Il lustro dell'Inter: Dieci personaggi che nel quinquennio 2005-2010 hanno portato i nerazzurri fino al Triplete
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Anteprima del libro
Il lustro dell'Inter - Mattia Todisco
completamente.
1 - Massimo Moratti
Dove tutto è cominciato
Un destino segnato, quello del Moratti più piccolo: per uno che la prima a San Siro l’ha vissuta il giorno di Inter-Milan 6-5 (anno 1950, il derby più famoso della storia), la conclusione del lungo percorso da tifoso non poteva che sfociare nella presidenza. Ci sono centinaia di milioni di motivi, nonché di euro, per citare in primis il presidente. Figlio di cotanto padre, Angelo Moratti, il promotore di una dinastia che a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta ri empie la bacheca nerazzurra di trofei su trofei. Uno dei primi costa l’espulsione dall’Istituto Leone XIII al giovane Massimo, esentato dal presentarsi a scuola da una giustifica per malattia, firmata da papà. In realtà la famiglia riunita è presente sugli spalti del Prater di Vienna per assistere all’atto conclusivo della Coppa Campioni, anno 1965. Il segreto di Pulcinella viene svelato dalle immagini televisive, che mostrano padre e figlio impazziti di gioia in mezzo alla squadra festante.
Il traguardo dei tre lustri al timone è stato da poco tagliato, quando arriva il. Stagioni difficili, almeno fino a cinque anni or sono, quando Calciopoli
e alcuni investimenti mirati danno i primi frutti, ma dal presidente spendaccione e simpatico all’imprenditore vincente il passo è tortuoso. Il lunedì tanto odiato dalla classe lavoratrice diventa per anni l’incubo presidenziale. Cortese e disponibile, Moratti si offre alle telecamere come vittima sacrificale nei day after delle domeniche pallonare, commentando sconfitte su sconfitte, raccogliendo macerie lasciate sul cammino da consiglieri poco affidabili e protagonisti inadeguati. Non china la testa, non allontana i microfoni. Difende i calciatori come fossero figli suoi. Ingoia rospi, sopprimendo presto quel sorriso smagliante con il quale si era presentato nelle prime fotografie di rito, quando da- vanti al gremito Meazza
si consuma il passaggio di consegne: è il 19 febbraio del 1995, l’Inter batte 1-0 il Brescia grazie ad un guizzo di Nicola Berti e conquista la vittoria numero 1000 in campionato. La seconda Era Moratti
ha inizio.
Come il bambino di fronte al giocattolo, finalmente tornato ad essere affare di famiglia, il novello proprietario si dà allo shopping convulsivo e incappa nelle prime cadute. È vero, come molti ricordano, che uno dei giocatori acquistati nella prima campagna acquisti è tuttora ad Appiano Gentile (Javier Zanetti). D’altra parte alcuni tonfi sono rumorosi e la testa va presto a sbattere contro il muro dell’inesperienza. Affidate le operazioni di mercato a Paolo Taveggia, interista di fede e milanista di provenienza, il Massimo dirigente si tuffa nell’amato mondo della Premiership, un campio- nato che di lì a poco avrebbe sopravanzato la Serie A nell’interesse globale e che ha nel Manchester United la sua stella più lucente. Un uomo su tutti attira le sue simpatie: Eric Cantona, francese dall’estro sopraffino, fisicamente dotato e di intelligenza calcistica superiore, seppure frenato da un carattere a dir poco impulsivo. Quando l’Inter prova a strapparlo ad Alex Ferguson, il giocatore è ancora nel pieno della squalifica di nove mesi affibbiatagli dalla federazione inglese per aver sferrato un calcio volante ad un tifoso del Crystal Palace. I red devils
si trovano in una fase di passaggio e la trattativa sembra vicina a concludersi positivamente. Apparenze, perché i procuratori dell’attaccante trovano l’accordo per un rinnovo contrattuale e abbandonano la pista nerazzurra.
«Se abbiamo commesso errori non ce ne siamo accorti, ma la lezione ci servirà» sentenzia il presidente.
Ricorda Taveggia di quelle stagioni: «Di Massimo Moratti ero e sono amico. Ci frequentavamo da bambini, stavamo sempre insieme a giocare nella sua villa di Imbersago. Un giorno, verso la fine del 1994, mi arrivò una telefonata: accettai la sua proposta, ero tifoso dell’Inter, nonostante il mio ingaggio fosse di ben un terzo inferiore a quello che percepivo al Milan. La struttura era composta oltre che da Moratti, da Ghelfi, Visconti di Modrone e Moretti amministratori delegati, da Sandro Mazzola responsabile del mercato, Mario Corso responsabile del settore giovanile e Ottavio Bianchi allenatore. [...] Dopo poche settimane mi sono accorto che il progetto stentava a realizzarsi. In società c’era troppa gente a occuparsi dei problemi e pochi punti di riferimento. Si lavorava frenati da troppe interferenze: sembrava quasi che uno bloccasse l’altro. Io che sono abituato a lavorare sodo, assumendomi le mie responsabilità, mi trovai a disagio. Così un giorno, non potendone più, scrissi una serena lettera di dimissioni a Moratti, che accettò».
Un racconto che sottolinea l’infelice avvio al timone. Il già citato Zanetti, Roberto Carlos e Ganz sono i primi colpi della campagna acquisti d’esordio, ma assieme ai buoni elementi ne arrivano al- tri la cui esperienza a Milano passa quasi inosservata. Assieme all’attuale capitano sbarca, ad esempio, " El Avioncito Sebastian Rambert. Un attaccante brevilineo, anche troppo, che esce di sce- na dopo aver divorato una lunga sequela di occasioni da gol nella storica sconfitta contro il Lugano in Coppa UEFA. Fa pochissima strada anche il brasiliano Caio, giunto in nerazzurro da rivelazio- ne del campionato mondiale Under 20 e giubilato in seguito ad un disperato tentativo di rinascita al Napoli. La delusione più cocente riguarda Salvatore Fresi, ventidue anni e la fama di
nuovo Baresi". Il giovane difensore prelevato dalla Salernitana comincia la stagione alla grande, risultando tra i pochi a salvarsi anche nel periodo precedente all’esonero di Ottavio Bianchi (avvenuto già alla quarta giornata). Il successore, Roy Hodgson, decide però di testarne le capacità a centrocampo, al fine di coprire il vuoto palesatosi in cabina di regia. Gli effetti sono disastrosi. Il ragazzo non ha né il passo né l’esperienza per potersi adattare rapidamente al nuovo contesto e si brucia nel giro di pochi mesi. Non tornerà mai più ai fasti di Salerno.
Massimo Moratti, al centro, a un evento a Milano con Gigi Simoni (alla sua sinistra) e Luis Suarez (a destra)
Nella decisione di utilizzare Fresi qualche metro più avanti gioca un ruolo fondamentale Luis Suarez, chiamato a traghettare la squadra da un tecnico all’altro e sfortunatamente presente in panchina nel giorno della clamorosa eliminazione contro gli svizzeri. Allo spagnolo verrà affidato il medesimo, ingrato compito pochi anni più tardi a Mosca, quando i nerazzurri rimedieranno uno squassante 3-0 in casa della Lokomotiv, preludio al mancato accesso agli ottavi di Champions League. In generale, molte delle vecchie glorie trasportate di peso in società non riescono ad imporsi. Il baffo
Mazzola conferma le difficoltà evidenziate nella prima esperienza da dirigente con Fraizzoli; personaggi del calibro di Corso e Angelillo, forse i due giocatori che Moratti ha più ama- to da giovane tifoso, non trovano adeguata collocazione a livello societario. Il solo Facchetti si distingue per l’abilità nelle relazioni internazionali e diventerà un punto fermo negli anni a venire. Tutti gli altri ripiegano
nella scuderia degli osservatori. Tra le bandiere dell’era Pellegrini, Zenga si occupa del settore marketing per sei mesi, quindi intraprenderà la carriera di allenatore, mentre Bergomi e Ferri non verranno mai inseriti in alcun progetto.
Sono scelte che i tifosi rinfacciano a più riprese nei periodi di scarso appeal . Manca esattamente un mese all’anniversario dei nove anni di presidenza quando Moratti si fa da parte, incalzato dagli stessi sostenitori che qualche stagione prima ne avevano caldeggiato l’entrata in scena, allontanando le ipotesi riguardanti l’ingresso di imprenditori facoltosi, come Del Vecchio o Benetton, ma non supportati dalla storia che un cognome così importante rappresenta a Milano. Nell’inverno 2004, uno dei più freddi degli ultimi cinquant’anni, l’Inter chiude il girone d’andata a undici punti dalla coppia di testa (Milan e Roma), con una sciagurata dèbacle casalinga a vantaggio dell’Empoli. Il Meazza
fischia, Moratti si dimette, Facchetti gli subentra. Il periodo buio tocca il suo apice. Tutto svanirà, ma solo due anni dopo.
Ronaldo-Eto’o, simboli opposti
In occasione della presentazione della Tessera del tifoso
, nel giugno 2009, l’attuale numero uno scorge in platea Ernesto Pellegrini, l’uomo che gli ha consegnato l’Inter. «Lo saluto con affetto, ma non lo ringrazio – dice – perché tutto quello che mi ha detto ai tempi del passaggio di proprietà è puntualmente acca duto». Delusioni, rivolte popolari, spese folli. Ecco di cosa parlava Pellegrini durante la trattativa del ‘94, quando una serie di stagioni in chiaroscuro lo spinsero ad abdicare in favore di Moratti, il quale riesce a togliersi pochissime le soddisfazioni nei suoi primi anni nerazzurri, nonostante i rinforzi si chiamino Ronaldo Luis Nazario da Lima. Una storia senza lieto fine per quello che resta il più grande colpo di mercato di quegli anni. Un giocatore inseguito fin da Usa ‘94, quando il Brasile si mobilita invano per spingere Carlos Alberto Parreira a schierare il diciottenne attaccante, allora talento del Cruzeiro in procinto di vivere la sua prima esperienza in Europa. Passa al Psv Eindhoven, ma Moratti lo tiene d’occhio. Segna quasi un gol a partita: 55 reti in 57 incontri. Roba da lustrarsi gli occhi, tanto che a Barcellona decidono di investire sul ragazzo. Centro perfetto. Ronaldo è una macchina da guerra in un corpo da Fred Astaire. Danza sul pallone con grazia e potenza, quanto a tecnica non ha rivali e non c’è modo di arrestarne la progressione. Le sue reti sono uno spot per il calcio, una di queste diventerà addirittura motivo di un contenzioso giudiziario: la Nike, estasiata da un favoloso slalom realizzato contro il Santiago de Compostela, ne ricava una pubblicità. Sette giocatori della squadra galiziana chiedono il ritiro della campagna sponsorizzata dal colosso statunitense, per offesa della dignità professionale
. Dodici anni dopo, il giudice definisce antologica
la giocata in questione e assolve la multinazionale.
Ronaldo alla festa per l'introduzione della Hall of Fame del club nel 2018
Un caso emblematico di quanto il brasiliano sia al centro dell’attenzione mediatica, oltre che calcistica. Non abbastanza, evidentemente, da far drizzare le antenne a Josep Lluís Núñez, numero uno del club blaugrana, famoso per i clamorosi alti e bassi della sua ultraventennale gestione. Dopo aver clamorosamente ceduto un certo Maradona al Napoli (correva l’anno 1984), riesce a farsi sfuggire anche il Fenomeno
a causa di una clausola inserita nel contratto firmato dodici mesi prima. I catalani tentano in ogni mo- do di trattenere l’attaccante, si rivolgono perfino alla FIFA, che con una sentenza un po’ bizzarra obbliga Moratti a pagare un surplus . A somme fatte, ne esce un totale astronomico, che non spaventa l’inquilino di Palazzo Saras. Costruire una nuova Grande Inter
da far impallidire quella precedente, non ha prezzo. Tanto che il maggiore imprenditore italiano, Gianni Agnelli, definisce Ronaldo «un campione, ma non un investimento». L’Avvocato si sbaglia.
Come scrive