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La vittoria impossibile
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E-book233 pagine3 ore

La vittoria impossibile

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Fantascienza - racconti (195 pagine) - Tredici racconti per immaginare come sarebbe cambiata la storia dello sport se...


Storia alternativa, ucronia, o ancora sliding doors, se avete la passione per il cinema. Il fascino di immaginare cosa sarebbe accaduto se le cose fossero andate diversamente: se Napoleone non fosse stato sconfitto, se l'Impero Romano non fosse caduto, se l'Asse avesse vinto la Seconda guerra mondiale. Ma ci sono molte altre storie che possono essere raccontate, che non  riguardano la Storia con la s maiuscola, ma che toccano le nostro passioni: quelle sportive, per esempio. Momenti fondamentali della storia dello sport che se fossero andati diversamente, chissà, forse avrebbero cambiato il mondo. Per la prima volta un'antologia di racconti dedicata all'ucronia sportiva, curata da Andrea Pelliccia, tredici racconti che vi propongono un'inquadratura davvero diversa.


Andrea Pelliccia è un ingegnere chimico napoletano, classe 1972, con la passione per lo sport (rugby e calcio, in particolare), la fantascienza e la musica rock.

Ha all’attivo due raccolte di racconti, entrambe pubblicate da Absolutely Free Editore: Up & Under – racconti di rugby (2011) e Quando c'era Paolo Valenti (2013), oltre a vari racconti, apparsi in diverse antologie.

Nel 2017 ha composto il monologo Il Grande Torino, storia e leggenda. Il racconto della squadra entrata nel mito, presentato con successo in giro per l'Italia.

Collabora con il portale Fantascienza.com, per il quale scrive articoli che trattano i legami tra fantascienza e rock e tra fantascienza e sport. Alcuni di questi articoli sono stati pubblicati anche nella rivista Delos Science Fiction.

LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2018
ISBN9788825406504
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    Anteprima del libro

    La vittoria impossibile - Andrea Pelliccia

    Fiction.

    Prefazione

    Darwin Pastorin

    Eccola, finalmente. La prima antologia di racconti, tredici, dedicata all'ucronia sportiva. Si legge d'un fiato, ci fa riflettere, maledire, rimpiangere. Il gioco eterno del se. Quante volte abbiamo pensato nella nostra vita: e se fosse andata in maniera diversa, e se quel giorno, quell'appuntamento, quel ritardo...

    Lo sport è colmo di se: che non fanno storia, ma che ci proiettano in un universo parallelo, in un'altra dimensione, tra rimpianto e fantascienza, tra Borges e Asimov. Andrea Pelliccia e gli altri autori (bravi, senza se e senza ma) ci regalano pagine intense, emozionanti, commoventi.

    E io ripenso al mio amato poeta crepuscolare Guido Gozzano.

    Ricordate la poesia Cocotte?

    Non amo che le cose che potevano essere e non sono state...

    Ritorno ai miei dodici anni, al 1967.

    Giugno. Provino alla Juventus. Attaccante. Davanti ai maestri Pedrale e Grosso. Realizzo un gol con il ginocchio, ma vengo scartato.

    Non è vero. I maestri Pedrale e Grosso mi fanno i complimenti, vengo tesserato. E nel 1974 eccomi al debutto in serie A, con maglia bianconera, al fianco del mio idolo Pietro Anastasi. Contro il Brescia segno in rovesciata e il primo ad abbracciarmi è proprio lui, Pietruzzu.

    9 ottobre. Ernesto Che Guevara viene assassinato nella selva boliviana mentre cercava di portare in America Latina il senso, i sogni e la prassi della rivoluzione cubana. L'Utopia dell'Uomo Nuovo.

    Non è vero. Il Che, seppure ferito, riesce a tornare a Cuba, salvato dal coraggio dei contadini boliviani. Morirà vecchio e sereno, dopo aver dato alle stampe la sua monumentale autobiografia di milletrecentocinquantasei pagine: Nasce dal cuore la mia rivolta per i popoli.

    15 ottobre. Muore investito da un'auto, attraversando corso Re Umberto a Torino, insieme al compagno di squadra nel Torino Fabrizio Poletti, l'ala destra Gigi Meroni. Un fantasista, un beatnik, uno che dribblava anche le nuvole e girava sotto i portici antichi del capoluogo sabaudo con una gallina al guinzaglio. Pochi giorni dopo, sono al derby. In curva Filadelfia, con la mia bandiera bianconera listata a lutto. Tutti piangono. I granata vincono 4-0, tripletta di Nestor Combin, e rete di Alberto Carelli, sceso in campo con la maglia numero 7 della farfalla granata.

    Non è vero. Meroni viene sfiorato dall'auto. Ha un gesto di imprecazione, poi dice a Fabrizio: La vita è un attimo... Dai torniamo a casa, non vedo l'ora di abbracciare Cristiana!. Il derby finirà 3-3, tripletta della farfalla e tripletta di Menichelli. Gigi diventerà campione del mondo a Messico '70, segnando il gol della vittoria azzurra, su assist di Gianni Rivera, contro il Brasile di Pelé nella finale di Città del Messico. 3-2 per gli azzurri. Pelé dirà: Questo Meroni è davvero un fenomeno. È il Mané Garrincha italiano. Meroni, finita la carriera, ha passato anni e anni a insegnare i segreti del pallone ai bambini di Como. Ha continuato a disegnare quadri bellissimi e ha sempre rifiutato di prendere parte ai salotti calciatici televisivi. Il calcio si gioca, non si discute, diceva.

    Introduzione

    Andrea Pelliccia

    Storia alternativa. O, se preferite dirlo con una sola parola, ucronia. Oppure ancora sliding doors, se avete la passione per il cinema e avete visto la pellicola d'esordio del regista Peter Howitt.

    Qualunque sia la definizione che più vi garba, la sostanza è la stessa: immaginare e raccontare una storia presupponendo che il contesto in cui si svolgono gli eventi sia diverso da quello riportato dalle cronache e dalla letteratura.

    In quest'ambito il tema più frequentato è probabilmente la Seconda Guerra Mondiale. Ed è alla visione alternativa delle sorti di questa guerra che si riferiscono due dei libri ucronici più noti: La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 1962) di Philip K. Dick e Fatherland (1992) di Robert Harris. In entrambi i casi lo scenario storico immaginato dagli autori è quello che ha come premessa la Germania vincitrice del conflitto.

    Anche la letteratura italiana vanta esempi interessanti di ucronia. Ricordo, ad esempio, Nero italiano (2003) di Giampietro Stocco, romanzo ambientato in un anno, il 1975, in cui si immagina il nostro paese retto ancora dal regime fascista. Stocco ha pubblicato altri romanzi ucronici e può essere definito, senza il timore di fare torto a qualcuno, il maggiore autore italiano di storia alternativa.

    Passando dalla storia dei popoli a quella dello sport, i casi di letteratura ucronica si riducono drasticamente. Restando in Italia posso citare il romanzo L'inattesa piega degli eventi (2008) di Enrico Brizzi: nel 1960 l'Italia è ancora sotto l'egida fascista, un giornalista è inviato a seguire un campionato di calcio che si svolge nelle colonie italiane d'Africa. Di questo romanzo sono stati pubblicati in seguito due prequel: La nostra guerra (2009) e Lorenzo Pellegrini e le donne (2012). Quanto ai racconti ucronici di sport mi viene in mente Italia mondiale (2000) di Pierfrancesco Prosperi: nel 1982 un'Italia ancora dominata dal fascismo diventa campione del mondo di calcio.

    Un'intera antologia di racconti che coniughino storia alternativa e sport non mi risulta essere mai stata pubblicata, almeno nel nostro paese. E, visto l'entusiasmo con cui è stata accolta quest'idea sia dall'editore cui è stata sottoposta sia dagli scrittori che sono stati coinvolti nella sua elaborazione, viene da dire che il tema è allo stesso tempo nuovo e stimolante. In effetti gli scritti che ho raccolto hanno centrato in pieno lo spirito dell'iniziativa: comporre una storia alternativa suddivisa in vari capitoli, in ciascuno dei quali si raccontano diversi sport: dal calcio al rugby, dal basket all'atletica leggera, dal pugilato all'hockey su ghiaccio all'automobilismo.

    L'ordine cronologico in cui vengono presentati i racconti dovrebbe contribuire a rendere più credibile e organico l'intero corpus, che copre così un arco temporale di più di centoventi anni: da una partita di football disputata in terra inglese nel 1883 (decisiva per le sorti future del gioco più bello del mondo) alle corse automobilistiche (virgolette d'obbligo, come il lettore capirà) del 2004. E, poiché non tutte le storie che leggerete sono conosciutissime né si può pretendere di avere una platea di lettori specializzati in storia dello sport, ho ritenuto doveroso chiedere agli autori di inserire al termine di ciascun racconto una breve nota che descriva come si sono realmente svolti gli eventi. I più accorti, poi, noteranno l'assenza di sport molto seguiti, come ad esempio ciclismo, tennis, nuoto e sci. Siamo pronti a colmare questa lacuna, dando un seguito a quest'antologia qualora dovesse avere il riscontro che credo meriti.

    La storia alternativa che trovate nelle pagine che seguono è vista da un duplice punto di vista: quello dell'autore, avvezzo a scrivere di sport, che si cimenta con la letteratura fantastica e quello dell'autore, specializzato nella letteratura fantastica, che offre la propria penna alla narrazione di vicende sportive. Si tratta in ogni caso di fiction, quindi ogni situazione, ogni frase pronunciata dai protagonisti è da considerarsi immaginaria.

    Tra questi scrittori vorrei ricordare il già citato Giampietro Stocco, che con il suo Passaggio di consegne regala un meraviglioso affresco ucronico dell'Italia sportiva (e non solo) della fine degli anni Cinquanta; Carlo Martinelli (autore di Storie di pallone e bicicletta e di Campo per destinazione. 70 storie dell'altro calcio), che in A domanda risponde rilegge in chiave ucronica la storia del pugno nero di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968; Gian Domenico Mazzocato (autore de Il castrato di Vivaldi, romanzo rientrato nel novero dei ventisette libri presentati all'edizione di quest'anno del Premio Strega), che in Io sono Wilfredo immagina vicende e protagonisti diversi per la finale dei Mondiali di Calcio di Mexico 1970.

    Unico rammarico: l'esiguità delle quote rosa. Quest'antologia vanta un'unica scrittrice. Di qualità e spessore ma, purtroppo, una sola. È un nome molto noto a chi frequenti la letteratura di fantascienza: si chiama Emanuela Valentini, ha vinto svariati premi e il suo Maya Clay lascia la sensazione di un'autrice perfettamente a suo agio anche quando inventa storie legate allo sport.

    Un pensiero doveroso va infine all'editore Silvio Sosio. Sono poco più di un esordiente, avendo all'attivo solo un paio di libri (che gli amanti delle classificazioni catalogherebbero sotto la voce narrativa sportiva), una manciata di racconti e svariati articoli pubblicati su varie riviste on-line, tra cui Fantascienza.com. Lo ringrazio per avermi dato l'opportunità di curare quest'antologia.

    Bene, non ho altro da aggiungere: è giunto finalmente il momento di passare dalle parole ai fatti. Palla al centro! Gong! On your marks, get set, go!

    Gli operai che non fecero l'impresa

    Simone Cola e Marco Di Grazia

    30 luglio 1966

    Il capitano della squadra inglese salì i gradini che portavano verso la tribuna d'onore dove, di lì a poco, la regina Elisabetta gli avrebbe consegnato l'agognato trofeo: la Coppa del Mondo.

    Era la prima volta per gli inglesi, che quello sport lo avevano inventato un secolo prima e che non avevano mai voluto partecipare alle prime edizioni dei campionati mondiali ritenendosi i maestri di quel gioco e per questo nel pieno diritto di non misurarsi con avversari di altri paesi che non fossero quelli britannici.

    Poi le cose avevano cominciato a cambiare e i maestri, a causa del loro cieco isolazionismo, non si erano resi conto di non essere più imbattibili. Si erano dovuti rimboccare le maniche e avevano subito sconfitte e umiliazioni.

    Fino a quel 1966, quando organizzarono in casa il campionato del mondo e arrivarono in finale.

    E vinsero.

    E ora il vecchio capitano, che aveva da poco compiuto 38 anni, stava per ricevere dalle mani della regina la coppa che simboleggiava il trionfo.

    Pensava a quando era piccolo, a quando aveva cominciato a giocare e a suo nonno che lo guardava infastidito. A lui quel gioco non piaceva, lui era rimasto legato a quell'altro sport, che aveva praticato in gioventù e che rimpiangeva sempre, descrivendolo come il gioco più bello del mondo. E poi raccontava di quella partita, la partita che aveva vissuto in prima persona, nel 1883, che aveva giocato. La partita che, diceva sempre il nonno, poteva cambiare la storia.

    Il capitano sospirò e sorrise pensando al nonno e alle sue smorfie quando lo vedeva giocare, poi alzò lo sguardo e lo incrociò con quello sorridente della regina Elisabetta. La regina aveva in mano la coppa che gli avrebbe consegnato e in cambio il capitano stava per darle il pallone della partita, il pallone ovale autografato da tutti i giocatori e che sarebbe stato conservato a Buckingham Palace.

    31 marzo 1883

    Mentre raggiungeva la sua posizione in campo, pochi minuti prima del calcio d'inizio, John Hunter si guardò intorno. Il suo sguardo attraversò le minuscole gocce di una pioggerella leggera che aveva iniziato a scendere e capì che il momento era solenne. Le quasi diecimila anime che riempivano le tribune del Kennington Oval di Londra gridavano a squarciagola, l'atmosfera era elettrica, la tensione al massimo.

    Nemmeno una pioggia più pesante, nemmeno la nebbia o la neve avrebbero potuto impedire a tutta quella gente di dirigersi lì a fare da contorno a quel match che, pensò John, era indubbiamente la partita di football più importante a cui avesse preso parte nella sua pur lunga carriera, che lo aveva visto arrivare addirittura alla maglia della Nazionale. Si rese conto che un solco era stato tracciato, che da quel momento niente sarebbe stato come prima e che lui, John Hunter, era una pedina fondamentale di un cambiamento epocale.

    Quello che stava per iniziare, infatti, assumeva i contorni aurei del più importante match mai giocato da quando il football era stato concepito, oltre vent'anni prima, quando John era soltanto un bambino, figlio della classe operaia di Sheffield. Si sarebbe scritta la storia, in quei novanta minuti, e, anche se l'impresa sembrava proibitiva, Hunter aveva imparato che a volte anche quello che sembra impossibile può essere realizzato. Il suo nome e quello del Blackburn Olympic sarebbero entrati nella storia di quello che, ne era certo, sarebbe un giorno diventato lo sport più amato al mondo. E un ulteriore sguardo al pubblico in tribuna glielo confermò. A John vennero in mente i racconti che leggeva da bambino sugli antichi romani, sui gladiatori che entravano nelle arene e che si battevano davanti a folle infinite. Ecco, quello si sentiva: un gladiatore. Lui e i suoi compagni. E davanti avevano effettivamente dei leoni.

    Ora lo sguardo passò dal pubblico agli avversari, schierati dall'altra parte del campo di gioco: i nobili e ricchi ex-studenti di Eton. Li squadrò uno a uno con lo sguardo fermo. Certo, la differenza tra quelli che erano a tutti gli effetti i suoi uomini e gli altezzosi Old Etonians era notevole: prima di entrare in campo, per preparare i compagni che mai avevano giocato una partita così importante, John aveva detto loro che se la sarebbero dovuta vedere contro uomini che in media li superavano di una decina di centimetri in altezza e di altrettanti chili in peso. Adesso che li osservava più da vicino si rendeva conto di non aver affatto esagerato, eppure sapeva che l'impresa era possibile. Perché il calcio non è pugilato, perché conta quello che fai come squadra.

    L'Olympic non era arrivato fin lì per caso. John Hunter ne era consapevole e mentre incrociava lo sguardo di Arthur Kinnaird, il più forte giocatore in circolazione e leader degli Old Boys di Eton, nella sua mente riaffiorarono i mesi appena trascorsi, quei giorni in cui una squadra di operai aveva stupito l'Inghilterra. Si dice che quando si sta per morire tutta la vita passi davanti agli occhi. John sorrise: non stava per morire, almeno così sperava, ma era di fronte all'evento più importante della sua vita e una parte di quella vita, quella legata a quel gioco che amava tanto, gli sfilò elegante davanti agli occhi, come una serie di fotografie una attaccata all'altra.

    Hunter era arrivato a Blackburn l'anno precedente, nel 1882. Ufficialmente aveva raggiunto il Lancashire, lasciando Sheffield, per trattare la gestione di un pub cittadino, il Cotton Tree, ma in realtà la faccenda avrebbe avuto a che fare con il football. Lo aveva invitato in città, infatti, l'imprenditore locale Sidney Yates, padrone della più grande acciaieria presente nella zona e con un progetto in testa che richiedeva la presenza proprio di John, ormai in procinto di appendere gli scarpini al chiodo. Hunter si era presentato all'appuntamento nell'ufficio dell'imprenditore con curiosità: cosa poteva volere da lui un uomo ricco e potente come Sidney Yates?

    – Il football non è un titolo nobiliare! – biascicò Yates sputazzando pezzi di tabacco mentre colpiva la scrivania con un pugno.

    – Quei figli di buona donna hanno avuto tutto e per diritto divino: titoli, soldi, donne, divertimenti… – Hunter osservava il convulso agitare le mani dell'uomo, che poi rimise il sigaro in bocca.

    – Certo, il football lo hanno creato loro. Lo credo bene, non avevano altro da fare. Ne hanno stabilito le regole, se lo sono appiccicato addosso come uno dei loro eleganti abiti, lo conoscono meglio di chiunque altro e hanno tutto il tempo per allenarsi, per affinare il gioco e l'intesa della squadra.

    Hunter si chiedeva dove volesse andare a parare il ricco uomo d'affari.

    – Ma, goddam!, il football non è un gioco per nobili. Il football è fatica, è grinta, è sacrificio. È uno sport popolare e il popolo può e deve dedicarvisi!

    Yates, con la concretezza tipica degli uomini del nord, era giunto immediatamente al punto: da poco aveva preso a patrocinare una squadra cittadina, sorta soltanto da pochi anni, e intendeva trasformarla nella squadra più forte del paese portandola alla vittoria della Coppa d'Inghilterra, la FA Cup. E quando Hunter gli aveva fatto notare che questo era impossibile, e che fino a quel giorno il trofeo era sempre stato appannaggio delle squadre formate dagli ex studenti delle scuole londinesi, Yates aveva affermato che nel football, come negli affari, bisogna essere capaci di guardare oltre, nel futuro.

    – Caro Hunter… posso chiamarla John? Caro John – aveva proseguito Yates, dopo aver acceso un altro sigaro e averne offerto uno anche al suo interlocutore – il football sarà lo sport del futuro. Io vedo in questo gioco un potenziale immenso, una volta che sarà sottratto dalle avide grinfie di quegli arroganti. Immagini, John: squadre di calcio in ogni città, stadi pieni di spettatori paganti, il sogno di potersi sottrarre alla miseria imparando a calciare un pallone nel modo giusto. Il pallone, qui, è di casa già da molti anni. Ne è consapevole? Ricorda l'impresa del Darwen?

    Hunter ricordava eccome. Circa tre anni prima questo club, espressione di una comunità poco più a sud di Blackburn, aveva fatto tremare i vertici del calcio inglese sfidando proprio gli Old Etonians di Arthur Kinnaird. Senza godere del benché minimo credito, sotto per 5-1 alla fine del primo tempo nell'ostile Londra, i Darreners erano riusciti a rimontare in poco meno di mezz'ora, trovando il pareggio nelle battute finali. Avevano costretto i nobili rivali al replay, e qui avevano pareggiato ancora, cadendo solo nella terza sfida a causa della stanchezza accumulata nei turni di lavoro in fabbrica e nei lunghi viaggi necessari per raggiungere ogni volta Londra.

    Hunter ricordò proprio questo particolare a Yates e questi, picchiettando il sigaro sulla scrivania, lo guardò abbozzando un sorrisetto. Sembrava un gatto in procinto di mangiarsi un grosso topo.

    – Non vi saranno più queste differenze se ai calciatori sarà concesso di allenarsi con regolarità, di formare uno spirito di gruppo, di migliorare l'alimentazione e le condizioni di vita. Di essere degli atleti, insomma! A lei piacerebbe, John?

    John Hunter sussultò. L'imprenditore gli stava descrivendo quello che era sempre stato il suo sogno: vivere grazie

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