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Il più bel mestiere del mondo
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E-book391 pagine5 ore

Il più bel mestiere del mondo

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Info su questo ebook

Cambiare la scuola si può; e si deve, per tanti motivi. Lo sostiene
un ex(?) professore, che racconta la sua esperienza con piglio ironico ed elegante; le lezioni con una classe piacevolissima, le relazioni con colleghe e colleghi, la ritualità di tanti momenti dell’anno scolastico e molto altro ancora; ne sortisce una rappresentazione divertita e divertente di un Istituto Secondario di primo grado, alle prese con i problemi e le situazioni ben note a tutti gli altri del nostro paese; l’affresco di una professione straordinaria, stretta fra il desiderio inappagato di novità vere, e non solo presunte, e l’orgoglio della propria unicità; dato dalla consapevolezza del fatto che stare con i ragazzi e cercare di essere, per loro, un punto di riferimento e una possibilità di comunicazione è la sostanza nobile del mestiere più bello del mondo.

Gianangelo Ranzini è nato a Cuggiono nel 1955. Si diploma presso il Liceo Classico di Legnano e consegue la Laurea in Storia e Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano. Inizia nel 1978 la carriera di docente di Lettere di Scuola Secondaria di primo grado che, dal 1985, prosegue presso l’Istituto Comprensivo di Turbigo (MI) fino al 2021. Ha al suo attivo diverse collaborazioni editoriali con case editrici, come Arnoldo Mondadori e CEDAM, per la cura di alcuni testi di Narrativa e, in epoca più recente, con l’editrice Lattes, per la realizzazione di diverse antologie letterarie. Ha realizzato, con le sue classi, numerosi laboratori e rappresentazioni teatrali e ha prodotto diversi giochi di società, ispirati a opere letterarie, a eventi storici e a spazi geografici.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2023
ISBN9788830690394
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    Anteprima del libro

    Il più bel mestiere del mondo - Gianangelo Ranzini

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione

    Se mi chiedete una sintesi rapida di tutta la storia, o semplicemente un’istantanea capace di rappresentarla, dovrei comunque ricorrere ad un caleidoscopio nel quale le irritazioni, non proprio rarissime, si alternano a più numerose, vitalissime, soddisfazioni; a detta di molti colleghi, sono sempre troppo poche, queste ultime, rispetto alle prime, ma voi non credetegli per forza.

    I malumori, in netta maggioranza, li hanno creati le istituzioni, le leggi, le disposizioni ufficiali, le abitudini decennali, e qualche presunta novità non migliore del vecchiume; certo, talvolta vi hanno contribuito anche loro, i ragazzi, ma assolutamente mai quanto la normativa vigente.

    Le seconde, in maggioranza ancor più netta, me le hanno procurate sempre loro, i ragazzi.

    Perché viverci in mezzo e fare qualcosa per vederli crescere, possibilmente non solo in centimetri e stazza, è il più bel mestiere del mondo, senza paragoni possibili.

    Ho scritto ciò che vi apprestate a leggere – a proposito, più di mille grazie per la disponibilità – per ricordare il mio percorso; da supplentino fresco di laurea, desideroso di cambiare il mondo, o almeno di migliorarne una piccola parte o anche solo di farsi ricordare da qualcuno fra i molti che, via via, si sarebbero posizionati di fronte, al di là della cattedra, a docente di ruolo e di lungo corso, che si è ormai lasciato alle spalle il nastro della quota 100, una sorta di Cima Coppi degli statali; e quindi, prima di pagare il rinfresco collegiale, di fine anno e di fine carriera, il reduce desidera tentare un bilancio di questa parte, non proprio infinitesimale, della sua vita, scegliendone una delle ultimissime frazioni, utile a ritrarre anche le precedenti.

    Ve la racconterà come ne è capace, utilizzando la tavolozza dei colori in suo possesso; e vuoi vedere che l’affresco, per quanto indegno di Giotto, saprà non dispiacere del tutto?

    E confessando, prima di tutto, che di quell’ansia ingenuamente rivoluzionaria e poi rifluita su un più realistico riformismo, oggi rimane, più che altro, la consapevolezza di quanto i cambiamenti, quelli veri e non i surrogati, sia più facile attenderli, rappresentarli nella propria mente e persuadersi, in solitudine, della loro razionalità, almeno teorica: quanto a vederli per davvero, come cantava Arigliano, è solo questione di tempo; ma una vita, tutto quel tempo, quasi sempre non ce l’ha.

    Tuttavia è troppo presto, diamine, per indurvi a una precoce diagnosi di pessimismo, al timore di una narrazione concepita e scritta presso il muro del pianto.

    Non sarà così, ve lo prometto.

    Anche perché non potrei sperare di condurvi – magari solo al trotto, senza scapicollarvi – all’epilogo, se già l’incipit è dipinto col grigio tristezza e non col verde speranza.

    E poi, non mi sono sempre appoggiato a quel vecchio detto che in fondo sorregge tutti gli umani, anche e soprattutto quelli che non lo conoscono?

    Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. Lo coniò uno scrittore francese, non annoverato tra i più famosi; ma dei geni, come molti di loro sanno, spesso ci si accorge quando non ci sono più.

    Beh, funziona anche a scuola, quel motto, non solo al di fuori; basta adottarlo e considerarlo una risorsa.

    Strada facendo, diventa indispensabile ricordarsene e recitarlo anche in classe, quando l’esattezza del congiuntivo e la disponibilità allo studio si direbbero evaporate per sempre, dalla maggioranza dei banchi.

    Favorisce, quel detto, una visione più equilibrata di ogni esperienza e relazione; aiuta a riconoscerne la fragilità e la provvisorietà, che sono poi la cifra di ogni individuo, anche di quelli più altezzosi; allo stesso modo, esorta a non retrocedere da noi stessi, a non perderci, senza neppure combattere, nella percezione della nostra, intrinseca, pochezza.

    A non smarrire il possibile significato di ciò che abbiamo fatto, e ancora intendiamo fare, per coloro a cui tocca un nuovo giro di giostra.

    Qualcuno ha scritto, e con ragione, che un docente non esce mai dalla sua classe.

    È per questo motivo che adesso invito voi ad entrarvi. A farmi compagnia, per il tempo che vorrete.

    Gianangelo Ranzini

    1 - L’adunata

    Alle sette del mattino il mondo è ancora in ordine, recitava così uno spiritoso titolo di Eric Malpass.

    Svegliarmi oggi, alla medesima ora, è stato tutt’uno col ricordarmelo; con la lacrimevole consapevolezza del fatto che, alle otto, quasi nulla di quell’ordine sarebbe sopravvissuto; e che alle nove lo scompiglio e la frenesia avrebbero ripreso il loro quotidiano dominio degli uomini e delle cose.

    Anche per mia responsabilità; e di tutti quanti i miei colleghi poiché oggi, alle nove in punto del primo di Settembre, la campanella si sarebbe ridestata pure lei, per noi.

    Con suono prolungato e disturbante, ci avrebbe avvertito che la pacchia, dal dolce dormire al nulla combinare, dall’otium degli antichi al mio attuale, era giunta al suo termine.

    A dire il vero, non è stato neppure necessario che la campanella suonasse.

    Semplicemente, alla data e all’ora stabilite da circolare interna, ci siamo ritrovati nell’atrio dell’Istituto, dopo esservi entrati a frotte, a branchi, a gruppi o da soli, appaiati o spaiati, secondo un’annosa convenzione che ciascuno interpreta e mette in pratica a piacimento suo. Qualcuno ha fatto la sua comparsa una buona mezz’ora prima dell’ora nona, forse per la tensione che ogni primo appello crea in chi deve presentarsi; o per atavica insonnia, che sfugge ad ogni eziologia e a qualsiasi sonnifero: oppure per trovare parcheggio, visto che il cortile interno ospita non più di una ventina di utilitarie; rare le berline e i SUV, assenti le spider, che prediligono gente di altra categoria e di superiore censo.

    E poi, arrivare dopo chi so io, mi costringerebbe dapprima a una prudente retromarcia e poi a manovre da consumato chaffeur, dato che l’arte del parcheggio è largamente ignorata da molte colleghe, a cominciare da quelle in servizio da più tempo; ultimamente, va di moda lo stazionamento in orizzontale o quello in obliquo, i più raccomandati da tutti i manuali di scuola guida. Anche questa voglia di anarchia, forse, un suo significato l’avrà.

    Ad ogni modo, come bravi scolaretti, siamo arrivati precisi e puntuali sul rintocco del campanile; con passo au ralenti o già accelerato, siamo tutti qui, come direbbe Braccobaldo nel suo show.

    Eccoli, i gruppetti che vi dicevo.

    Le maestre delle primarie, aggregate in base alla sede di riferimento, all’anzianità di servizio ed all’evoluzione/involuzione delle relazioni reciproche; quelle della sede locale sempre rigorosamente distinte dalle colleghe della sede staccata, come le antiche madrepatrie dalle colonie acquisite.

    Leggermente più discosti, i prof. delle due Secondarie, contrassegnati, già nell’andatura e nel portamento, da un certo qual superiority complex rispetto alle maestrine dalla matita rossa sempre appuntita, ma dal pedigree meno aristocratico.

    Fra l’altro, mi fa notare un collega, diciamo pure lui di lunga navigazione, ce ne saranno solo due o tre passabilmente giovani e potenzialmente, molto potenzialmente, appetibili; e tuttavia, essendo probabilmente già collocate, oppure ritrose al grande passo, perché intrufolarsi, e con quale pretesto poi, negli spazi di loro occupazione? Con quali argomenti? E soprattutto, con quali prospettive?

    Tutt’al più, appena mi capiterà a tiro, farò due parole, dicasi due, con Daria; per puro caso, mi sono imbattuto in lei e nel suo moroso a luglio, in montagna; per cui le chiederò, con compassata discrezione, com’è proseguito il suo soggiorno e lei mi dirà che, con 10 gradi in meno rispetto a questo torrido angolo dello Stivale, il suo soggiorno a Scopello – bassa Valsesia, per chi, fra di voi, va sempre al mare – è stato fin troppo breve.

    E visto che io e la consorte, acquartierati in baita Walser, nel medesimo periodo ci siamo goduti la frescura del fondovalle, 500 metri più in alto della collega, come potrei non essere d’accordo con lei?

    «Coraggio, carissima, qui c’è un anno da scalare»; molto più faticoso del ghiacciaio dell’Indren, tanto per restare ai piani superiori delle Alpi Pennine.

    In attesa della pausa caffè, a mezza mattina, e delle due parole che vi ho detto, per il momento posso pur sempre chiedere a Mariella, dopo canonico bacio e abbraccio, dove è stata ad agosto; prevedo già che mi sentirò rispondere che, per quest’anno come per quasi tutti i precedenti, non si è mossa dal suo numero civico.

    E se negli anni scorsi le ragioni erano la nipotina della primogenita o le spese per riassettare la casa di proprietà, quali mai saranno le più recenti giustificazioni?

    «Allora, Mariella… mare o montagna?».

    «Né l’uno né l’altra, caro mio… mio marito è stato in ospedale per quindici giorni… no, aspetta, venti giorni».

    «Mi dispiace, Mari… spero nulla di grave».

    «Eh, lo speravo anch’io… e invece…».

    «E invece…».

    «La prostata, caro mio… un carcinoma bello grosso… gliel’hanno asportato e poi ha dovuto fare le terapie del caso».

    «Sta meglio, adesso?».

    «Mah, comincia a muoversi… pian piano, che ci vuoi fare?… Tu invece sei stato in Puglia, come al solito, vero?».

    Lo ammetto con mezzo senso di colpa, evitando dettagli; non è elegante parlare, in presenza di altrui metastasi, delle stradine di Ostuni, bianche fino all’abbacinante, dello struscio serale a Cisternino oppure di certe fritture in masseria.

    E men che meno di quella serata alle prese con una pizzica vorticosa, in compagnia di… va beh, ma poi a voi che importa?

    Comunque sì, siamo stati in Puglia anche quest’anno, ormai dal 1998; un ventennio di fedeltà più che coniugale, meritevole delle chiavi della regione consegnate direttamente dal governatore in apposita cerimonia.

    «Saremo colleghi di corso anche quest’anno?».

    «Spero di sì, Mari… ma sei sicura che ci tieni?».

    «Scemo che sei… certo che ci tengo! E poi l’orario, lo farai ancora tu?».

    «Non lo so… se la DS…».

    «Fallo come l’ultimo, eh! Era perfetto».

    «Beh, qualcuno non l’ha trovato così, pare…».

    «Non ero io… sono sempre le reclute che si lamentano; troppe prime ore, troppe ultime ore… e troppe anche in mezzo… fregatene!».

    «Veramente, si è lamentata anche una tua collega di materia, per via dell’allattamento».

    «Ah, l’allattamento… senti, sono giovani, no? E quindi facciano la gavetta come abbiamo fatto noi… non è che arriva l’ultimo dei supplenti e pretende… si mettano in riga, che diamine… la vecchiaia non è più una credenziale?».

    «Anzianità di servizio, Mari… preferisco».

    «Vecchiaia, caro mio, di’ pure vecchiaia… chiederanno favori quando avranno la nostra età e i nostri reumatismi, com’è giusto che sia».

    Stiamo arrivando, a passo di carica, all’argomento-pensione, visto che, sia io che Mariella, la quota 100 l’abbiamo superata di slancio e quindi avremmo potuto cogliere la palla al balzo; non sarebbero piovute obiezioni dai travets dell’INPS.

    Ma questo tema ci viene sottratto, inopinatamente, da Sergio, anche lui collega esperto, come si usa dire per amor di eufemismo e di diplomazia.

    «Ah, allora ci si ritrova! Ciao! Tutto bene?».

    Un cenno rapido e mendace, per dire che sì, sono le 9 e tutto va bene.

    «Ma non dovevi andare in pensione? Ricordo male, forse…».

    «No, non ricordi male: i requisiti c’erano tutti… la voglia, quella no… nonostante tutto…».

    «Tieni duro, allora…».

    C’è malizia, eccome, nel suo commento che esonda, visibilmente, dalla sfera squisitamente didattica e professionale.

    «Per quanto possibile, Sergio… certo, un paio d’anni, non di più… poi toccherà a te…».

    Perché incassare fa rima con replicare…

    Una risata da vecchi amici, che la gag l’abbiamo capita entrambi; perché se è vero che la decadenza è in pieno corso, per la bollitura completa c’è ancora da attendere, speriamo.

    Così interloquendo, se ne sono andati ben dieci minuti rispetto all’orario previsto per l’inizio del primo incontro dell’anno; che non somiglierà per nulla agli incontri del secolo, statene pur certi; quelli si disputano al Madison o al Caesars Palace, non certo qui da noi.

    «Buongiorno! Buongiorno!».

    Un saluto non proprio squillante, ma reiterato, ci dice che la DS è uscita dal suo bunker e si è avventurata nell’atrio, per notificarci che è giunta l’ora, senza se e senza ma.

    Motivo per cui i gruppetti e i gruppuscoli, i capannelli, le sette e le conventicole ora si incanalano in una sorta di imbuto che ci fa raggiungere l’Auditorium; subito siamo accolti dallo stesso appiccico nel quale l’abbiamo lasciato il 27 di giugno di quest’anno, per goderci i due mesi che tutti ci invidiano e che, va detto, sono volati via con atroce impazienza, una vera crudeltà.

    Qualcuno la deve pur denunciare questa ingiustizia, non solo quelli che ce la rinfacciano ogni giorno.

    «E del mercato dell’Inter, che ne dici?».

    È l’ultima questione frivola che io e Sergio ci possiamo permettere; fra poco la DS ci dirà dell’ordine del giorno e ci chiederà se abbiamo letto il verbale dell’ultimo collegio.

    È ancora abbastanza giovane e, ancor più, novizia del mestiere; si vede che alle favole non ha smesso di credere.

    «Mah… non so… finirà che rimpiangeremo Icardi…».

    «Pure la moglie?».

    «Quella già la rimpiango…».

    Prevedibile, ma tutto sommato potabile, come battuta. «Mi sa che anche quest’anno è ancora vostro… quanto alla Champions…».

    Sergio è un buon collega, mite e gioviale; non ricorda mai solo le sofferenze degli avversari; per lenirle, gli va di mescolarle alle proprie.

    Quando la rivalità fa rima con eleganza, rarità.

    Mi siedo in disparte, come amo fare da almeno un decennio; da quando ho capito che l’ultima poltroncina a sinistra dell’ultima fila, per quanto erosa dallo spelacchio, favorisce una qualche areazione, essendo prossima a un’uscita di sicurezza.

    La giornata è greve, come spesso quelle di settembre sanno essere, alla faccia degli onesti lavoratori che oggi riprendono il servizio; ad ogni modo, se in questa bombonera, chiusa da opprimenti tendoni blu che la rendono oscura e ovattata, più simile a una gigantesca alcova che ad un locale per assemblee, potrà mai entrare un alito d’aria, non importa se di scirocco o di libeccio, certamente passerà da me per primo; e io credo che non gli permetterò di andarsene altrove.

    Sicuramente non dalla collega Brigida, cui da tempo è stata riconosciuta la dicitura di prima collaboratrice della DS, capirai che gloria… e infatti, eccola lì che, dopo aver salutato giusto le amiche e le amiche delle amiche ed aver liquidato con uno spartano cenno degli occhi le nemiche e le nemiche delle amiche e quindi anche sue nemiche, si è seduta presso la DS e ora si appresta a far passare i fogli firma, operazione che conferma il suo sottoprimato nell’Istituto.

    No, anche per quest’anno, la parvenza di brezza che si è insinuata nell’Auditorium quasi volesse renderlo più consono al D.Lgs 81/2008, me la godrò io, intera interuccia, e le impedirò di soffiare verso altri punti cardinali.

    «Buongiorno a tutti! Ben ritrovati!».

    Dannazione! La DS ha impugnato il microfono e si accinge ad utilizzarlo per davvero, moltiplicando in tal modo la mia nostalgia delle calette della Baia dei Turchi e, ancora più forte, del tagliere di mocetta, accompagnata da lardo e castagne, servito sotto la maestà eterna del Rosa.

    Consiglio: non perdetevi questi angoli di bellezza vicina alla perfezione; il mondo dovrebbe essere tutto così.

    «Cominciamo col verbale del 27 giugno, consultabile sul sito… l’avete letto tutti, vero?».

    Cosa vi avevo detto?

    «Lo possiamo approvare?». Certamente sì.

    «Qualche astenuto?».

    Due maestrine, causa assenza all’ultimo collegio, causa indisposizione.

    «Bene, passiamo agli adempimenti della prima settimana…».

    Coraggio, ragazzo mio.

    Ha inizio il tunnel del San Gottardo, ma questo durerà ben più dei suoi 17 chilometri.

    «Intanto vi informo che le riunioni di questa settimana dureranno dalle 9 alle 12».

    Dalle 9 alle 12! Iddio santissimo! Non ditelo a nessuno che non faccia l’insegnante.

    «E così pure quelle della prossima…».

    Mi raccomando, ci siamo capiti…

    «Per quanto riguarda l’orario della Secondaria, professore, se ne occuperà ancora lei?».

    «Se nessun altro vi ambisce…».

    Fra i colleghi e le colleghe, rapidissimo giro di occhiate e di smorfie labiali, tutte a significare che nessuno desidera farsi del male così crudelmente.

    E quindi… sotto a chi tocca, da circa 30 anni. Cosa chiedete? Se c’è stata una delibera?

    E a che pro? Forse neppure io mi sarei astenuto…

    Via, anche per quest’anno si provvederà alla sistemazione delle prime ore ed alla distribuzione delle ultime, cercando di non infliggere troppi buchi, a prescindere da chi li gradisce e da chi li aborre; e poi si farà attenzione a chi viene da lontano e un po’ meno a chi abita nei paraggi, quando non a ridosso dell’Istituto.

    Come gli anni scorsi; come i prossimi venturi.

    Ancora una volta stabilirò a quale momento dell’alba la collega Nicchi dovrà ridestarsi, proprio lei che, pur di prolungare il sonno, volentieri sfilerebbe le pile alla sua Oregon Electric.

    E con la stessa, involontaria, malvagità obbligherò l’amico Morandi a un paio di Disposizioni in prima ora, da trascorrere sbadigliando ed arrotolandosi i pollici, in attesa di un’improvvisa assenza di un/una cagionevole collega.

    Nell’eterna attesa di un orario uguale per tutti; un 8-13 oppure un 9-14 giornaliero; in cui l’insegnamento si alterni alla correzione dei compiti ed alla programmazione dei medesimi, alla preparazione delle lezioni ed al servizio di supplenza; e a molto altro, non c’è che l’imbarazzo della scelta.

    Un orario che definisca ed organizzi la cosidetta funzione docente, anziché lasciarla all’extra-time pomeridiano, ossia alle opzioni ed alle abitudini, varie ed eventuali, di ciascuno di noi.

    Un orario che, così uniformato, si sottragga a polemiche e a maldicenze, a mormorii e a malumori.

    Un orario che non ho mai visto; e che non farò mai.

    2 - Chi prima comincia…

    Toh, chi l’avrebbe mai detto? Sorpresa, sorpresona, sorpresissima! Maria Scalise, giovane, longilinea e un cicinìn nervosetta collega di Matematica, mi ha avvicinato la mattina del 3 di settembre durante la pausa caffè e mi ha proposto l’impensabile, ovvero la sua collaborazione alla redazione dell’orario annuale; da me subito accettata, e quando me ne capita un’altra?

    Ad ogni modo, qualche domanda, figlia di curiosità ma non di diffidenza, era obbligatoria, lo capirete. Per esempio:

    «Collega, posso chiederti il motivo di questa inedita disponibilità? Generica voglia di imparare? Desiderio di controllo del prodotto? O solidarietà verso l’anziano e le sue, crescenti, difficoltà? O tutte e tre le cose insieme, perché no?».

    «E se aggiungessi la necessità di un ricambio, visto che questo sarà il tuo ultimo anno? O il penultimo, prima del meritato riposo?».

    Il tono con cui le ultime due parole sono state scandite e la loro nefasta allusione mi hanno costretto ad un chiaro cenno di scongiuro, con la mobilitazione simultanea di indice e mignolo; non per scaramanzia, che non mi appartiene, ma perché non si sa mai.

    Il ricambio, sì; e in effetti, è da qualche anno che ho posto il problema, dichiarando la mia disponibilità a farmi nobilmente da parte, oppure a istruire qualche volenteroso neofita in qualità di tutor; e tuttavia, sempre ho dovuto constatare la riluttanza collegiale di fronte alla mie pur generose aperture.

    Così l’orario è diventato, mio malgrado, una sorta di feudo personale, un territorio privato nel quale muovermi senza valvassori né valvassini e senza la possibilità di avviare al mestiere una qualche giovane promessa, meglio se munita di cabeza matematica.

    Come, per l’appunto da oggi, la sorridente Maria.

    «Professoressa Scalise, benvenuta nella Commissione!».

    «Grazie, mio caro, grazie… spero di poterti essere di qualche aiuto…».

    «Che facciamo? Comunichiamo alla DS che quest’anno c’è una nuova coppia?».

    «Già fatto! Gliene ho parlato ieri… Che ti credi? L’efficienza, prima di tutto…».

    «Ah, però! Non hai perso tempo… e che ti ha detto?».

    «Ha accolto con favore la mia candidatura; Ottimo!, ha commentato, finalmente una nuova presenza in una Commissione strategica! Sono proprio contenta, professoressa!».

    «Mai quanto me, ti assicuro… così avrò la possibilità di infierire su qualcuno, in caso di garbugli e contrattempi…».

    «Guarda che la DS mi ha raccomandato di tenerla informata, e puntualmente…».

    «È preoccupata per la tua incolumità?».

    «Ah, siete qui… prof. Ranzini e prof. Scalise… la DS ha chiesto di voi, fra dieci minuti, nel suo ufficio…».

    L’interferenza è stata di Emilia, la bidella storica dell’Istituto, oggi versione Mercurio portamissive.

    «Vorrà mica sapere se ti ho trattato male dal primo giorno…».

    «Tranquillo, ti difenderò io… per oggi…».

    A passo di serata sul lungomare, ci incamminiamo verso il bunker della DS e ne superiamo la soglia con deferente saluto, ricambiato da un sorriso non del tutto promettente.

    «Ah, voi dell’orario… accomodatevi…».

    Cosa che noi dell’orario non ci facciamo ripetere due volte; precedenza alla partner, come prescrisse Monsignor Della Casa.

    «Un secondo solo, scusatemi…», e si gira al computer. «Il tempo di mandare questa mail all’Amministrazione…».

    Sarà per chiedere soldi, mi dico; prassi ben nota a tutti i Dirigenti di tutte le scuole d’Italia, piene di cose da sistemare o da sostituire, ma vuote di palanche; ogni anno la solita questua.

    Il secondo solo si moltiplica in almeno 300; cinque buoni minuti d’orologio, abbondantemente preventivati, durante i quali mi limito a bisbigliare a Maria – d’ora in poi eviterò di chiamarla per cognome, per non incorrere nel reato di paternalismo – che è ancora in tempo per ritirare la sua disponibilità; per sentirmi rispondere, con parole appena mormorate, che lei non ne ha intenzione alcuna; anche se, mi confessa, qualche collega l’ha avvertita che si è presa una bella gatta da pelare, perché io passo per ducetto, quando sono in buona.

    «Ma io non gli ho voluto credere…».

    «E hai fatto male… ad ogni modo, lo verificherai da te, se ti hanno detto una…».

    Mi sarebbe scappato minchiata, se non mi fossi tempestivamente rammentato che non eravamo in un corridoio qualunque, lontani da timpani indiscreti e protetti dal baccano delle classi meno addomesticate, bensì a non più di un metro dalle orecchie della DS. Che ora si rimette in contatto con noi.

    «Oh, ecco fatto… ve l’avevo detto che era questione di un secondo… speriamo che l’Assessore sia più magnanimo dell’altra volta».

    Bontà sua.

    E ora è tutta per noi.

    «Ho voluto incontrarvi per parlare dell’orario… L’anno scorso è stato il mio primo in questo Istituto Comprensivo e quindi vi ho lasciato una certa libertà, come dire, d’azione… il prof. si ricorderà…».

    In effetti la DS, forse per la sua freschissima nomina, non ha battuto ciglio e l’orario è andato via liscio come l’olio, accolto dai colleghi con manifesta contentezza; tranne un terzetto di querule spesso indisposte o con prole imberbe e quindi indisposta anche di più, che tuttavia non hanno voluto rappresentarmi le ragioni (e quali?) delle loro lagnanze.

    Che sarebbero state da me prese in seria considerazione per dire loro, due o tre giorni dopo, che l’orario non poteva essere bombardato e distrutto come la città di Dresda solo perché, quegli scalmanati della 2D, nessuno li voleva avere in sesta ora; e quanto alle proteste per il fatto che a loro sarebbero toccate tre prime ore, ogni settimana… beh, e a me quante?

    Tre, esattamente tre, come a ciascuna di loro.

    E a quel punto, cosa avrei dovuto dire e fare, io? Io che mi addormento alle quattro dell’alba quando so che devo svegliarmi alle sette?

    «È vero, Preside… ma spero che non si sia rammaricata del risultato».

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