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Buona giornata infermiere
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E-book172 pagine5 ore

Buona giornata infermiere

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Info su questo ebook

Angelo è infermiere in un reparto di terapia intensiva di un grande ospedale di Milano e spesso si trova a riflettere sul proprio lavoro. Questa professione oltre ad una preparazione e un continuo aggiornamento, richiede anche grandi doti di sensibilità ed empatia. Già, perché essere infermiere, significa avere una profonda sensibilità per l’umanità, per la comprensione, per la pazienza e per l’ascolto, associate alle capacità di fare e di agire tempestivamente.
Ogni giorno, Angelo, tra le mura dell’ospedale, porta la sua professionalità e la sua persona, non si prende cura solo del corpo dei suoi pazienti ma anche della loro anima. E anche quando lo assalgono i dubbi e le preoccupazioni, Angelo non può fare a meno di essere quello che è, non può fare a meno di parlare con i suoi pazienti, anche con quelli che apparentemente non possono sentirlo, di stare vicino ai suoi colleghi più fragili, di insegnare ad altri tutto quello che sa e di imparare sempre qualcosa. 

Angelo Garda è nato a Milano il 4 febbraio 1961, è salito sulla sua prima ambulanza nel 1984; arricchendo il suo percorso professionale, diventa infermiere nel 1993, master di primo livello in area critica nel 2009, ha lavorato prevalentemente in terapia intensiva. È stato volontario del soccorso e ha lasciato questo ruolo, suo malgrado, nel 2013. Lavora tuttora in una terapia intensiva che gestisce i casi acuti di COVID-19. Dopo tanti anni di lavoro, è vicino a lasciare il suo ruolo da dipendente, ma considerato il periodo, si riserva di riprendere da libero professionista, prestando la sua opera dove ci sarà più bisogno. Si occupa di formazione sull’emergenza, istruttore Italian Resuscitation Council di corsi base e avanzati. Insieme ad un nutrito numero di persone del centro di formazione in cui collabora, si occupa di formazione sulle manovre rianimatorie di base nelle scuole di ogni ordine e grado. Ha regalato qualche sorriso a chi stava male e come tantissimi suoi colleghi infermieri è rimasto un professionista fantasma e ignoto agli occhi dei più, tranne che per le persone che ha assistito.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2020
ISBN9788830623095
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    Anteprima del libro

    Buona giornata infermiere - Angelo Garda

    vita

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PREMESSA

    In un periodo della mia vita professionale, ora lontano, sono stato spiazzato dagli eventi; la professione che avevo scelto mi si presentava improvvisamente molto più pesante e stressante rispetto a quanto non avessi mai percepito fino a quel momento. La scelta di diventare infermiere fu una scelta matura, considerati i tempi e la mia età, e fu sicuramente dettata dall’esperienza sul campo che allora mi vedeva assolvere la funzione di soccorritore volontario in ambulanza. Oggi sono l’infermiere che volevo diventare, conscio di volere e potere ancora imparare e migliorare, ma con le competenze adeguate al ruolo che svolgo. Ho iniziato a scrivere in un momento di sconforto e veramente non avevo idea che sarei finito a scrivere un libro, all’inizio le parole fluivano sul mio PC solamente per la necessità di comprendere cosa aveva messo in crisi l’infermiere che conoscevo e che si stava perdendo. Solo in un secondo momento, rileggendo alcuni passaggi, mi sono reso conto che forse avevo davvero qualcosa da raccontare agli altri e che in fondo le problematiche che vivevo direttamente sulla mia pelle erano solamente un mio modo di interpretare situazioni e sensazioni che toccano da vicino una professione, quindi tanti altri colleghi infermieri. Le riflessioni pure, quelle che per intenderci usiamo per scaricare le emozioni o le paure dettate da una situazione o un evento che facciamo fatica ad affrontare, sono ostiche e sicuramente non invogliano al piacere della lettura, che in qualche modo dovrebbe essere fonte di interesse e di svago. Da qui l’idea di trasformare il tutto in un romanzo, un mezzo di comunicazione che storicamente ci porta a riflettere e qualche volta a capire.

    Naturalmente i vissuti che riporto sono in parte reali, magari miscelando più eventi in una storia, in parte frutto della fantasia che arricchisce il racconto senza privarlo del messaggio che mi auguro arrivi a chi leggerà queste pagine.

    UNA MATTINA DI GENNAIO

    Il vento freddo di una mattina di gennaio mi soffia sul viso, vedo la gente che si affretta a raggiungere il timbrino, per me ora non c’è fretta, devo raggiungere la mia auto e rimanere sveglio mentre guido verso casa. Sì, è freddo, un freddo pungente, lo capisco da come tutti si tengono stretti nei propri cappotti, giubbotti, pellicce. Sto uscendo, anche questa è stata una notte tranquilla, be’, tranquilla è un eufemismo.

    A volte le persone muoiono dove lavoro io, soffrono? Spero e credo proprio di no, in fondo il mio lavoro è esattamente questo, assisterle fino al ripristino delle funzioni vitali e nella fase acuta dei loro problemi clinici, o, qualche volta, fino all’ultimo respiro.

    Mentre cammino e penso, saluto, sì, ogni quattro, cinque persone che incrocio saluto, il mio è un grande ospedale, possibile che conosca tutte queste persone? Mi conoscono, la maggior parte di vista, altre per interessi comuni, altre perché mi hanno visto a qualche corso. Certo, tenere dei corsi è divertente, gratificante più che divertente, e poi ti salutano, ma io non conosco il nome di tutte le persone che incrocio camminando, quindi non ci conosciamo.

    Continuo a camminare, il freddo non lo sento, troppa adrenalina scorre ancora nelle mie vene. Questa notte ho riscoperto una parte di me che in qualche modo avevo dimenticato, sepolto, nascosto dietro al muro della mia professionalità, mi domando se è un bene o se sono arrivato a chiudere la mia anima e le mie emozioni per necessità. Il caso, un uomo della stessa età di mio padre, le figlie non ancora pronte a perderlo, la richiesta di aiuto che sgorgava da quegli occhi stanchi, lucidi, infossati, ma ancora pieni di speranza. Quella stessa speranza che avvolge ogni essere umano quando sente che qualcosa gli sta strappando via un bene prezioso, insostituibile. A volte è un fratello, spesso un genitore, un amico, un coniuge, ma la situazione più drammatica è quando si perde un figlio.

    Capita a volte nel mio lavoro, così mi dicono, di prendersi a cuore un paziente. Dicono che capiti maggiormente ai medici, ma anche a noi infermieri, semplici nella costruzione mentale della gente, ma in realtà complicati nell’essere e nell’intimo. Sì, anche noi abbiamo un cuore che va al di là di quello che i non addetti ai lavori pensano o non pensano di noi.

    Quanti pensieri, e la macchina è ancora lontana, possibile che ogni volta devo parcheggiarla all’eliporto o oltre? Passare davanti all’eliporto mi fa piacere, mi ricorda che anch’io ho un ruolo lì dentro, e poi, in fondo, sono i miei pensieri che corrono veloci, non è la strada che è lunga.

    Accidenti, la macchina è coperta da una spessa coltre di ghiaccio, mi tocca grattarlo via dai vetri, il naso rosso, le mani fredde, inizio a percepire la temperatura, non è un male, questa sferzata di freddo mi aiuterà a stare sveglio e attento, lucido nella guida fino a casa. Bene, ora sono pronto a partire, un’accelerata mi porta sulla ghiaia, l’ingresso principale del parcheggio non aspetta che il mio badge, il finestrino abbassato, le cinture non ancora allacciate, appoggio il badge nel riconoscitore elettronico, mi ha riconosciuto. Buon riposo mi dice, sì, mi conosce e sa che mi rivedrà altre mille e mille volte ancora, forse è per questo che è gentile con me ed è sempre così rapido ad aprirmi, sa che torno spesso, forse troppo spesso.

    Chi ha inventato l’automobile non pensava certo che poi l’avrebbero usata tutti, non sono praticamente ancora partito e già sono in coda, unica ma scarsa consolazione: l’idea che mentre molti si affannano e si stressano per arrivare in tempo al lavoro, io sto per andare a dormire, chiudendo fuori dalla porta tutto e tutti. Ma veramente un infermiere chiude il mondo fuori casa? Siamo così sicuri che fuori dalla porta dell’ospedale ci si dimentichi tutto e ci si rilassi? Questi sono i pensieri che mi avvolgono mentre proseguo a passo d’uomo per superare quella piazza che sembrava così vicina, ma che ogni istante che passa diventa sempre più irraggiungibile.

    I pensieri tornano a quell’uomo, quell’essere inanimato, completamente dipendente dalle mie cure che questa notte ha assorbito gran parte delle mie energie. Ho fatto del mio meglio, ho attinto a tutta la mia conoscenza, le competenze adeguate per assisterlo, non gli ho permesso di soffocare nelle sue secrezioni, ho monitorato attentamente ogni variazione dei suoi parametri e ho chiamato il medico per risolvere le problematiche che riguardavano la variazione nella somministrazione di farmaci e l’assistenza ventilatoria. Dunque, ho fatto tutto quello che fa un infermiere di area critica, un infermiere esperto e preparato a seguire il decorso clinico di un paziente critico, ho utilizzato tutte le armi per mantenere l’omeostasi, ho cercato di risolvere tutti i problemi collaborativo-assistenziali, forse direbbe così il mio professore di Infermieristica. No, stanotte ho fatto di qualcosa di diverso, ho parlato con i parenti, ho spiegato la situazione con parole più comprensibili rispetto al classico bollettino medico, ho creato un ambiente familiare al cospetto di un essere umano sull’orlo del buio infinito. Avrò rischiato di alimentare false speranze, forse sì, ma per riuscire a lavorare in area critica bisogna credere in quello che si fa, credere nella medicina e nel sapere. In fondo, in base alla mia esperienza, qualche margine per riportarlo ad una vita senza tutti quei supporti rianimatori c’è e quindi bisogna impegnarsi, tutti devono impegnarsi per ridare quell’uomo alla sua famiglia.

    Sono così immerso nei miei pensieri che non mi accorgo che la piazza, la fatidica piazza, l’ho già superata da un pezzo, credo che se mettessi il pilota automatico, per la strada che faccio, potrei tranquillamente chiudere gli occhi e smettere di pensare, anzi, quasi quasi lo faccio. Già, chiudere gli occhi, non mi sembra una brutta idea, chiudere gli occhi e immaginare di essere in un posto caldo, una giornata di sole al mare, magari… ma no, sono ancora qui in macchina nel solito traffico di una solita mattina di Milano.

    Riapro gli occhi, la mente torna al mio lavoro, ho fatto tutto, ho detto tutto ai colleghi? Generalmente mi capita, uscendo dal lavoro, di rivedere con la mente quello che ho fatto, soprattutto di chiedermi se ho dato tutte le informazioni necessarie per continuare l’assistenza alle persone in cura. Il mio lavoro si basa su quello che fa il collega del turno che ti precede e quello che farà quello che ti sostituisce, non è un lavoro in cui trovi ciò che lasci, a volte invidio gli impiegati, loro almeno trovano quello che lasciano e fanno quello che trovano.

    Fame, ecco quello che ho, appena arrivo a casa, anzi no, prima di arrivare a casa, mi fermo dal solito panettiere e mi compro una focaccia, buona e calda, appena sfornata, e già che ci sono il latte, dicono che il latte fa bene.

    Possibile che sono ancora qui? Questa mattina proprio non ci si muove, chissà, forse un incidente o uno sciopero, forse tutti stanno andando a casa a dormire.

    Devo stare sveglio, devo pensare: quali programmi ho per questa settimana? I riposi dopo le notti sono già tutti impegnati, il primo riposo il corso di rianimazione cardiopolmonare, il secondo riposo un turno in elisoccorso, poi ricomincio a lavorare, perché i corsi e l’elisoccorso sono i miei hobby, meglio che non lo dica a nessuno, se no poi mi prendono in giro. Ah, ecco, dovrei pure andare in palestra, cosa pago a fare un’iscrizione se poi ci vado così poco? Mah. Sarà che il fatto di essere iscritto mi permette di decidere anche all’ultimo momento di andarci, sarà che già il fatto di essere iscritto mi fa sentire in forma. Eppure quando riesco ad andarci, il più è arrivare davanti all’entrata, poi mi sento bene, diciamo meglio, dopo un po’ di esercizio fisico e soprattutto dopo una sauna, seguita da una potente doccia di acqua tiepida. Forse, in questo periodo è l’unico posto che mi permette di scaricare le tensioni che accumulo al lavoro, dovrei… devo andarci più spesso. Ci vado domani sera, quando smonto dalla notte, no, non posso, domani ho dato disponibilità per l’ambulanza, già, il volontariato in ambulanza e anche qui è meglio che sto zitto, chi mi conosce si chiede

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