La meccanica delle vite possibili
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Info su questo ebook
Lilly torna a casa, in occasione del funerale di sua madre. Non ci metteva piede da quando aveva lasciato la famiglia, a quindici anni, per seguire il padre a Las Vegas. Per essere felice, per farsi una vita, quella che lì, in quella grigia cittadina di provincia, le pareva impossibile.
I suoi fratelli sono rimasti gli stessi, la gente è rimasta la stessa, chiusa in una gabbia di restrizioni, che impedisce a tutti di vivere a pieno le proprie esistenze.
Ma Lilly, da Las Vegas, porta con sé la vita e il calore di altre vite entrate nella sua, che l’hanno resa unica e incisiva ovunque metta piede. Una donna “pop art”, uscita dalle tele di Warhol, per stravolgere il mondo con i suoi colori, la sua esuberanza, la sua continua battaglia per la felicità. Per sé e per gli altri.
Riusciranno gli abitanti di Dearborn a tenere il passo?
Nella vita poche sono le colpe, tanti sono gli errori fatti per mancanza di presa di coscienza, per immaturità, per omesse occasioni di riscatto. O meglio, per una certa cecità che ci rende distratti, lenti di fronte alle quotidiane opportunità di fare il salto e divenire più autentici, più vicini a quello che siamo veramente.
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Anteprima del libro
La meccanica delle vite possibili - Maria Pia Michelini
casuale.
1
Si era tormentata le unghie per tutto il viaggio. Ne era passato di tempo e di lontananza. Ormai aveva perso il conto delle ore e dei giorni trascorsi. Non riusciva a star ferma sul sedile consumato del vecchio treno che la riportava a casa. La giornata piovosa rendeva il paesaggio cupo come i ricordi di quegli anni, dove era cresciuta in attesa di una fuga.
*
Era nata nella famiglia sbagliata, lo seppe da subito. Ma prima di superare quel cancello per prendere il volo, ne dovettero passare di anni, almeno una quindicina. Con quella gente di casa non c’incastrava nulla. E nemmeno con la comunità in cui era costretta a muoversi, alla periferia di Dearborn, nell’area metropolitana di Detroit.
Si respirava aria di sviluppo e rinascita in quegli anni, grazie alla produzione di componenti per auto che avrebbero fatto la storia, come la Ford modello A e la Ford modello B. Un contesto positivo, si potrebbe pensare, se non fosse che la sua famiglia, rimasta ancorata alla rigida impostazione offerta dalla chiesa del quartiere, volesse mantenersi fedele alle sue linee morali e religiose, vedendo il peccato in ogni possibile innovazione.
E poi che cavolo di nome le avevano dato? Eulalia. Ci voleva una lingua sciolta per pronunciarlo, perciò ognuno finiva per storpiarlo a modo suo: Lalla, Eu, Lilly... Con tutta la varietà che riempiva il libro dei nomi che sua madre aveva tenuto sul comodino durante la gravidanza, le era toccato uno dei peggiori, per giunta non pescato da lì: era quello della nonna italiana della sua amica Emily. Il nome dice tutto di una persona. E di lei che si poteva dire?
Decise di farsi chiamare Lilly, anche se sua madre si ostinò sempre a mantenere il nome che le aveva dato.
«Il nome è sacro. È una missione, non un vezzo. Eulalia era una martire, crocifissa come nostro Signore, non si gioca con un nome così!»
Suo padre invece intuì l’imbarazzo della ragazzina e fu subito dalla sua.
Il giorno successivo al suo quindicesimo compleanno quella che non era mai stata una famiglia si frantumò. Lei colse l’occasione di fare le valigie e trasferirsi con suo padre nel Nevada.
La città.
Ne aveva viste di rado fino ad allora. Di solito succedeva quando sua madre, preparata di tutto punto, raggiungeva la signora Danawey che abitava in centro, a Detroit. A volte la portava con sé, perché prendesse esempio da quella sua conoscente. Le due donne si erano incontrate a una rassegna di canto, dove i cori si alternavano in un itinerario di parrocchie per l’arrivo del Natale.
«Che donna raffinata, la signora Danawey! D’altronde è la moglie del direttore delle poste. E suo padre era un maestro stimato da tutti». Il solo frequentarla convinceva la madre di Lilly che quell’amicizia sarebbe bastata a dare un tono di spicco anche a lei, tra le donne della comunità.
Il padre di Lilly, George, era un uomo intelligente e riversava questo dono nell’officina ereditata dal genitore; la numerosa e assidua clientela assicurava alla famiglia un buon reddito per crescere tre figli e colmare le basse soddisfazioni della moglie, Dorothy.
Lilly aveva compreso al volo che suo padre era il pezzo migliore di casa. Quando entrava in officina e indossava la tuta, scomparendo sotto le auto, sembrava trasformarsi. Gli brillavano gli occhi e si donava a quelle donne
dalle marmitte formose, che lo accoglievano fiduciose e si lasciavano carezzare e tormentare finché scoppiavano in eccitanti grida del motore, pronte per correre di nuovo con tutta la loro potenza. Lui le lucidava a puntino, le contemplava e le lasciava ai loro padroni promettendo che sarebbe andato a trovarle di frequente per assicurarsi della loro salute. Non importava se fossero automobili o trattori, per lui erano madri, amanti, amiche del cuore.
Lilly lo raggiungeva spesso in quell’ampio locale, sporcandosi di grasso per passargli gli arnesi del mestiere. Figlia degenere, non c’era verso di adornarla di sottane e fiocchetti come le sue coetanee; a malapena sua madre riusciva a domarle i capelli, imprigionandoli in due treccine strette e rigide.
*
Tra la nebbia scorse la saracinesca chiusa da anni. L’insegna dell’officina, scolorita e cadente, le procurò una fitta allo stomaco riportando a galla gli odori e i contrasti di quel tempo andato.
Grazie al cielo, quel pezzo d’uomo ne aveva aperta un’altra quando aveva deciso di tentare la sorte in Nevada, specializzandosi in breve nella cura delle auto dei ricconi di Las Vegas.
«Vuoi fare la fortuna del Demonio? Rovinare una famiglia quando Dearborn ti sta offrendo il tuo sogno su un vassoio d’argento? Vuoi i soldi, papà? Vuoi il successo? Vuoi la perdizione?»
Le parole di Ted, il secondogenito, si aggrappavano al rispetto per la mamma e per le sue convinzioni, anche se non le comprendeva fino in fondo.
George si sentiva spinto a distanziarsi per non rischiare ripensamenti che lo avrebbero riportato sulla strada di casa troppo facilmente. Era l’unico allora, tra i parenti, ad aver tentato un salto di qualità e Lilly non aveva voluto perdere l’occasione di seguirlo, senza un’idea, senza un progetto, se non per il suo chiodo fisso: non diventare come sua madre.
I suoi fratelli non ebbero la stessa intuizione. Pareva non avessero futuro lontani dalla chioccia, né lei riusciva a immaginarsi invecchiare senza avere accanto nessuno.
Un uomo solo e un’adolescente confusa furono i primi soggetti di un quadro che era scappato dalla cornice e cercava una nuova posizione su una parete migliore.
Lui fu presto risucchiato da un nugolo di clienti che lo ubriacarono di stima e considerazione. E Lilly diventò un’appendice disorientata e rabbiosa. Sembrava schiva e scontrosa, lasciava spazio solo agli scapestrati di turno, quelli che saltavano la scuola se erano tra i più fortunati di famiglia, spinti verso studi a cui non erano interessati. O ad altri, quelli che a calci in culo venivano avviati a un mestiere dai padri, perché la gente non li accusasse di aver messo al mondo dei fannulloni.
George per lei aveva scelto una via di mezzo e anche in questo caso il suo acume aveva fatto centro.
«Una scuola professionale. Che ne pensi?»
«Per diventare una segretaria devota al suo principale, chiusa in ufficio a battere sui tasti davanti a un muro? Papà, sei impazzito?»
«Che hai capito, crazy horse? È una scuola per operai meccanici».
Unica femmina, e non era scontato accorgersene a una prima occhiata, aveva fatto scalpore tutt’intorno, ma nessuno si era permesso di esprimerlo alla luce del sole. Inutile sottolineare che i risultati attestavano che fosse il posto giusto per lei. Era svelta come una faina ad apprendere come maneggiare i pezzi di laboratorio pratico. E questo le valse un gran numero di cotte nei suoi confronti, delle quali resettò la maggior parte.
Ma Peter, lui aveva le caratteristiche che potevano piacerle. Era riservato, diretto, scanzonato, sveglio. Era soprattutto un grande amico, e di questo lei aveva veramente bisogno. Gli ormoni, poi, invadevano il suo corpo di giorno in giorno in maniera più evidente.
Dopo la scuola si avviavano a casa insieme e si davano appuntamento per il pomeriggio. A volte raggiungevano l’officina di George e lui dava delucidazioni su quello che i ragazzi avevano studiato al mattino. Altre volte, invece, preferivano trovare angoli tranquilli, impresa non facile in quel centro così acceso e pullulante di vita, per raccontarsi come immaginassero il loro futuro.
Las Vegas Strip pareva tener testa al naturale ritmo del giorno e della notte. Man mano che la luce del sole spariva all’orizzonte, quel boulevard infinito cominciava ad abbagliare la notte con le sue insegne dai colori eccentrici che facevano a gara per attirare la gente a inabissarsi nel divertimento, nel gioco e non di rado nella rovina.
Il trenino caricava uomini e donne dai capelli impomatati, i tailleur colorati e le immancabili sigarette tra le dita e avanzava avanti e indietro per accompagnare ciascuno al locale prescelto. A volte anche i ragazzi salivano a bordo di quel treno e solitamente scendevano al Flamingo Hotel, non certo per entrare.
Le aiuole più lontane dalla parete posteriore restavano in ombra e Lilly riteneva fossero un buon compromesso tra la sua innata ritrosia alla confusione e la voglia di tutti di curiosare e commentare quel mondo di illusi, accalappiati dalle creazioni malavitose che portavano soldi nelle tasche dei più astuti.
Nemmeno con i suoi due fratelli Lilly aveva mai trascorso ore così leggere e divertenti.
Quando Peter decise di dichiararsi, i due ragazzi si erano già diplomati e si vedevano ancora ogni giorno a fine lavoro. Lui era stato assunto subito da uno zio di sua madre; lei invece subiva i pregiudizi rivolti a molte donne che si affacciavano a un lavoro considerato maschile, tanto più in un settore che era solo roba per uomini
. Suo padre non si era sentito a suo agio a integrarla nella sua ditta: troppe clienti, mogli di manager e professionisti, gli riversavano addosso ondate di consigli per rimettere in sesto quella ragazzina e riportarla, se fosse stato ancora possibile, nei ranghi di una decente femminilità.
«Stasera esco con Peter, papà, non aspettarmi alzato. Facciamo tardi. Mi porta a una festa».
«A una festa? Vorresti dire che ti vestirai da donna? Voglio proprio vederti...»
«Se non mi credi, resta qui. Tra mezz’ora scenderò da quella scala e ti sorprenderò».
Era andata da sola per negozi a cercarsi un vestito e un paio di scarpe che non la facessero sfigurare. Avrebbe dovuto affrontare tutta una schiera di ragazze del quartiere che, incrociandola per le vie, avevano sempre sghignazzato su di lei, salutandola di fretta senza fermarsi a chiederle di uscire con loro.
Il telefono squillò prima che