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Ossa dimenticate: L’avvocato Canova indaga a Torino
Ossa dimenticate: L’avvocato Canova indaga a Torino
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E-book282 pagine4 ore

Ossa dimenticate: L’avvocato Canova indaga a Torino

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Info su questo ebook

L’avvocato Alessandro Canova, mollato dalla fidanzata e rimasto senza lavoro, vive con apatia e tristezza il momento di crisi. La sua noiosa esistenza è ravvivata quando un amico rende una confessione inquietante in punto di morte: anni prima, ha seppellito il cadavere di una ragazzina in una proprietà agricola. Con pochi appigli concreti, Alessandro inizia a scavare tra le ragnatele del tempo, alla ricerca di una verità sfuggente, sullo sfondo di una Torino notturna equivoca e volgare. Tra discoteche, playboy e strani personaggi, scoprirà che le apparenze ingannano e che gli indizi possono essere interpretati in modi diversi, fino ad innescare una catena di avvenimenti drammatici e colpi di scena.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2014
ISBN9788869430121
Ossa dimenticate: L’avvocato Canova indaga a Torino

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    Anteprima del libro

    Ossa dimenticate - Andrea Tamietti

    I

    Martedì 3 maggio 2011

    – Lei è un parente? Il fratello? – chiese, annoiato, il carabiniere che stazionava sulla porta della camera, impedendo la vista del corpo steso sul letto.

    – No, un semplice conoscente, – rispose Alessandro Canova alzandosi dal divano dell’ingresso e avvicinandosi all’interlocutore. Che però lo fermò sollevando il palmo della mano.

    – Allora qui non può stare, tra poco arriva il medico per constatare il decesso, poi dovremo portarlo via. Solo i famigliari, in questi casi, sono spiacente.

    Alessandro stava per opporre una pacata protesta, che sapeva comunque inutile, quando la sua attenzione fu attratta da una donna sulla quarantina, pesantemente truccata e avviluppata in una giacca lunga beige, con tutta probabilità di una qualche griffe famosa, che stava varcando la porta dell’ingresso.

    La ex moglie, pensò, anzi, la vedova.

    Fu colpito prima dall’eccesso di profumo che si spandeva nell’aria, poi dalla voce acuta della signora, che si lamentava della confusione, chiedeva spiegazioni, minacciava querele. A Gianni erano sempre piaciute così: vistosamente volgari, con seno e posteriore rinforzati e una spiccata tendenza all’isteria.

    Il carabiniere di guardia non si lasciò impressionare, si limitò a confermare che sì, c’era un morto, ma che, per il momento, nella camera non poteva entrare nessuno. Se voleva, poteva aspettare nelle altre stanze. La signora non gradì e continuò a inveire nel suo tono sopra le righe, non era chiaro se dovuto alla tragedia appena consumatasi o al fatto di sentirsi esclusa dallo spettacolo.

    Si ritirò, seccata, e finì per trovarsi faccia a faccia con Alessandro, cui nessuno aveva più fatto caso. Lo squadrò da capo a piedi con aria diffidente, soffermandosi sugli zigomi spigolosi, sugli occhi cerulei e assenti, sui ciuffi ribelli di capelli castani che si sollevavano come onde in un mare in tempesta.

    – Anche lei è della polizia?

    Lui alzò le spalle, timido, quasi a scusarsi di non avere funzioni ufficiali.

    – No, sono solo un amico, mi trovavo a passare di qui, quando è successo.

    La donna si bloccò. Il viso si contrasse in una smorfia che fece tremare strati di fondotinta e inarcare il naso aquilino tra rughe profonde come canali, probabili segni di una sovraesposizione solare.

    – Vuole dire, uno di quegli amici che Gianni...

    Alessandro annuì, grave, a conferma dell’orrendo sospetto. Gli occhi della sua interlocutrice, di un marrone giallognolo, si fecero più piccoli e stretti. L’odore della morte, indefinibile ma onnipresente, li sovrastava. Ci fu un silenzio che durò qualche secondo. Poi la donna cambiò atteggiamento. Probabilmente, si disse Alessandro, anche lei aveva capito che attaccandolo non avrebbe ottenuto nulla. Fece un gesto brusco con la mano come per dire: lasciamo stare, si ricompose e sospirò.

    – Allora, se in un modo o nell’altro eravate amici, mi potrà spiegare cosa è accaduto. Mi pare di impazzire. Mi chiamano in ufficio, i carabinieri!, per dirmi che c’è stato un incidente. Io non sapevo più cosa pensare. Poi arrivo qui e non lasciano neanche che lo veda. Lei sa qualcosa, c’è la polizia, è stato un omicidio? Ma chi poteva voler uccidere Gianni?

    – In un certo senso, è stato un omicidio, – rispose Alessandro con un sorriso amaro, mentre indicava un punto dietro di loro. – Se si sporge un poco, vedrà che nella stanza alle nostre spalle, nell’angolo opposto all’ingresso, c’è una signorina. Ventidue anni, la osservi bene.

    La vedova gli rivolse uno sguardo incredulo, poi, lentamente e quasi con discrezione, spiò nella direzione che le era stata indicata.

    Effettivamente c’era una donna giovanissima e appariscente, i capelli di un biondo quasi albino, vestita in maniera succinta, che stava appoggiata al muro e fumava una sigaretta, l’aria persa e – probabilmente – una gran voglia di tornarsene a casa. Per lei, la marchetta si era rivelata più complicata del previsto.

    Alessandro avvicinò le labbra all’orecchio della vedova.

    – Vede, signora, io ho quasi dieci anni in meno del suo defunto marito, ma se avessi passato la giornata a letto con quella, forse l’infarto sarebbe venuto anche a me.

    Fece un cenno di saluto, che sarebbe parso educato se non fosse stato ironico, e si avviò verso la porta. In ogni caso, non gli era stato già detto che doveva andarsene?

    II

    Alessandro scese le scale e, uscito dal portone, si ritrovò nel traffico umano di via Cernaia e, dopo aver attraversato piazza Castello, in quello di via Po. Il centro si stava riempiendo di studenti usciti dalle scuole, di rappresentanti della media borghesia in giro per compere e del solito stuolo di nullafacenti che, in barba ai proclami di produttivismo e meritocrazia, prospera in ogni società. Quel trambusto, che di solito lo irritava, gli diede un vago senso di sollievo. In fondo, rappresentava la normalità dell’esistenza, che gli avvenimenti del giorno avevano intaccato.

    Camminò come un automa sotto i portici, guardando distrattamente le vetrine e i personaggi più folcloristici, attraversò piazza Vittorio e si diresse verso la discesa che portava al fiume. Aveva bisogno di riflettere, e aveva sempre considerato che non vi fosse luogo migliore per farlo del corso urbano del Po.

    Quando era adolescente passava spesso dai Murazzi. All’epoca non erano niente di più che un marciapiede di pietra dura a lato del quale si ergeva un muro imponente in cui si aprivano enormi volte che nascondevano depositi di barche, per lo più abbandonati e insalubri. Gli era capitato di fermarsi accanto ai lucchetti chiusi, osservando da dietro le sbarre gli ambienti umidi e scuri, ingombri di oggetti destinati a una lenta rovina. Si raccontava che di notte fossero ritrovo di ubriachi, prostitute e satanisti. Immaginare i riti macabri consumati nella penombra gli dava un brivido. Gli facevano pensare a una religiosità superstiziosa, violenta e segreta, a un paganesimo moderno che scoperte scientifiche e razionalismo non erano riusciti a estirpare dall’animo umano.

    Ora i magazzini in disuso erano stati bonificati, sostituiti da locali alla moda, bar e ristoranti stile underground che solleticavano il gusto noir di giovani annoiati. Nelle notti d’estate diventavano una specie di casbah allietata da banchetti e griglie sulle quali cuoceva carne bruciata nell’incessante movimento di una marea umana, intenta a scrutarsi, a spingersi, a cercare. All’ingresso dei locali, per terra, venivano poste candele accese, e buttafuori nerboruti selezionavano l’ingresso, tentando di precluderlo a tossici e immigrati. Alle volte la selezione provocava liti, che raramente si trasformavano in risse. All’immancabile arrivo della polizia, nugoli di spacciatori extracomunitari si disperdevano come sciami di api. L’anonimato e la calma erano l’anima del commercio.

    Nel bel mezzo del pomeriggio, i Murazzi erano ancora semideserti. Sulle panchine sedevano pochi giovani, intenti a leggere, a baciarsi, a confezionare spinelli. I locali si preparavano per la serata: un furgoncino carico di bottiglie aveva il portellone aperto, un tizio trascinava un enorme sacco di plastica. L’aria era densa, pesante; le nuvole annunciavano pioggia. Alessandro si accostò al fiume, la cui acqua verdognola scorreva lenta e indifferente alle miserie umane.

    Non gli andava di stare seduto, così finì per appoggiarsi all’argine. Di lì poteva osservare il ponte della Gran Madre, il monte dei Cappuccini e le barche dei canottieri che transitavano tra scrosci d’acqua e sbattere di remi. Quasi automaticamente estrasse il pacchetto dalla tasca e si portò una sigaretta alla bocca. Mentre l’accendeva pensò, come sempre, ai tempi in cui viveva tra diete e allenamenti, attento ad evitare ogni vizio, ogni abitudine malsana. In fondo, aveva continuato a farlo anche dopo aver smesso con l’agonismo, anche dopo aver cominciato a lavorare. Solo da poco si era lasciato andare per davvero. Da quando Carla l’aveva mollato.

    Era sempre stato un uomo riflessivo e calcolatore. Non gli piacevano gli eccessi perché sapeva che non gli si addicevano. Era abituato, in ogni situazione, a valutare i vantaggi e gli svantaggi di ogni mossa, alla luce di quello che era ragionevolmente fattibile, e a non prendere decisioni affrettate. Nello sport, come nel lavoro, come con le donne. Le preferiva docili e posate, non era mai corso dietro alle bambole piene di manie e di pretese. Portavano più problemi che soddisfazioni, pensava, e per qualche strano motivo il suo ego non gioiva nel farsi vedere in giro a fianco di una stangona bionda dal seno generoso, cosa che sembrava invece inorgoglire la quasi totalità dei suoi amici.

    Con Carla aveva messo da parte tutti i suoi saggi principi di vita, si era lasciato trasportare come un bambino. Sapeva che lo avrebbe fatto soffrire e, invece di fuggire, ci era cascato come un idiota. L’aveva conosciuta a una cena di avvocati, lei gli aveva fatto gli occhi dolci, né più né meno di come faceva con quasi tutti, e tornando a casa si era sentito felice come un pavone arrapato. Ne erano seguite altre di cene, poi i week-end a Montecarlo, le spese folli, le richieste di lei sempre più pressanti (le mie amiche girano tutte in Ferrari), camuffate da domande innocenti di bambina viziata, ma in realtà precise minacce di andare a trovare altrove quello che lui non poteva darle. Per quanto Alessandro non avesse, in realtà e nella misura del possibile, mai rifiutato di soddisfare le sue pretese, lei aveva cominciato ad allontanarsi comunque. Qualche telefonata senza risposta, poi assenze sporadiche ma misteriose, infine l’impressione che quando si vedevano niente fosse più particolarmente speciale e divertente. Si era semplicemente stufata e si era messa alla ricerca di altri intrattenitori, e senza neanche nasconderlo troppo. Si sarebbe potuto dire che era la fine naturale delle cose, e che Alessandro poteva da un lato accontentarsi di quello che aveva vissuto, incomparabile a ogni altra precedente relazione, dall’altro tirare un sospiro di sollievo per le sue finanze agonizzanti. E invece era andato fuori giri. Tanto, troppo fuori.

    La vibrazione del cellulare nella tasca dei pantaloni lo distrasse dai suoi pensieri. Per un attimo sperò che fosse Carla che, dopo sette mesi passati ad ignorare le sue chiamate e i suoi messaggi, aveva chissà perché deciso di dirgli che si era sbagliata e che era lui l’uomo della sua vita. Brutto segno. Segno che non ne era ancora uscito e che era ben lontano dall’uscirne. Leggendo il numero sullo schermo si accorse che, benché non proveniente da Carla, si trattava di una telefonata che aspettava da giorni. Ebbe l’impulso di non rispondere, poi si disse che era meglio affrontare la realtà.

    – Alessandro, ciao, sono Giorgio.

    – L’avevo capito.

    – Vuoi sapere prima le buone o le brutte notizie?

    – Le buone.

    – Ti hanno tolto le aggravanti e i delitti di falso.

    – Magnifico. E le brutte?

    – L’infedele patrocinio, quello te lo becchi, non si scappa. Ma non sono stati severi.

    – Sarebbe a dire?

    – Una sospensione di diciotto mesi.

    – Cazzo!

    – Eh su, dai, lo sai anche tu che poteva andare molto peggio.

    – Potevano darmi l’ergastolo.

    – No, ma potevano radiarti dall’albo, e allora sì che sarebbero stati cazzi.

    – E secondo te io cosa faccio per vivere adesso? Voglio dire, gli ultimi soldi che avevo li ho dati a te, per la difesa.

    – E io ti ho fatto un prezzo da amico, lo sai.

    – Già, ma questo non risolve il problema di cosa mettere sotto i denti domani. Un anno e sei mesi è un tempo enorme, poi sarà impossibile rifarsi un nome, ritrovare dei clienti...

    – Quelli non è che abbondassero neanche prima.

    – Giorgio?

    – Sì?

    – Vaffanculo.

    Alessandro chiuse la comunicazione con un gesto stizzito e rimise il cellulare in tasca. Ora aveva ancora più bisogno di pensare. Si accese un’altra sigaretta e, fissando l’acqua sporca e pigra del fiume, cercò di ritrovare la calma e la razionalità, quelle che gli avevano consentito di uscire da tante situazioni complicate.

    Su una cosa Giorgio aveva ragione: i clienti non facevano la coda di fronte allo studio. Gli restava qualche aficionado, è vero, ma del genere tossico o scassinatore di seconda risma; non gente che avrebbe portato milioni di euro, di sicuro. E poi, in ogni caso, lui, Alessandro, non aveva nessuna voglia di occuparsi di loro. Peggio ancora, non ne aveva la capacità. Come difendere qualcuno dalla mano severa delle legge se non era neanche in grado di difendere se stesso dai fantasmi che lo assillavano, dall’insonnia, dall’alcol, dal fumo? Era lui il primo ad andare a fondo, e non poteva fare da salvagente per gli altri. Li avrebbe fatti affogare insieme a lui.

    Visto che il foro gli aveva chiuso le porte doveva trovare qualcosa con cui tenersi occupato, se voleva evitare di diventare pazzo a forza di lasciarsi prendere dalla nostalgia e dall’auto-commiserazione. Il telefono vibrò di nuovo. Era Giorgio, ma non se la sentiva di ascoltare una filippica sulla necessità di accettare il destino e di attraversare le traversie con occhio sereno. Domani avrebbe richiamato, e si sarebbe pure scusato. Giorgio, in fondo, non aveva nessuna colpa, oltre a quella di avere ancora l’abilitazione e uno studio florido.

    Ciò che più lo spaventava erano le giornate vuote che lo attendevano. Le ore che si sarebbero susseguite le une alle altre senza senso apparente. Quando andava in tribunale, anche se ubriaco, faceva qualcosa. Anche quando scandalizzava i colleghi con il suo aspetto trasandato o le sue battute taglienti aveva un minimo di vita sociale. Ora le sue frequentazioni rischiavano di limitarsi a Internet e alla televisione. Persino Gianni era appena morto. Il che lo induceva a interrogarsi su quello che aveva appena vissuto.

    Si chiese quante possibilità ci fossero che una persona, in punto di morte, decidesse di raccontare una completa idiozia, una storia inventata, così, tanto per farsi due risate o per sparare una cazzata. Si disse che ce n’erano pochissime. Quindi, delle due l’una: o Gianni gli aveva detto la verità o, quantomeno, credeva fermamente che quello che gli aveva raccontato prima che arrivassero i carabinieri e mentre la sua amica russa, terrorizzata, telefonava al protettore, si fosse veramente verificato.

    Alessandro e Gianni erano stati, si poteva dire, passabilmente amici. Avevano trascorso qualche fine settimana assieme e c’era stato un periodo in cui si sentivano o vedevano dalle due alle tre volte alla settimana. C’era, all’epoca, un interesse reciproco: Gianni trovava conforto nella stabilità di Alessandro (lo avesse visto ora!), e Alessandro si divertiva a osservare la pazza vita sentimentale di Gianni e a raccoglierne, quando poteva, le briciole. Poi quell’interesse era diminuito. Non che avessero litigato, o cosa. Semplicemente, si erano stufati, o forse si erano accorti che non avevano più molto da dirsi, o da condividere. Le frequentazioni si erano diradate. Quando, a inizio pomeriggio, gli era arrivata la telefonata, Alessandro non sentiva Gianni da almeno sei mesi. E, probabilmente, se non fosse giunta la triste mietitrice, ne sarebbero passati altri sei prima che le loro strade si incrociassero di nuovo.

    La domanda che veniva naturale era: perché aveva chiamato lui? Gianni era quello che si definisce un uomo di mondo, sempre in giro tra feste e donne di ogni tipo, età, taglia e colore. Doveva ben aver amici più stretti di lui. A tacer d’altro, c’era la ex moglie, che qualcosa doveva pur rappresentare. E invece, in un momento del genere, con l’angoscia di sentirsi il cuore esplodere nel petto, aveva fatto proprio il suo numero. E a lui aveva rivolto le ultime confidenze.

    Si sa, nei momenti drammatici la gente si comporta nelle maniere più strane. Ma qualcosa gli diceva che non poteva essere pura coincidenza. C’era una ragione, anche se non vedeva ancora quale.

    Restava da capire cosa avrebbe fatto delle informazioni che aveva ottenuto. Inizialmente aveva pensato di ignorarle, per evitare grane. Ora non era più tanto sicuro. Dato che il suo tempo libero era divenuto illimitato, persino le grane sarebbero state, in un certo senso, un’occupazione.

    E poi non era detto che non avrebbe potuto trarne vantaggi.

    III

    Stefano Vergnano schiacciò contemporaneamente il pedale del freno e il clacson. Ne uscì un suono frammisto di pneumatici stridenti e di tromba metallica. Un idiota si era fermato all’incrocio per dare la precedenza, in una strada di collina in cui notoriamente non passa quasi mai nessuno. E a momenti l’incidente lo provocava sul serio.

    La Porsche Carrera si era arrestata a meno di un metro dal posteriore della macchina che la precedeva. Dopo un paio di imprecazioni, Stefano prese il tempo di osservarne il modello e la targa. Una Opel Astra sicuramente di seconda o terza mano a giudicare dalla data di immatricolazione. Gente che non sapeva guidare e che era lenta sulla strada come nella vita. Diversamente, si sarebbe trovata in condizioni migliori e non sarebbe stata costretta ad andare in giro su un catorcio simile. Gente che, probabilmente, non era mai stata in un albergo di lusso e non aveva mai scopato una figa che valesse la pena. Uno dei tanti losers che affollavano il mondo.

    Stefano ridiede gas al motore, fece una rapida retromarcia e superò l’altro in una rombante accelerazione. Testa di cazzo, urlò al guidatore che stava aprendo la portiera per sincerarsi dell’accaduto, e che, in piedi accanto alla Opel, diventava sempre più piccolo nello specchietto retrovisore, intento a gridare e muovere affannosamente le braccia. Era giusto così, in fondo. Certa gente, quando è troppo sfigata, non dovrebbe avere neanche il diritto di far sentire le proprie opinioni.

    Continuò a percorrere la strada a velocità sostenuta, con la capote aperta e il vento che gli massaggiava i capelli. Il suono dello stereo si perdeva in quello del motore. Era una serata calda senza essere afosa, come ce ne sono solo a inizio maggio. Stefano era in ritardo, di venti minuti almeno. Ma se lo poteva permettere. Avrebbe portato la signora in un ristorante elegante, poi al vip lounge del Big, dove sarebbero stati trattati come clienti di prima categoria. Con un programma del genere – che chissà quando le sarebbe capitato di nuovo – aveva poco da fare la difficile. E a fine serata gli avrebbe dato quello che interessava a lui, senza fare storie.

    La musica fu interrotta dal gracchiare dell’elettricità statica, che precedette di qualche istante la suoneria del cellulare. Era l’inizio dell’eroica di Beethoven, che Stefano trovava adatta al suo carattere e al suo status. Imponente senza essere pacchiana. Sullo schermo del computer di bordo comparvero le parole Armando calling. Senza staccare le mani dal volante, azionò con un dito il comando del vivavoce.

    – Ciao-ciao, bello mio. Guarda che vado di fretta. Nottatona in vista.

    – Uh, ma... ci sono novità. Volevo dirtele subito.

    – Che novità? C’hai una voce...

    – Che puoi stoppare i pagamenti.

    – Vuoi dire...

    – È morto.

    – Dai, non fare il cretino. Ci vediamo.

    Stefano chiuse la telefonata con gesto di stizza e parcheggiò l’auto alla prima piazzola. Aveva a che fare con un deficiente mentale, non c’era altra spiegazione. Anni prima aveva sentito un politico – uno importante, di cui non ricordava il nome – che spiegava a un giornalista che al telefono non si ordina nemmeno un caffè. Quello era uno furbo. D’altronde, se non lo fosse stato, non sarebbe arrivato dov’era. Invece quell’altro idiota parlava apertamente di morti e di pagamenti in denaro. Non c’era di meglio per attirare i sospetti.

    Sarà stata la sua paranoia, come dicevano gli amici, ma Stefano si sentiva continuamente controllato. Non poteva provarlo, certo, ma sapeva bene che se la gente in generale – e la polizia in particolare – ne ha motivo, non esita a ricorrere a sotterfugi, a spiare. E per quanto lo riguardava, la gente di motivi per spiare ne aveva a bizzeffe. Non fosse altro che per invidia. Eccola, la triste verità. La gente – mediocre com’era – lo invidiava costantemente. Per le auto che guidava, per le donne che si scopava, per la vita che conduceva. E cosa fa la gente quando non riesce a ottenere determinate cose? Cerca di sfogare le proprie frustrazioni infangando coloro che le possiedono. Comunque, meglio fare invidia che pietà.

    Il cellulare riprese a suonare la sinfonia. ’Sto cretino, pensò Stefano. Non ha capito nulla e richiama. Magari pensa pure sia caduta la linea, così, per caso.

    Lo avrebbe ricontattato lui, più tardi, e di persona. Per il momento non valeva la pena di riprendere la conversazione. D’altronde, non ci si può attendere che un asino si metta a disquisire di filosofia o che un bradipo elabori la teoria della relatività.

    Si accorse di essere sudato, e si domandò perché. In fondo, a parte la gaffe telefonica, Armando non gli aveva dato brutte notizie. Se veramente le cose stavano come diceva lui – e lo avrebbe controllato, non si sa mai – c’era almeno un problema in meno. Era un po’ come levarsi un piccolo tarlo che per anni gli aveva, piano piano, ma con costanza, sussurrato la parola pericolo nel retro del cervello. Come uno gnomo che a intervalli regolari gli assestava un colpo non fortissimo, ma fastidioso sugli attributi. Le cose erano sempre andate bene, certo, ma avrebbero anche potuto deteriorarsi, e rapidamente. Già un paio di volte quel coglione aveva addotto problemi economici e sollecitato contributi eccezionali. Alle volte, invecchiando, la gente anziché saggia diventa stronza. I morti, almeno, non invecchiano.

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