inerente alla disavventura stessa, è stata inserita come preambolo necessario per descrivere, in brevi linee, le situazioni ambientali e le condizioni fisico-psichiche anche degli altri componenti della spedizione, componenti essi stessi pensionati come l’attore principale.

    Tutto ciò che è riportato in ordine cronologico, dall’alba sino a notte fonda, è stato realmente vissuto dall’interprete principale e, se qualche riferimento risultasse inesatto o parzialmente errato, nessuno se ne dolga, non state lì a fargli le pulci: con l’età, si sa, la memoria se ne va.

    Dovete inoltre tenere presente che il tragitto montano descritto, compiuto più di cinque anni fa, non è stato più rivisitato e può quindi confondersi con ricordi di altri percorsi, abbastanza simili dal punto di vista paesaggistico, in precedenza o in seguito compiuti.

    Anche i dialoghi intercorsi tra i cinque compagni di viaggio potrebbero non corrispondere ad litteram a ciò che è stato veramente detto; il narratore, infatti, non ha mai interpellato i suoi amici al riguardo, anzi, non ha mai fatto neppure menzione della sua reale intenzione di scrivere un resoconto di quella particolare giornata onde poter far loro in seguito una lieta sorpresa.

    Ogni tanto, il personaggio principale fa delle considerazioni terra terra, quelle per intenderci dell’uomo della strada, ma esse non vogliono assolutamente riconoscersi in pensieri filosofici. A volte, egli riporta detti comuni cercando di interpretarli e spesso si pone degli interrogativi circa alcuni aspetti della vita; saltuariamente scantona anche nell’ironia.

    Bisogna inoltre considerare che il salire ed il discendere montagne, da soli o in compagnia e per varie ore, offre molti spunti alla mente che vaga dal reale al fantasioso e, quando si è molto stanchi e preoccupati, scavalca anche il limite della normalità rasentando persino il demenziale.

    In alcune occasioni, il protagonista non è tenero con se stesso, in special modo quando commette degli errori, errori che, come sempre con il senno del poi, potevano benissimo essere evitati

    Lo scrivano, saltuariamente, mette in mostra un malcelato risentimento nei confronti dell’altro sesso verso il quale, a dire il vero, ancora manifesta un discreto interesse; trattasi di una normale rimostranza nei riguardi di coloro che, anche dopo molti anni di convivenza, ogni tanto non capiscono cosa passa nella mente degli uomini.

    Nell’insieme del racconto s’intrecciano fatti reali con ricordi del passato. Sono, infatti, riportati alcuni aneddoti di vita trascorsa, alcuni dei quali, anche se venuti a galla solo parzialmente durante il tragitto, sono stati in seguito approfonditi per renderli più esaurienti. Queste reminiscenze, con riferimento soprattutto al lontano periodo giovanile, sono anch’esse passibili di piccole inesattezze mnemoniche.

    La forma è quella che è: di sicuro in giro c’è di meglio, ma l’autore spera che il benevolo lettore apprezzerà in ogni caso la sua buona volontà.

    L’andamento discorsivo di tutta l’opera gli ha spesso suggerito di trascurare la ricerca dei sinonimi di molti termini, siano essi avverbi, sostantivi, aggettivi o altro; per poterli differenziare avrebbe dovuto appellarsi ad una cultura ben più ampia di quella in suo possesso. In un frangente però, per manifestare il dubbioso stato d’animo del momento, lo scrittore ha provato a cimentarsi con autori più competenti, inserendo un breve inserto d’indirizzo poetico.

    Nel tentativo di coinvolgere maggiormente il lettore, con il quale ogni tanto colloquia, ha cercato addirittura di renderlo partecipe, quasi fosse realmente presente.

    Buon viaggio

    Giancarlo

    Buonasera Signore!

    Buonasera a lei Signora!

    Erano le 22:35 di giovedì 10 giugno 2004.

    Due giorni prima, io, Giancarlo, ed i miei quattro amici: Paolo, Emilio, Armando e Luigi (tutti ex lavoratori), avevamo deciso di trascorrere finalmente una giornata fuori dalla monotonia della pensione, monotonia nel senso del dover fare ogni giorno le stesse e quasi sempre poco stimolanti cose, anche se con orari di nostro gradimento.

    Ogni tanto, negli abituali e pressoché quotidiani sfaccendati incontri serali passati in compagnia di altri ex colleghi, il discorso toccava l’argomento noia sul quale non sempre tutti ci trovavamo d’accordo. In effetti, facendo una disamina del tema e tenendo conto dei pro e dei contro, non era insolito concludere che, quasi quasi, era meglio quando si stava peggio, vale a dire quando si andava in ufficio, facendo soprattutto riferimento al nostro ultimo periodo lavorativo.

    In realtà, quando eravamo ancora nel mondo del lavoro (tutti ex dipendenti di diverse Società del Gruppo ENI in San Donato Milanese), trovavamo sempre qualche motivo per lamentarci del nostro status, ma nel complesso, a guardar bene, esistevano anche dei concomitanti aspetti positivi che rendevano l’insieme abbastanza equilibrato.

    Quel che ci piaceva di meno (ovviamente tutti i ragionamenti sono al maschile), era la sveglia mattutina che, per cinque giorni di fila, ma soprattutto il lunedì, ci obbligava ad alzarci ad un’ora stabilita, mentre ci sarebbe tanto piaciuto restare a letto a poltrire ancora un po’. Seguiva quindi un iter già pianificato e consolidato come: lavarsi, radersi, vestirsi, fare colazione e poi uscire per andare a fare il nostro, non tanto amato, dovere.

    I più fortunati usavano le proprie gambe per giungere nei diversi luoghi di lavoro, altrimenti venivano utilizzati i comuni mezzi di trasporto come la macchina, il treno, il pullman o i mezzi pubblici urbani e suburbani, secondo la distanza da percorrere. A volte si chiedeva un passaggio in macchina ad altri colleghi che facevano lo stesso percorso, favore che prima o poi veniva ricambiato.

    Con l’introduzione del recente moderno sistema di rilevazione delle presenze giornaliere tramite un microchip inserito nel tesserino d’identificazione di ogni dipendente (badge), finalmente non timbravamo o firmavamo più il famigerato cartellino, come avveniva un tempo. Ora, gli orari individuali di entrata e di uscita venivano elettronicamente registrati su di un tabulato ogni volta che transitavamo attraverso una delle diverse porte di accesso ai luoghi di lavoro. Questo procedimento meccanizzato provvedeva inoltre, automaticamente, a sommare ore e minuti di presenza, sia giornalieri che settimanali e poteva essere consultato online tramite video, onde verificare la propria situazione globale.

    Era nel frattempo andato in vigore anche il cosiddetto orario elastico, che ci consentiva una certa flessibilità sull’orario d’entrata da compensare, se necessario, con il prolungamento di quello d’uscita serale; per alcuni, invece, non c’era più alcun controllo formale, poiché la Società accordava loro una maggiore fiducia che, però, doveva essere ogni tanto ricambiata rimanendo qualche volta in ufficio oltre l’orario contrattuale e senza retribuzione aggiuntiva: non andavamo quindi più di gran fretta, come avveniva un tempo, quando gli orari erano inflessibili (suonava addirittura un campanello), ma sicuramente con più calma.

    Seguiva la mattinata negli uffici o nei cantieri, con tutte le quotidiane problematiche connesse con le nostre specializzazioni, quali: il tipo di lavoro, la gerarchia, gli attriti, le invidie e le chiacchiere, la responsabilità, le scadenze, l’efficienza, la meritocrazia, lo stipendio, la carriera, eccetera; insomma la perenne, difficile convivenza e concorrenza con il prossimo.

    Trascorso l’intervallo per il pranzo, anche questo con elasticità di durata, di solito in mensa oppure a casa, se abbastanza vicina, si tornava di nuovo al lavoro sino alla fine dell’orario contrattuale e varie volte anche oltre, o per fare degli straordinari pagati o per dovere d’immagine.

    Spesso, terminato il lavoro canonico, dovevamo inoltre assolvere ulteriori compiti necessari per il buon andamento della vita familiare; rimaneva pertanto sempre poco tempo libero da dedicare a se stessi.

    Il lavoro, tuttavia, sia mentale sia manuale, anche se duro, impegnativo, se non addirittura stressante, oltre che darci da vivere, ci riempiva la giornata, ci stimolava, ci gratificava, quando non ci mortificava e, in definitiva, ci teneva svegli in quanto sollecitava il fisico e soprattutto la mente.

    Che bello però, quando nel pomeriggio, non appena fuori dell’ufficio, effettuavamo tutti un profondo respiro per riempire i polmoni come se fossimo usciti da una prigione senz’aria. Prigione: capisco che il termine può sembrare un po’ esagerato, ma, in tutta sincerità, a quel punto era molto più bello trovarsi fuori perché, dopo aver fatto il nostro dovere, eravamo mentalmente pronti per dedicarci a qualcosa di più piacevole, ai nostri hobby, al nostro tempo libero.

    La felicità più grande si provava il venerdì sera: era per noi il momento più bello della settimana perché cominciava la vacanza, il week-end era alle porte con due giorni interi scevri da impegni lavorativi. Godevamo pure delle feste contrattuali, religiose o civili: una vera manna, come anche i ponti, da tempo programmati, e le lunghe sospirate ferie che, però, passavano sempre troppo in fretta.

    Le cose belle sono spesso proiettate nel futuro, sia esso vicino o lontano e sono lo zucchero della vita, poiché procurano quella dolce carica e quella forte energia che ci permette di superare altre situazioni sicuramente meno belle. Guai a non avere speranze per il futuro, a non avere sogni, interessi, piccole piacevoli aspettative e impegni al di fuori del dovere professionale! Bisogna sempre avere in mente un qualcosa che c’interesserà e ci rallegrerà, anche se, purtroppo, non appena lo realizziamo, questo qualcosa va subito a far parte del passato e perciò deve immediatamente essere sostituito da un altro progetto.

    Noi, abbastanza anziani del lavoro, trasferivamo nel futuro l’attuazione dei nostri desideri: praticare gli sport preferiti, fare scampagnate con la famiglia, andare a vedere un bel film, passare una serata a teatro o in una sala da ballo, e, perché no, trascorrere una salutare giornata in montagna.

    Ma non era sempre stato così.

    La mia generazione (parlo di coloro che sono nati nell’arco di tempo che va da poco prima dell’inizio dell’ultima guerra mondiale a poco dopo), quando era entrata nel mondo del lavoro, aveva per molti anni manifestato un deciso entusiasmo perché stava uscendo da un periodo socio-economico difficile e voleva fortemente costruire qualcosa. Noi, allora, avevamo fretta di andarcene via di casa, sia per un’espressa richiesta d’indipendenza individuale sia per un reale desiderio d’autosufficienza monetaria.

    Noi avevamo non solo il bisogno di lavorare, ma la voglia di lavorare sia per renderci utili nei confronti dei nostri genitori, che tanti sacrifici avevano fatto per educarci e per mantenerci agli studi, sia per mettere su famiglia che restava comunque il più importante ideale del nostro tempo.

    Il lavoro non ci metteva paura, anzi; esso destava il nostro interesse perché ci coinvolgeva in una nuova esperienza creativa e formativa. Andavamo al lavoro volentieri e, la sera, tornavamo a casa soddisfatti per l’opera compiuta, specialmente se il diretto superiore ce ne rendeva merito; il nostro sonno era tranquillo perché la coscienza era a posto.

    Molti di noi avevano lasciato il paesello (ma anche qualche piacevole città) per andare a lavorare, quasi alla ventura, in un lontano mondo sconosciuto ove luoghi, usi, costumi e dialetti apparivano a volte inusuali se non proprio coercitivi.

    Sarebbe stato molto più bello poter restare in zona, nell’amato habitat, tra le pareti amiche, con i propri familiari, con i propri coetanei, con il parlar locale e le abitudini consuete ma tutto ciò non era stato possibile a causa delle offerte di lavoro all’epoca notevolmente limitate in loco. Era stato necessario emigrare in altra regione che aveva maggiori scelte lavorative: e non era stato facile.

    Tuttavia la nostra grande forza risiedeva nella nostra giovinezza, nella piena consapevolezza di una realtà da accettare, nel senso del dovere, nella moralità e nell’educazione ricevute, senza dimenticare un particolare non meno importante anche se più materiale: finalmente avevamo in tasca qualche soldo in più da spendere, il che, con i tempi che correvano, non era poco.

    Quando si è giovani non si ha paura del futuro, non si pensa nemmeno al futuro perché il presente è già pieno di vigore, d’interessi, di spensieratezza, di gioia di vivere e di speranze non ancora deluse; però, col trascorrere degli anni, tanta ideologia va a farsi benedire. La non facile convivenza, i figli, il mutuo per la casa, la non sempre realizzata carriera, i problemi finanziari o di salute e la disillusione generica, che è di sovente una costante della vita, prendono il posto degli iniziali entusiasmi. Forse è inevitabile.

    Anche per noi era ormai passato il tempo dei grandi sogni e delle speranze.

    Non che avessimo tirato i remi in barca, no. In molti continuavamo a fare onestamente il nostro dovere, basandoci però più che altro sulla vasta esperienza acquisita, perché lo spirito combattivo, la voglia di innovazione e la tenacia iniziale erano divenuti sempre più fiochi, sino quasi a scomparire. Si lavorava più lentamente, senza fretta, pensando che fosse ormai compito degli altri, dei più giovani il darsi da fare. Anche se qualcuno di noi aveva raggiunto l’apice di un piccolo centro operativo ed era evidenziato nell’organigramma della Società, non si dannava più l’anima come prima ed aveva passato ad altri colleghi la palla dell’iniziativa e della ricerca, riservandosi però quella, senza dubbio ancor più importante, della responsabilità, del controllo e delle decisioni finali da portare alle alte sfere.

    Con il passare degli anni, la meta più agognata era divenuta la pensione, specialmente se la prospettiva sembrava abbastanza vicina; ogni volta che un governo ne allontanava la scadenza o ne ipotizzava la variazione, si prendeva, dai diretti interessati e non solo, un sacco d’accidenti ed anche di peggio.

    Peccato che la desiderata pensione, purtroppo, arrivasse quando si era un po’ avanti con gli anni, mentre sarebbe stato bello andare in pensione ancora giovani; in pratica, ci sarebbe piaciuto essere giovani e in pensione: desiderio condiviso da tutti, soprattutto oggi, ma ovviamente irrealistico. Forse un domani, quando il pianeta Terra sarà completamente robotizzato, molto probabilmente l’individuo avrà ben poco da fare; forse sarà perennemente in pensione e chissà se non rimpiangerà i tempi passati.

    Per terminare queste riflessioni, potrei affermare che durante tutto il periodo lavorativo ci ha sempre accompagnato una costante: il tempo. Tutto è stato regolato dal fattore tempo, dall’alba sin dopo il tramonto. Ciascuno di noi guardava spesso l’orologio che scandiva la nostra giornata, qualche volta, forse,

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