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Dalla parte di nessuno
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E-book179 pagine2 ore

Dalla parte di nessuno

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Info su questo ebook

La guerra civile infuria quasi da sei anni in Terassia, una minuscola nazione contesa tra l’est e l’ovest del mondo, quando Zeeva Farley arriva a Silvka, una delle principali città del paese. Zeeva è una corrispondente britannica, una giornalista dallo sguardo acuto e dalla mente curiosa. L’attacco su larga scala da parte di una delle fazioni in lotta coglie alla sprovvista lei e il suo operatore, Kostya. Nell’apocalisse dei bombardamenti, vengono tratti in salvo da una milizia di ex-appartenenti alle forze armate, che consente loro anche di documentare la situazione in città. È in questo modo che conoscono Maksym Sewick, il comandante della compagnia di soldati irregolari che sta cercando di proteggere la popolazione civile dagli attacchi dei loro stessi governanti. Il suo lavoro ha insegnato a Zeeva a costruire in fretta rapporti significativi con persone degne di fiducia, e capisce subito che Sewick può essere forse un uomo complicato, ma è una persona degnissima. Quello che non immagina è che conoscerlo cambierà per sempre la sua vita...
Una storia di guerra e di amicizia, di azioni avventate e amore, di coraggio e di follia. E di speranza, una speranza che muove il mondo. 
--
«Ho letto i suoi articoli, signora Farley».
Stava albeggiando e Zeeva non era riuscita a dormire un attimo. Maksym Sewick l’aveva trovata seduta per terra in un angolo, in corridoio, con il laptop aperto sulle cosce.
«Signora Farley sembra il nome di mia nonna. Può chiamarmi Zeeva come tutti».
Il viso di Sewick rivelò un certo disagio, ma finì per annuire, forse decidendo che il livello di informalità con quella sconosciuta non aveva davvero importanza, mentre la città veniva fatta a pezzi da tre diversi eserciti.
«Ho letto i tuoi articoli, Zeeva. Quelli su di noi, ma anche gli altri pezzi che sono comparsi sul giornale per cui scrivi. Sei stata alla tua parola e cerchi di dipingere in modo... equilibrato quello che sta succedendo al mio paese. A volte diventi un po’ melodrammatica, ma... be’».
«Scusi se glielo faccio notare, comandante, ma ci sono dei bombardamenti in corso. Si combatte nelle strade. Ieri notte ho visto l’ospedale di Medici Senza Frontiere bruciare, colpito da un attacco skhidni. Non credo di essere melo-drammatica. La situazione è drammatica, punto. Non trova?».
Sewick la guardò in silenzio per diversi secondi.
Zeeva poteva vedere che era stanco, spossato. Aveva la faccia nera di fuliggine, ma solo sui bordi, come se avesse cercato di ripulirsela con un asciugamano umido o qualcosa del genere. E la sua manica sinistra era scura di sangue ormai rappreso.
«I governativi stanno perdendo terreno. Le loro truppe sul campo sono inadeguate. L’unica cosa che tiene ancora a bada l’avanzata degli insorti sono gli attacchi arei. Attacchi che radono al suolo interi isolati di Silvka in un colpo solo».
«Isolati pieni di persone, lo so. L’ho visto. Stanno bombardando la loro stessa gente».
Sewick annuì. «Come ti dicevo... penso di sapere che tipo sei, Zeeva. Vedi le cose con chiarezza. Vai dritta al punto. In città la situazione non andrà a migliorare».
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2018
ISBN9788829567843
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    Anteprima del libro

    Dalla parte di nessuno - Miss Black

    Premessa

    Avrei potuto ambientare questo libro in Siria. In Libia. In Yemen. In Afghanistan. In Somalia. In Nigeria. In Cecenia. In Ucraina. In Armenia. In Daghestan. In Mozambico. Nella Repubblica Democratica del Congo. In Sudan. In Birmania. Nella Striscia di Gaza. In Colombia. In Tailandia. In questo momento nel mondo sono in corso circa settanta conflitti, avevo solo l’imbarazzo della scelta.

    Ho preferito ambientarlo in un immaginario paese dell’Europa dell’Est, non osando aggiungere il mio sangue fasullo al sangue reale di tanti morti.

    Dicembre 2018, Amanda Blake

    L'umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all'umanità.

    John Fitzgerald Kennedy

    Prologo

    Nadiya guardava il cielo buio sopra Farans’k, la giovane mente divisa tra il fascino e l’apprensione. Le scie dei traccianti sembravano lacrime di fuoco. Il ronzio lontano dei caccia era come il rumore di un gigantesco sciame di vespe. Le esplosioni la lasciavano sempre nell’incertezza, quando era notte: erano bombe, o c’era un temporale in arrivo?

    Nadiya aveva quattro anni. Sua madre passava metà del tempo ad acchiapparla, visto che le piaceva girellare tra le macerie come fossero un parco giochi. La rimbrottava e Nadiya prometteva che non si sarebbe più allontanata, ma poi lo rifaceva senza pensarci. Una volta la mamma si era arrabbiata così tanto che le aveva dato uno sculaccione forte, l’aveva strattonata per un braccio e l’aveva quasi trascinata in cantina. Era caduto un razzo e la polvere era finita nel naso di Nadiya, facendola starnutire. Le erano venuti a bruciare gli occhi.

    La mamma aveva detto ben ti sta, forse così capirai che là fuori è pericoloso.

    Nadiya avrebbe voluto risponderle che lo sapeva. Lo sapeva, davvero. Non era così piccola, aveva capito.

    Ma la cantina era noiosa.

    Era immersa in una luce fioca, gialla e piena di ombre. Colorare il suo libro era difficilissimo, in quelle condizioni.

    Quando glielo aveva detto, papà aveva ascoltato le sue rimostranze con attenzione. Aveva promesso di portarle una lampada da minatore, appena ne trovava una. Nadiya non sapeva che cosa fosse una lampada da minatore, ma sperava che papà gliela portasse presto.

    Lui e la mamma durante il giorno potevano uscire – non come lei – dato che erano Adulti. Gli Adulti non stavano sempre in cantina. Mamma e papà portavano cose interessanti e, a volte, da mangiare. Erano quasi sempre scatolette e a Nadiya un tempo non piacevano, ma ultimamente aveva capito che non erano male.

    Ma quella sera avevano delle vere verdure.

    Mentre la mamma le tagliava, Nadiya era sgattaiolata fuori, avvolta in tre strati di maglioni. Nel cielo c’erano quelle lacrime di fuoco e in lontananza si sentivano dei tuoni. Non era facile capire dove fossero, ma erano lontani, oltre quei tetti là.

    Papà doveva ancora tornare e Nadiya sperava che stavolta le avrebbe portato una lampada da minatore.

    «Sei qua!»

    La voce di sua madre la distrasse dallo spettacolo del cielo in fiamme. La notte diventava rossa, certe volte.

    Alzò il viso verso di lei, rassegnata a ricevere una bella sgridata.

    Ma la mamma si limitò a prenderla per un braccio, borbottando: «Non lo so che cos’hai nel cervello, a startene qua mentre bombardano a pochi isolati di distanza».

    La portò di nuovo verso casa loro. Il primo piano non c’era più e il piano terra era pieno di polvere e calcinacci. Nadiya non ricordava se avevano sempre abitato lì, ma non credeva. Le sembrava di aver avuto un giardino, un tempo.

    La mamma la indirizzò verso le scale buie per la cantina. Erano quasi in fondo quando un tuono risuonò proprio sopra la loro testa.

    1.

    Cinque anni più tardi

    Zeeva Farley arrivò a Silvka con un convoglio di Medici Senza Frontiere. La situazione stava precipitando, nella parte ovest della città. Insorti e governativi avevano scaramucce giornaliere. Cosa più inquietante, i confini ovest erano presidiati dall’esercito irregolare e allontanarsi da Silvka iniziava a essere complicato, almeno da quella parte.

    Zeeva aveva un ricordo vago delle sue vie, un ricordo che risaliva a quasi dieci anni prima, quando la Terassia era ancora in pace e lei era una giornalista alle prime armi. Era atterrata all’aeroporto Dovrodov ed era andata in taxi fino al palasport dove si teneva la premiazione di un qualche concorso di bellezza internazionale. All’epoca, Zeeva non aveva quasi fatto caso agli ampi viali alberati, ai palazzi ottocenteschi di pietra grigia, al traffico caotico. Era una grande città come un’altra, la seconda dopo la capitale per numero di abitanti. Quanti erano, a quei tempi? Qualche milione. Tre o quattro, non di più.

    Ora la popolazione era ridotta a meno di due milioni, attorno all’aeroporto si combatteva da mesi ed era meglio tenersi alla larga dai grandi viali e passare dalle strette vie del centro storico.

    Quando Zeeva era stata lì la prima volta, Silvka era una qualsiasi città di un paese da poco uscito dalla Cortina di Ferro. In periferia svettavano i palazzoni immensi e grigi tipici del Blocco Est, il centro era un curioso mix di oriente e occidente che formava un dedalo di stradine di pietra. Zeeva non aveva avuto tempo di visitarlo. Aveva solo attraversato la città in taxi, aveva assistito alla premiazione, era andata in albergo – un posto pulcioso – per scrivere il suo pezzo e il giorno dopo era ripartita.

    Ricordava solo che il clima era freddo. Bella forza, da quelle parti era freddo il cinquanta percento dell’anno. Il restante cinquanta si divideva tra un quaranta freddissimo e un dieci torrido. Sì, il tempo faceva schifo, in Terassia. Aveva sempre fatto schifo.

    Ora faceva schifo anche tutto il resto.

    +++

    Scese dal camion e ringraziò il responsabile della spedizione. Si mise in spalla il suo zaino e si guardò attorno. Erano nel piazzale dell’ospedale, al momento gestito quasi solo grazie a Medici Senza Frontiere. Degli ambulanti vendevano la propria merce sotto i portici di cemento, macchine e furgoni arrivavano e ripartivano senza sosta. Era freddo. Era sempre freddo, da quelle parti. Il cielo era grigio e non sembrava l’inizio dell’autunno, ma inverno.

    Zeeva si tirò su il bavero del giaccone.

    Una macchinina di un brutto color bianco sporco diede un paio di colpi di clacson, accostandosi. Zeeva si chinò sul finestrino del passeggero. Il guidatore si allungò per aprirlo a mano.

    «Zeeva Farley?» disse, in un inglese un po’ gutturale. «Kostyantyn Masol, puoi chiamarmi Kostya. Sono venuto a prenderti».

    Le mostrò il suo tesserino della Associated Press, premendolo contro il vetro impolverato.

    Zeeva aprì la portiera e salì in macchina. Buttò il suo zaino sul sedile posteriore.

    «Grazie».

    Nell’abitacolo c’era odore di sigaretta e l’aria era fredda quasi come all’esterno. Zeeva ne dedusse che l’albergo dove alloggiavano entrambi era vicino.

    «Sei il mio operatore, quindi? O sei solo quello che è venuto a prendermi?».

    «Il tuo operatore e traduttore».

    «Mi servirà più la seconda cosa della prima».

    Lui annuì. «Mi hanno parlato del progetto. Ti scoccia se fumo?».

    «No».

    Mentre la macchina avanzava sul selciato sconnesso e Kostya si accendeva una sigaretta usando una mano sola, Zeeva si prese qualche istante per esaminarlo.

    Da quello che aveva visto fino a quel momento, in Terassia c’erano due tipi fisici, corrispondenti in linea di massima a due diverse etnie. C’era un tipo di terassiano alto, chiaro di pelle, con le ossa grandi e gli occhi piccoli, slavati. Poi c’era l’altro tipo, quello più minuto e scuro, con gli occhi liquidi e le labbra. Questo perché il primo tipo, quello slavo, di solito le labbra non le aveva quasi. Il tipo olivastro aveva labbra morbide e denti bianchi, anche se quest’ultima cosa non era assicurata.

    Kostya era del tipo olivastro, sulla trentina, magro, ossuto, con i peli della barba neri e irti, il naso a becco e delle lunghe, lunghe ciglia di velluto.

    La macchina entrò in un cortile e poco dopo si fermò.

    «Qua è dove stanno quasi tutti i giornalisti stranieri» spiegò Kostya, indicando la facciata verdastra con la sigaretta.

    «E anche tu, no?».

    Lui le rivolse un sorriso storto. «Sissignora. In una quadrupla. L’appartamento dov’ero prima non è più sicuro».

    Buttò la sigaretta fuori dal finestrino, per poi richiuderlo subito. Zeeva era sicura di avere già gli abiti e i capelli che puzzavano di fumo, ma non potevi iniziare una collaborazione con qualcuno rompendogli le palle.

    Uscirono dalla macchina e Kostya prese il suo zaino.

    «Tu hai una singola, comunque. In fondo sei la star».

    «Mh-mh. Non c’era una suite, eh?».

    Kostya ridacchiò e le aprì cerimoniosamente la porta dell’hotel.

    Era un brutto edificio degli anni ’60. La facciata verdina non era neppure la parte peggiore. All’interno, una stretta hall con un bancone su un lato, moquette consumata a terra e un ascensore dall’aspetto vetusto accanto alle scale.

    Aspettò che il portiere registrasse i suoi documenti. Se c’era una cosa che aveva imparato negli ultimi dieci anni era questa: mai perdere di vista il tuo passaporto in un paese straniero, per quanto evoluto ti sembri.

    La Terassia, per di più, non era evoluta. Era in guerra. Lasciare il proprio passaporto in mani sconosciute sarebbe stata una pessima idea.

    Il portiere ci mise un’infinità, forse perché non era a suo agio con i caratteri occidentali dei documenti. In compenso Zeeva non era a suo agio con il cirillico terassiano che usavano lì. Era una versione particolare del cirillico, con diversi caratteri propri solo alla nazione in cui erano. Anche soltanto capire che cosa c’era scritto sui cartelli stradali per lei non era facile.

    Alla fine salirono sull’ascensore piccolo e cigolante.

    «La sistemazione non è un granché, ma è nella zona più sicura della città» disse Kostya.

    «Devi spiegarmi com’è la situazione» replicò lei. «Sul campo».

    Kostya annuì.

    La accompagnò fino a una camera singola. Singola e piccola, ma non c’era motivo di lamentarsi. Aveva persino il bagno. Kostya restò sulla porta.

    «Vuoi fare una doccia, prima? L’acqua calda va e viene».

    Zeeva si strinse nelle spalle. «Più tardi. C’è un motivo specifico per cui non stai entrando? Buone maniere, religione, discrezione?».

    Il suo operatore sorrise e si decise a seguirla all’interno. «Buone maniere. Quindi... che cosa sai di Silvka?».

    Lei si sedette sul letto.

    «Seconda città del paese. La zona ovest in questo momento è contesa tra filo-orientali e filo-occidentali, mentre la fascia esterna è occupata dall’esercito irregolare, che blocca chiunque cerchi di abbandonare Silvka verso ovest. Questo mette i filo-orientali in una bruttissima situazione, perché la maggior parte degli altri quartieri sono ancora formalmente in mano al governo, e dunque filo-occidentali».

    «A grandi linee. Ma mi dicono che filtrare via, per loro, non sia del tutto impossibile, dato che molti ex-miliari hanno prestato servizio sotto il vecchio regime e sono più vicini agli skhidni che ai zakhidni, quindi...»

    «Ho capito. Secondo alcuni osservatori internazionali il conflitto, a Silvka, si esaurirà quando l’ultimo nucleo filo-orientale sarà stato sconfitto o i suoi membri saranno fuggiti».

    Kostya fece un’espressione scettica.

    «La vedo difficile».

    «Anch’io» concordò Zeeva «ma dimmi se mi sono fatta un’idea abbastanza chiara della situazione. Silvka è a est. Qua attorno...»

    «Esatto!» interruppe lui. «Qua attorno sono tutti filo-orientali. Non perché gli piacesse il vecchio regime, ma perché i loro nonni sono venuti dalla steppa e loro non sono pronti a comprendere gli usi occidentali. In città ci sono un sacco di terassiani dell’ovest, tutte le posizioni pubbliche sono in mano a gente dell’ovest. Tecnicamente la città è in mano al governo, ma la maggior parte dei cittadini è insofferente e pensa: tra i due mali, meglio quello conosciuto».

    «Ho capito. E l’esercito irregolare, i cosiddetti veterany...»

    Kostya scosse la testa. «Non lo so. Anche per noi è difficile da capire. Per di più io non sono di qua, okay? Sono della capitale».

    Zeeva stava per replicare, ma da fuori si sentì come... un tuono. Un tuono lontano, foriero di tempesta.

    Solo che non era un tuono.

    «A volte il rumore degli ordigni più potenti si sente fin da qua» confermò Kostya, senza bisogno che lei chiedesse.

    Che lo volesse o meno, Zeeva rabbrividì.

    +++

    Dal fronte: Anche oggi qualcuno muore di guerra, a Silvka

    Di Zeeva Farley

    Sono

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