Dal grigio alla stella: Gianni Rivera. Alessandria, Milano e il suo mondo.
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Anteprima del libro
Dal grigio alla stella - Mimma Caligaris
Ringraziamenti
Prefazione
di Sandro Bocchio
Per dirla alla René Magritte, quanto segue non sarà un approfondimento sociologico. Ma lo sarà, in qualche modo. Non può esserlo fino in fondo, perché un lavoro di tale tipo richiede gli strumenti classici dello studioso: analisi, dati, flussi. Ma, al tempo stesso, può esserlo, perché parlare di alessandrinità significa fare riferimento a un modo d’essere, a un ambiente, a una tipologia di comportamento dalle caratteristiche ben definite. E chiunque sia nato in Alessandria ha, per l’appunto, la certezza incrollabile di poter erigersi a giudice ultimo in materia, anche adoperando le sole basi empiriche. Altrimenti non sarebbe orgogliosamente alessandrino. Logico no?
Parlare di Gianni Rivera significa inserirsi in questo flusso. Un flusso che ti fa amare la tua città, anche quando tutti ti prendono in giro dicendo che c’è soltanto la nebbia (un tempo, forse…). Un flusso che ti fa stare bene con gli alessandrini, anche quando tutti ti dicono che abbiamo un carattere chiuso e scontroso. Un flusso che ti fa apprezzare quel poco che hai, anche quando tutti decantano le bellezze di mille altri luoghi. Un flusso che ti fa scoprire gente capace di prendere tremendamente sul serio gli impegni, di mantenere la parola data, di possedere soprattutto una qualità che ti distingue dagli altri: perché, in Alessandria, abbiamo demolito il detto piemontesi falsi e cortesi
. Non saremo cortesi, forse, ma soprattutto non siamo falsi. Tutt’altro. Caratteristiche che Rivera ha saputo mantenere vive nel lungo arco della sua vita, professionale e umana. Uno insofferente alle ingiustizie e ai pregiudizi, uno pronto a mettersi di traverso se qualcosa non gli torna. Da alessandrino, per l’appunto. Il tutto in maniera ferocemente disincantata, tipicamente nostra. Siamo nati per la battuta perfida, che in poche parole fissa il giudizio definitivo su una persona o su una situazione, da cui non si salva nessuno: quelli che ci sono vicini come quelli più lontani da noi. Meglio perdere un amico che una battuta
, è l’aforisma attribuito a Oscar Wilde: lo scrittore irlandese si sarebbe trovato d’incanto tra Tanaro e Bormida.
E tra Tanaro e Bormida affondano le radici di questo essere alessandrini, di questo essere pronti ad andare contro chi comanda. Pensiamo ai primi giorni della città. Nel 1174 Federico Barbarossa la pone sotto assedio: come venirne fuori quando la gente era stremata e affamata? La tradizione ci racconta di Gagliaudo, che fa riempire una vacca di granaglie, la porta oltre le mura a pascolare, dove si fa catturare dal nemico. Quando gli assedianti macellano l’animale, scoprono come sia ben nutrito, convincendosi che Alessandria possa resistere ancora a lungo: smantellano l’accampamento e se ne vanno.
Questo racconto, che attiene più alla leggenda che alla realtà, è l’esempio di come il potere costituito non abbia mai saputo conquistare la città e i suoi abitanti fino in fondo. Lo racconta la storia: ad Alessandria viene issato il primo tricolore nella storia risorgimentale, capita il 10 marzo 1821, quando si ribellano i soldati della Cittadella. Lo racconta la politica: l’Alessandria sì socialista, ma in quella variante tutta sua che era il socialismo di sinistra, oppure l’Alessandria leghista delle origini, capace di scegliere sindaco una donna come Francesca Calvo, cui sarebbero seguite su altri fronti Mara Scagni e Rita Rossa, un unicum
al femminile in Italia. Lo racconta la cultura: Umberto Eco è stato uno degli intellettuali più anticonformisti a cavallo dei due secoli, un alessandrino a tutto tondo che tornava a casa appena poteva, che adorava la bell’e calda e che ti fulminava gioiosamente in poche righe. E lo racconta il calcio. Perché, quando tutti hanno scelto colori sgargianti – magari anche a strisce – per la maglia di una squadra, noi abbiamo optato per uno solo. Il grigio, per di più. Puro e semplice, senza alcuna aggiunta cromatica o geometrica. È il neutro per eccellenza, capace però di renderti unico al mondo. E, per questo, immediatamente riconoscibile, senza confusioni di sorta, capace di generare una storia distintiva.
Una storia di cui Rivera è interprete ideale, capace di segnare generazioni di alessandrini. Negli anziani c’era la felicità di vedere, sul finire degli anni Cinquanta, il rinnovarsi del talento di una scuola che aveva segnato il calcio italiano tra le due guerre mondiali: quella che aveva generato giocatori come Adolfo Baloncieri, Luigi Bertolini, il due volte campione del mondo Giovanni Ferrari. Nei loro figli c’era la speranza (comunque illusa) di poter vivere ancora qualche scampolo ad altissimo livello, grazie a quanto sarebbe arrivato nelle casse della società. Nei loro nipoti, come il sottoscritto, c’era l’orgoglio di poter dire, negli anni Sessanta e Settanta, sono di Alessandria, come Gianni Rivera
.
Attorno a lui, in quegli anni, si era creata una sorta di comunità: potevi non essere milanista, ma non potevi non riconoscere il valore oggettivo del giocatore. E andarne fiero. A cominciare dal fatto che parliamo del primo italiano ad aver vinto, nel 1969, il Pallone d’oro. In un’epoca in cui il nostro calcio si arroccava su difesa e contropiede, in un’epoca in cui la furbizia cercava di prevalere sulle virtù, Rivera è stata la qualità assoluta, dal suo primo apparire fino all’ultimo istante, per quasi un ventennio, dal 1960 al 1979. Soltanto lui poteva scegliere di calciare in controtempo, al minuto 111, per battere Sepp Maier e consegnare Italia-Germania Ovest 4-3 alla storia del pallone nella semifinale del Mondiale 1970. E soltanto lui, episodio di cui sono stato testimone allo stadio Comunale nel dicembre 1977 in un Torino-Milan, poteva ricevere all’altezza della metà campo un rinvio di Enrico Albertosi, farsi passare la palla tra le gambe sotto il corpo, toccarla d’interno con il tacco destro e andare via a sinistra in totale eleganza, mandando in confusione chi lo stava marcando stretto.
Soave sul campo, determinato nelle prese di posizione. Come ogni alessandrino che si rispetti. Rivera ribatteva colpo su colpo a chi lo accusava di non avere un’anima, a cominciare da Gianni Brera che lo aveva marchiato a fuoco con il termine abatino
per sottolinearne la scarsa attitudine alla battaglia fisica, così apprezzata dal gran lombardo. Duellava con gli arbitri, a cominciare da Concetto Lo Bello, mettendo sotto accusa una categoria allora ritenuta intoccabile. Incrinava il potere dei club, che trattavano i giocatori come merce e non come dipendenti: c’è lui nel gruppo che, il 3 luglio del 1968 (anno non casuale), dà vita all’Associazione italiana calciatori, il sindacato che avrebbe lottato per i diritti di chi scende in campo. Uno con cui non era semplice confrontarsi, per la personalità. Uno anche divisivo, non tanto nel Milan – comandava lui, punto e basta – quanto, soprattutto, in Nazionale. Gli imputavano la disfatta al Mondiale 1966 quando, più che dalla clamorosa sconfitta con la Corea del Nord, una pietra tombale sulla spedizione azzurra era stata messa dal precedente KO contro l’Unione Sovietica, con Rivera seduto in panchina: scelte di formazione che il CT Edmondo Fabbri si faceva imporre dai giornalisti più influenti al seguito. Poi la staffetta con Sandro Mazzola nel Messico già ricordato, quando Ferruccio Valcareggi non sapeva decidersi tra i due e allora li alternava. Con esiti positivi, come contro la Germania Ovest, oppure pateticamente comici, come l’ingresso di Rivera a sei minuti dalla conclusione in una finale già decisa a favore del Brasile.
Un’esperienza in azzurro che si sarebbe chiusa con il fallimento in Germania Ovest, quattro anni dopo. Con il Milan, Rivera sarebbe ancora andato avanti fino al 1979, per lasciare il calcio con lo scudetto della stella. Di quel club avrebbe voluto essere una continuazione a livello dirigenziale, l’arrivo di Silvio Berlusconi nel 1986 lo allontana definitivamente: tutto lo divideva dal nuovo proprietario, anche la politica, su cui sarebbero stati avversari in tempi successivi. Una pausa dal calcio che dura a lungo. La FIGC lo chiama nel 2010, per affidargli la guida prima del Settore Giovanile e scolastico, quindi quella del Settore tecnico, in quella Coverciano voluta e creata da Giovanni Ferrari. Impegni presi profondamente sul serio, come seria è stata la decisione di frequentare il corso di allenatore per conseguire il patentino UEFA Pro il 25 settembre 2019, a settantasei anni di età, senza perdere un’ora di lezione. Un senso del dovere tutto alessandrino, per l’appunto. Vederlo un giorno anche in panchina sarà pressoché impossibile, ma sarebbe tanto bello…
Il muro in via Pastrengo
Rivera? È nato a Betlemme
(Andrea Maietti)
Mariuccia, ho visto un fenomeno. Un ragazzino sbarcato in Alessandria dallo spazio
.
Teresa abita in quella casa in via Pastrengo 1, nel cuore di Alessandria. Il Canton di Russ, una nicchia dentro Borgo Rovereto, dove il colore racconta, anche, una fede politica di gente orgogliosa, che si è rimboccata le maniche per far ripartire una città uscita a pezzi dalla guerra mondiale. I segni della distruzione ancora in ogni angolo, dalla periferia al centro. Neppure un centimetro risparmiato dalla furia di un conflitto che voleva spazzare via tutto in questa città che, importante nodo ferroviario, era strategica: per le comunicazioni, certo, per la vita di una nazione che adesso voleva riprendersi la sua libertà, voleva rinascere e tornare a essere al centro della vita politica, economica e sociale dell’Italia. Una one company town, un modello sociale. E nello sport, nel calcio, la culla di una grande scuola: Baloncieri, Ferrari, Banchero, Bertolini, Gandini, Cattaneo, il nutrimento vitale della nazionale dei due titoli mondiali, della Juventus dei cinque scudetti, la provinciale
bella e vincente, con quella maglia grigia inconfondibile, il colore dell’identità.
Il Moccagatta è a due passi, lo si vede, quasi lo si può toccare, accarezzare. Quel nome glielo avevano dato da poco, uno dei primi regali della pace ritrovata: non più Campo del Littorio, la denominazione di regime, quando era stato inaugurato, il 6 ottobre 1929, e i meno giovani, al Canton di Russ, ricordavano anche i dettagli di quella partita, Alessandria-Roma, vinta per 3-1, perché andare allo stadio era la consacrazione del giorno della festa anche nella religione laica di gente che faceva sacrifici, ma alla partita non poteva rinunciare. Era una boccata di vita e di energia, e se i Grigi vincevano la settimana iniziava con ancora più voglia di dire al mondo che Alessandria era viva, nonostante le bombe.
Un segno del destino, crescere all’ombra di quello stadio che porta il nome del primo sindaco dopo la Liberazione, anche primo presidente della società. Il Mocca a pochi passi da via Pastrengo, tutti i bambini allungano la strada per andare a fare i compiti all’Oratorio dei Salesiani per passare davanti e respirare il profumo dell’erba dei campioni. Sognando di entrare, una volta, con quella divisa unica, quel colore che nessuno ha e che è il più bello.
Mariuccia, quel bambino non ha ancora sette anni, ma farà strada. Da’ retta a tua mamma Teresa. Lo so che a te il calcio interessa poco, ma questo è un fenomeno come non si è mai visto. Anche tuo papà lo ha notato e lui di football se ne intende, molto più di me: tutti i giorni, quando arriva da scuola, mangia velocissimo e poi è subito in cortile. Palleggia contro un muro, sembra un giocoliere, la palla continua a viaggiare dal suo piede alla parete e poi ancora calciata, ripresa, alzata, abbassata, governata a suo piacere. Sembrano una cosa sola, quel bimbo e il pallone, come se fossero nati insieme e destinati a vivere tutta la vita uniti. Uno spettacolo: un pomeriggio butta un occhio fuori dalla finestra e lascia andare lo sguardo oltre la ringhiera del balcone: osservalo anche tu, uno spettacolo da cui non staccheresti mai gli occhi. Ho chiesto ai vicini, sai che sono curiosa: mi hanno detto che si chiama Gianni Rivera, mi sono segnata questo nome su un foglio, perché ho paura che, invecchiando, la memoria mi tradisca, e, invece, io voglio poter raccontare a tutti che, in un cortile di via Pastrengo 1, duettava con la parete e vinceva sempre lui. Sì,
Gianni Rivera, ricordatelo anche tu Mariuccia, e fidati delle sensazioni di tua madre, che di calcio non è una intenditrice, ma ha la capacità di vedere dentro le persone: diventerà un grande calciatore. Di più: grandissimo. Tutti verranno a chiedere cosa faceva da piccolo, e Alessandria diventerà, anche, la città di Rivera. Di Borsalino e Rivera. E tu, Mariuccia, ti ricorderai di cosa ti diceva tua mamma Teresa, una delle prime ad aver capito che quel ragazzino sarebbe diventato un calciatore e avrebbe fatto la storia
.
Sotto le bombe
La storia del bambino con il pallone inizia il 18 agosto 1943. Avrebbe potuto non iniziare mai: perché la vita di papà Teresio, ferroviere, e mamma Edera è sconvolta dalla tragedia. La piccola Maria Luisa, la primogenita, bellissima, nata il 22 gennaio 1942, ha un destino segnato fin da quando apre gli occhi: morbo blu
, un verdetto in due parole, contro il quale, in quel momento, non c’è possibilità di lottare. Infezione al cuore, rarissima, e spietata: la bimba sembra così forte da smentire anche i medici, ma a nove mesi si arrende. Un vuoto devastante: per un attimo Teresio e Edera pensano che non avranno più figli, perché la sofferenza e il distacco li hanno lacerati e la loro piccola casa è diventata enorme, tanto grande è il vuoto, e il dolore non dà pace. La reazione di qualche giorno: solo un bimbo avrebbe potuto cambiare la scena della loro vita. Nasce in una giornata di caldo di quelle in cui sembra di portare, incollate alla pelle, sole e umidità in quella combinazione che solo chi vive tra Tanaro e Bormida conosce e si abitua a sopportare. Nasce a Valle San Bartolomeo, il paese di mamma e papà che, una volta sposati, si trasferiscono in città, perché con poche pedalate Teresio, ferroviere, raggiunge il luogo di lavoro. Appena sente quel segnale sordo e prolungato, che spacca i tempi del giorno e della notte e annuncia un bombardamento, si butta giù dalla locomotiva e si mette a pedalare, a una velocità che potrebbe battere il record dell’ora per raggiungere la sua Edera e, a rotta di collo, divorare i pochi chilometri fino a Valle. Appena sposati, e anche da fidanzati, i ritmi sono quelli di una bella passeggiata, alla scoperta della grande città, con gli aerei nemici carichi di bombe, si divora la strada mandata a memoria, conquistando istanti preziosi per mettersi in salvo. Scappano anche il 18 agosto, Edera è alla fine della gravidanza: il piccolo nasce nella locanda degli Arobba, la famiglia, numerosa, della mamma, l’undicesima dei figli e figlie di Pidrein e Maria Luisa. Nessun neonato può vantare tante ostetriche e badanti, ci sono anche i nonni paterni, Giovanni e Teresa, razza contadina, abituata a faticare nei campi. Edera ha deciso: si chiamerà Gianni, è dal giorno in cui ha scoperto di aspettare il secondo figlio che ha scelto il nome, anche Teresio è d’accordo. Non il solerte funzionario dell’ufficio anagrafe a Valle San Bartolomeo, distaccamento del Comune di Alessandria. Al padre, che insiste, dà la più burocratica delle spiegazioni: non esiste San Gianni e, quindi, il piccolo sarà Giovanni. Così, agli atti, il 18 agosto 1943, a Valle San Bartolomeo nasce Giovanni Rivera, di Teresio e Edera Arobba. Che, come immaginabile, quando il marito glielo comunica, si arrabbia: ha il neonato tra le braccia, tutto fasciato e con il camicino della festa, lo guarda negli occhi e gli dici, figlio mio tu sarai, sempre Gianni, Gianni Rivera
. Che di essere, in realtà, Giovanni, lo scopre solo quando deve fare il primo documento. Per mamma e papà, per la