La bugiarda
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Anteprima del libro
La bugiarda - Hannelore Cayre
Colophon Titolo originale
Titolo originale
La daronne
© Editions Métailié, 2017
© Edizioni le Assassine, 2020
Tutti i diritti riservati
Traduzione dal francese di Tiziana Prina
Progetto grafico copertina e interni: studioquasar
Copertina: elaborazione da foto Adobe Stock
ISBN della versione e-book 978-88-94979-27-5
www.edizionileassassine.it
info@edizionileassassine.it
Hannelore Cayre
La bugiarda
Traduzione di Tiziana Prina
Edizioni le Assassine
Milano
Ai miei figli
1
Il denaro è tutto
I miei genitori erano evasori che amavano visceralmente il denaro, non come qualcosa di inerte che si nasconde in una cassaforte o che si tiene su un conto. No. Lo consideravano come un essere vivente e intelligente che può creare e distruggere, dotato della facoltà di riprodursi. Qualcosa di formidabile che forgia i destini, che distingue il bello dal brutto, il perdente da chi ce l’ha fatta. Il denaro è tutto : il condensato di tutto quello che si acquista in un mondo dove ogni cosa è in vendita. È la risposta a ogni domanda, la lingua che ancor prima della Torre di Babele unisce l’umanità.
Va detto che avevano perso tutto, incluso il loro Paese natale: non restava più niente della Tunisia francese di mio padre, niente della Vienna ebrea di mia madre. Nessuno con cui parlare il pataouète¹ o l’yiddish. Nemmeno con dei morti al cimitero. Niente. Cancellati dalle carte geografiche come Atlantide. Avevano così unito le loro solitudini per andare a radicarsi in uno spazio che si inseriva tra un’autostrada e una foresta, costruendo la casa in cui sono nata e che era stata pomposamente chiamata La Proprietà. Un nome che conferiva a questo estremo lembo di terra sinistro il carattere inviolabile e sacro del Diritto: una riassicurazione dettata dalla Costituzione per cui nessuno li avrebbe più sbattuti fuori da là. La loro Israele, per intenderci.
I miei genitori erano degli stranieri, dei loschi figuri di origine esotica. Raus. Rimasti nudi con solo una foglia di fico per coprirsi. Come tutti quelli simili a loro, non avevano avuto molta scelta. Buttarsi sui soldi, non importa da dove venissero, accettare una qualsiasi condizione di lavoro o giocare sporco fino all’eccesso, appoggiandosi a una comunità di gente come loro: non ci avevano pensato a lungo.
Mio padre era direttore generale di un’impresa di trasporti, la Mondiale, il cui motto era Tutto, ovunque. Direttore generale, un termine ormai obsoleto che serviva a rispondere alla domanda: Che fa tuo padre di lavoro? È direttore generale, ma negli anni Settanta si diceva così. Si accordava a meraviglia con l’anatra all’arancia e i dolcevita gialli di fibra sintetica sulle gonne pantalone.
Aveva fatto fortuna mandando i suoi camion nei Paesi definiti canaglia, il cui nome finiva in −an: Pakistan, Uzbekistan, Azerbaijan, Iran eccetera. Per candidarsi alla Mondiale come autista, bisognava essere usciti di prigione perché, secondo mio padre, solo un tipo che era stato in carcere almeno quindici anni poteva accettare di essere rinchiuso nella cabina di un camion per migliaia di chilometri e di difendere il suo carico come se ne andasse della sua vita.
Mi vedo ancora come se fosse ieri nel mio vestitino di velluto blu con le mie scarpe di vernice sotto l’albero di Natale, attorniata da tipi sfregiati che tenevano nelle loro manone di strangolatori dei graziosi pacchetti colorati. Il personale amministrativo della Mondiale era dello stesso tipo: era composto esclusivamente di compatrioti di mio padre, di francesi d’Algeria come lui, uomini tanto disonesti quanto orrendi. Solo Jacqueline, la sua segretaria personale, migliorava il quadro. Con il suo gran chignon a torre, in cui era inserito con civetteria un diadema, quella figlia di un condannato a morte durante l’Epurazione² aveva una certa classe che le veniva dalla sua gioventù trascorsa a Vichy.
Quella allegra brigata infrequentabile su cui mio padre esercitava un paternalismo romantico gli permetteva di trasportare con estrema opacità dei carichi detti addizionali sui suoi camion. E così il trasporto di morfina base in collaborazione con i suoi amici corsi, anche loro espatriati dalla Tunisia, e poi di armi e di munizioni, avevano fatto la fortuna della Mondiale e dei suoi dipendenti generosamente pagati fino agli inizi degli anni Ottanta. Pakistan, Iran, Afghanistan, non mi vergogno a dirlo, mio padre era il Marco Polo dei Trente Glorieuses, dei trenta gloriosi anni del dopoguerra, in quanto aveva riaperto le vie commerciali tra l’Europa e il Medio Oriente.
Ogni critica all’insediamento de La Proprietà era vissuta dai miei genitori come un segno di aggressione, tanto che non si parlava mai tra noi anche del minimo aspetto negativo del posto: dal rumore assordante dell’autostrada che ci obbligava a gridare per farci sentire, alla polvere nera e appiccicosa che si insinuava ovunque, alle vibrazioni che minavano la casa o alla pericolosità estrema di quelle sei corsie dove un atto semplice, come rientrare a casa senza farsi investire, aveva del prodigioso.
Mia madre rallentava trecento metri prima del cancello in modo da imboccare il viale in prima, le frecce accese sotto una scarica di clacson. Mio padre, le rare volte in cui c’era, praticava con la sua Porsche una specie di terrorismo con il freno a mano, facendo urlare il suo motore V8 quando nel giro di qualche metro scendeva da duecento a dieci chilometri l’ora e costringeva chi aveva la sfortuna di seguirlo a delle sterzate terrificanti. Quanto a me, non avevo mai ovviamente la minima visita: quando qualche compagna di scuola mi chiedeva dove abitavo, mentivo sul mio indirizzo. E comunque nessuno mi avrebbe creduto.
La mia immaginazione di bambina aveva fatto di noi delle persone speciali: il Popolo della strada.
Cinque diversi fatti spalmati su trent’anni non hanno che confermato questa particolarità: nel 1978, al numero 27, un ragazzino di tredici anni massacrò con un utensile da giardino i genitori e i suoi quattro fratelli durante il sonno. Quando gli fu chiesto perché, lui rispose che gli serviva un diversivo. Al 47 negli anni Ottanta ebbe luogo una storia particolarmente sordida di sequestro di un vecchio torturato dalla sua famiglia. Dieci anni più tardi, al numero 12, si stabilì un’agenzia matrimoniale che in realtà era una rete di prostituzione di ragazze provenienti dall’Europa dell’Est. Al numero 18 ritrovarono una coppia mummificata. E al numero 5, più di recente, un deposito di armi jihadiste. Tutto questo è stato riportato sui giornali e io non ho inventato niente.
Perché tutta quella gente aveva scelto di vivere lì?
Per una parte di loro, tra cui i miei genitori, la risposta era semplice: perché il denaro amava l’ombra e c’era ombra da vendere ai bordi di un’autostrada. Per quanto riguardava gli altri, era l’autostrada che li aveva fatti andare fuori di testa.
Un popolo di gente a parte, dunque, perché a tavola, quando si sentiva una sgommata, restavamo in silenzio, la forchetta a mezz’aria. Seguivano un rumore straordinario di ferraglia e poi una calma pesante, una sorta di silenzio funebre che si abbatteva sugli automobilisti che costeggiavano rallentando quel groviglio di carni e carrozzerie che erano diventati quelli che come loro erano diretti da qualche parte.
Quando questo accadeva davanti a casa nostra, verso il numero 54, mia madre chiamava i pompieri, poi noi smettevamo di mangiare per andare a vedere l’incidente, come diceva lei. Tiravamo fuori le sedie pieghevoli e ci incontravamo con i vicini. Questo succedeva di solito nel weekend all’altezza del numero 60, dove si era insediato il locale notturno più popolare della regione con i suoi sette diversi ambienti e che era diventato sinonimo di incidenti spettacolari.
È incredibile il numero di individui ubriachi che si stipano in un’auto per morirci, trascinando con sé allegre famiglie lanciate sulla strada delle vacanze in piena notte per potersi svegliare in riva al mare.
Così il popolo della strada ha assistito da molto vicino a un numero considerevole di drammi in cui erano coinvolti giovani, vecchi, cani, brandelli di cervello e di budella, e ciò che mi ha sempre sorpreso è di non aver mai inteso il minimo grido da parte di tutte quelle vittime. A malapena un oh, mio Dio pronunciato a voce bassa da chi riusciva ad arrivare fino a noi barcollando.
Durante l’anno i miei genitori si nascondevano come topi tra le loro quattro mura, dedicandosi a calcoli macchinosi e innovativi di ottimizzazione fiscale, cercando di evitare nel loro modo di vivere il minimo segno esteriore di ricchezza, ingannando in tal modo la Bestia, attratta da prede ben più grasse.
Ma in vacanza, una volta usciti dal territorio francese, vivevamo come miliardari negli hotel svizzeri o italiani a Bürgenstock, Zermatt o Ascona, accanto alle star americane del cinema.
I nostri Natali li passavamo al Winter Palace di Luxor o al Danieli di Venezia e mia madre rifioriva.
Dal momento dell’arrivo passava in rassegna le boutique di lusso per acquistare vestiti, gioielli e profumi, mentre mio padre faceva la sua messe con buste molto consistenti di contanti. La sera portava davanti all’ingresso dell’hotel la Thunderbird decapottabile bianca che seguiva, non so come, le nostre peregrinazioni offshore. La stessa cosa per il Riva che compariva come per magia sulle acque del lago dei Quattro Cantoni o su quelle del Canal Grande a Venezia.
Mi sono rimaste molte foto di quelle vacanze alla Fitzgerald, ma trovo che due in particolare valgano per tutte.
La prima rappresenta mia madre con un vestito a fiori rosa che posa vicino a una palma che si staglia verde contro un cielo d’estate. Tiene la mano sopra gli occhi, già malati, in modo da proteggerli dalla luce del sole.
L’altra è una mia foto accanto a Audrey Hepburn. È stata fatta il primo di agosto, giorno della festa nazionale svizzera, al Belvédère. Io sto mangiando un’enorme coppa di fragola melba affogata nella panna e nello sciroppo. Mentre i miei genitori sono sulla pista da ballo e danzano sulle note di una canzone di Shirley Bassey, dei magnifici fuochi d’artificio si riflettono sul Lago dei Quattro Cantoni. Sono abbronzata e indosso un abito Liberty a punto smock blu che mette in risalto i miei occhi blu, il blu-Patience, come mio padre li aveva chiamati.
È un momento perfetto e io sono carica di benessere come una pila atomica.
L’attrice dovette sentire quella felicità immensa perché si mise a sedere accanto a me per chiedermi che cosa avrei voluto fare da grande.
Collezionista di fuochi d’artificio.
Collezionista di fuochi d’artificio! Ma come puoi collezionare una cosa simile?
Nella mia testa. Viaggerò per il mondo per vederli tutti.
Tu sei la prima collezionista del genere che incontro! Piacere di conoscerti!
A quel punto chiamò i suoi amici per fare una foto e immortalare quel momento insolito.
Ne ha fatte fare due: una per me e una per lei. Ho perso e persino dimenticato la mia, ma ho rivisto la sua per caso in un catalogo di vendite all’asta e riportava come descrizione: La piccola collezionista di fuochi d’artificio, 1972.
Quella foto aveva catturato quello che la mia vita prometteva d’essere: una vita con un futuro molto più luminoso del tempo che è trascorso da quel primo agosto.
Dopo aver percorso la Svizzera in lungo e in largo durante le vacanze per acquistare un tailleur o una borsa, alla vigilia della partenza, mia madre tagliava tutte le etichette dei vestiti nuovi che aveva accumulato e travasava il contenuto dei flaconi di profumo in bottiglie di shampoo nel caso in cui l’inquisizione doganale ci chiedesse con quali soldi avevamo acquistato tutti quei beni.
E perché mi hanno chiamato Patience, pazienza?
Ma perché sei nata dopo dieci mesi. Tuo padre ci ha sempre detto che era la neve che gli aveva impedito di prendere l’auto dal garage per venire a vederti dopo il parto, ma in verità era che dopo un’attesa così lunga, era arci deluso di avere avuto una femmina. E tu eri enorme… cinque chili.. un mostro… di una bruttezza… con metà della faccia schiacciata dal forcipe. Quando alla fine riuscirono a estirparti dal mio corpo, c’era tanto sangue intorno a me che sembravo saltata su una mina. Una vera macelleria! E tutto questo perché? Per una femmina? Era veramente ingiusto.
Ho cinquantatré anni. I miei capelli sono lunghi e completamente bianchi. Mi sono imbiancata molto giovane, proprio come era successo a mio padre. Li ho tinti per parecchio tempo perché mi vergognavo, poi un giorno ne ho avuto abbastanza di controllare le radici e mi sono rasata la testa per lasciare la ricrescita. Pare che oggi vada di moda, in ogni caso stanno bene con i miei occhi blu e stonano sempre meno con le rughe.
Quando parlo ho la bocca leggermente storta, il che rende la parte destra del mio viso un po’ meno rugosa della sinistra. La colpa è di una leggera emiplegia dovuta allo schiacciamento iniziale alla nascita. Ciò mi dà un’aria da parigina autentica che aggiunta alla mia strana capigliatura mi rende piuttosto interessante. Ho un fisico robusto con cinque chili di troppo per averne presi trenta a ognuna delle mie due gravidanze, in quanto avevo dato libero sfogo alla mia passione per i dolci belli grossi e colorati, la pasta