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Vanilla Ice Dream
Vanilla Ice Dream
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E-book181 pagine2 ore

Vanilla Ice Dream

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Info su questo ebook

Scriveva James Baldwin: « Dio sa se è giunto il momento di liberarci del mito dell’America e di provare a scoprire cosa sta succedendo realmente qui ».
Vanilla Ice Dream è uno spaccato su un’America tanto distopica, quanto pericolosamente attuale.

Stati Uniti, 2021. Lo scrittore di viaggi Carter Hollmann torna dopo anni all’estero e trova il suo Paese al punto d’incontro tra distopia e real­tà.
Il razzismo che conosceva sta diventando qualcosa di sistemico: i neri senza casa, indigenti o comunque incapaci di pagare l’affitto vengono “ invitati ” a trasferirsi in insediamenti “ protetti ”. Alcuni fotografi scattano immagini di queste “ case ” per fornire materiale visivo a un videogioco (chiamato The Situation), ma anche per registrare tutte le famiglie di colore. Una di queste fotografe è Meredith, l’ex moglie di colore che divorziò da Carter dopo che questi la colpì in seguito a una lite. Dietro tutto questo ci sono il magnate Mandy Lemmour, l’Fbi e il lato oscuro del Sogno Americano: capitalismo e razzismo che congiurano a un inquietante esperimento di ingegneria sociale. (Non molto diversamente, negli anni Trenta la Germania nazista utilizzò il sistema di schede perforate dell’Ibm per localizzare e registrare le persone di origine ebraica.)
Gli interrogativi personali di Carter Hollmann si inseriscono nella storia dell’America trumpiana, tra la speranza di una riconciliazione con Meredith e la presa di coscienza che è necessario un atto deliberato di resistenza per superare le pulsioni razziste di una società.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2020
ISBN9788833860510
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    Anteprima del libro

    Vanilla Ice Dream - Roger Salloch

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    capitolo uno

    capitolo due

    capitolo tre

    capitolo quattro

    capitolo cinque

    capitolo sei

    capitolo sette

    capitolo otto

    capitolo nove

    capitolo dieci

    capitolo undici

    capitolo dodici

    capitolo tredici

    capitolo quattordici

    tamizdat

    ( 11 )

    © Roger Salloch

    © 2020 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Pubblicato in accordo con

    Gilam Agency – Giovanni Lamanna Agenzia Letteraria

    Titolo originale:

    Vanilla Ice Dream

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di marzo 2020

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Clay 180 gr

    Prima edizione digitale: marzo 2020

    isbn 978-88-3386-051-0

    Prima edizione cartacea: marzo 2020

    isbn 978-88-3386-043-5

    If I stumble, Lord

    Pick me up

    Help me drink this bitter cup.

    Gospel

    capitolo uno

    Era appena uscito dal negozio, si ricordò del dentifricio, tornò indietro, lo trovò nella terza corsia in fondo, pagò di nuovo e uscì nel temporale.

    Il ragazzino sembrava una barchetta sorpresa da una tempesta improvvisa, sballottato di qua e di là. Il proprietario del negozio, in scia, aumentò la velocità del vento e la temperatura dell’acqua. In un attimo, fu ebollizione.

    L’uomo non stava urlando, stava semplicemente esponendo dei fatti, facendo una lista dei prossimi eventi: ti uccido, piccolo bastardo nero, disse, ti investo per strada… ti…

    Una donna entrò e fu spinta via. Il ladro, se di ladro si trattava, inciampò e fu subito afferrato dal proprietario, che lo sollevò tenendolo come uno straccio – non ho fatto niente, non ho fatto niente – e l’uomo, invece di scagliarlo contro una macchina parcheggiata, come probabilmente intendeva fare, mancò il bersaglio e lo gettò nel traffico.

    L’autista del furgoncino suonò il clacson. Il suono era quello di un basso cupo in una scala musicale. Ma la sua voce era stanca. Già successo, già fatto, già investito ragazzini neri, le anime oppresse hanno a malapena un corpo dall’inizio. Comunque, probabilmente uno spacciatore. Iniziano presto. Quando ti capita, pazienza. Tant’è.

    Il furgoncino che investì il ragazzino era di un giallo girasole morto. Sul portellone laterale c’era scritto #notomorrow. Forse chi lo aveva dipinto ci percepì un presagio.

    Il ragazzino era spezzato in due. Non emise un suono. Aveva quattordici anni, a dire tanto. La polizia arrivò subito, raccolse le testimonianze. Era stato un incidente, senza dubbio, la donna era d’accordo e anche Carter Hollmann, nonostante forse avessero concezioni diverse di ciò che poteva causare un incidente.

    È un giornalista.

    Lo sono stato. Sono appena rientrato.

    E dove ha lavorato come giornalista?

    Ovunque. Sono uno scrittore di viaggio.

    Sembra interessante.

    Dipende da dove si viaggia.

    Bentornato a casa.

    Pensa che sia un buon posto in cui vivere?

    Il gesto che fece suggeriva che le cose potevano andare meglio.

    La contatteremo se necessario.

    Va bene.

    Si sente bene, signora?

    Ho appena visto una persona morire davanti ai miei occhi. Una persona che pensava di avere una vita intera di fronte a sé. Sì, in confronto a lui sto bene. Ma lui no.

    Il poliziotto chiuse il taccuino e Hollmann diede un’occhiata all’orologio. Era in ritardo di mezz’ora per l’appuntamento dagli Alderman, ma decise comunque di andarci a piedi. Mise la mano sinistra sul braccio destro dietro la schiena, per tenerla dritta. Provava a convincersi del fatto che se la schiena funziona, allora funziona anche il pensiero. Per un attimo, sembrò essere proprio così. Poi, non più.

    Aveva l’aria di uno che stava andando a un concerto in un Paese in cui non ricordava di essere mai stato. La musica era dissonante, contemporanea, improvvisata, a tratti sorprendente, a volte stonata. Ricordi in Si minore. Da giovane suonava moltissimo: violoncello, pianoforte, flauto. Ora era la musica a suonare lui. Un matrimonio, un divorzio, una figlia.

    Sua moglie si chiamava Meredith e un pomeriggio un litigio fra loro andò in crescendo. Sfuggì di mano. La mano aveva cercato di riacchiapparlo. Così dal nulla, l’aveva colpita. Una lunga storia. Gli effetti ancora più lunghi. Un ordine restrittivo per tenerlo a duecento metri di distanza finché Chelsea non avesse compiuto diciotto anni. Allora, lui sarebbe stato quasi un vecchio.

    Duecento metri è due volte la lunghezza di un campo da calcio. Più o meno la distanza a cui la visuale di una persona normale inizia a sfocare. Gli animali riescono a percepire gli odori da quella distanza. Gli esseri umani no. Aveva approfondito la faccenda. Non era un animale. A dispetto di quanto ci fosse scritto nei rapporti. In realtà, era un tipo piuttosto perbene.

    Tuttavia, lasciando da parte longitudine, latitudine, ottica e altre questioni scientifiche e personali, restava il fatto che lui l’aveva colpita per davvero. Da vicino e intimamente.

    L’avvocato di Meredith persuase la giuria che il motivo era stato il colore della sua pelle, nera. Si sbagliava. Dal suo punto di vista, la pelle non c’entrava nulla, perlomeno non più della sua bellezza. Accadde per tutte le ragioni che possono presentarsi in una coppia dopo otto anni di convivenza abbastanza buona. Non c’è mai una sola ragione, è sempre un insieme di ragioni che portano a una sorta di spinta, una sfida, un peso insostenibile. Se solo avessero… ma non sai come terminare la frase. Prova a raccontare tutto questo al giudice.

    In realtà, lei non era nemmeno nera, diciamo più ebano con sfumature di rosa, come quelle sbavature di tramonto che ti avvolgono alla fine di una bella giornata. Le sue camicie da notte erano bianche e blu. Di solito, di cotone. La bambina si chiamava Chelsea. I suoi pigiami erano bianchi. Di solito, con partiture musicali disegnate sopra. Allora aveva sei anni, oggi quasi sedici.

    Meredith lavorava per le Ong ed era una fotografa. Una donna brillante. Suo padre era Eulysses Dubois. I quotidiani gratuiti. In qualsiasi angolo della città. Sì, ma al tempo si occupava di molto altro. Musica. Anche allora, un impero. The Shake and the Stir, quello era Dubois. E The Fly.

    A ogni modo, la coppia funzionava. Perlomeno, così pensava lui. Scriveva pezzi per le testate locali e stava lavorando alla biografia di una donna, Bessie Coleman. Morta nel 1933. La prima donna americana a possedere una licenza internazionale da pilota. Forse la prima donna al mondo autorizzata a volare oltre confine. Di sicuro la prima donna nera. Fu suo padre a dirle di diventare pilota, « l’unico posto in cui un nero potrà mai essere libero in questo Paese è lassù, tra le nuvole ». Aveva scritto la biografia per la moglie. Non era sicuro che Meredith l’avesse capito. Ma non era questo il punto. Lui tirava avanti, lei era in rapida ascesa. I suoi scatti venivano pubblicati su riviste nazionali. Stava lavorando a un film.

    Ma se Dio è nei dettagli, come diceva Eulysses, il diavolo è nelle cuciture. Un giorno Meredith rientrò da Los Angeles, lui aveva avuto una brutta settimana. La penna si muoveva sulla pagina e poi fermava. Nord sud ovest est, sotto sopra, passato e futuro, scavava ovunque, ma nulla, le parole non arrivavano. Si immaginava ancora, seduto a quella scrivania e ripiegato come una graffetta, mentre cercava di tenere assieme le sue illusioni. Si chiedeva perché mai avesse deciso di non frequentare quella scuola per scrittori in Iowa. Si sentiva già solo, stimato ma isolato. Che cos’era la scrittura? Provare a portare alla luce l’essenza di ciò che contava. Un tempo, la chiamavano verità.

    Capisci cosa vuoi scrivere e fallo, aveva detto Meredith rientrando quella sera da La La Land.

    Era estate. Chelsea era al campeggio estivo. Mi aveva lasciato un messaggio molto tenero: « Papà, se fossi più vecchia, ti scriverei una lettera più lunga. Ma ho solo sei anni e devo scappare in palestra ora. Ti voglio bene comunque. Pensami mentre sarò alle parallele. A testa in giù, contro la forza di gravità. C. ».

    Fallo ?

    Gli sembrava ancora di vedere Meredith, in piedi contro la parete, indossava pantaloni rossi e una sciarpa dello stesso colore attorno al collo, sembrava stanca. Cosa aveva fatto a Los Angeles? Aveva qualche importanza? Sì. No. Si vedrà.

    Più che una spinta, uno spintone violento, quel fallo , che colpo su colpo si trasformò in uno spintone di ritorno assestato contro il muro di una crisi di mezza età in anticipo di dieci anni. Fallo, ripeté con un filo di voce e quando lui replicò: Che diavolo pensi che stia facendo?, Meredith si fece immobile. Il suo rosso illividì e le ombre si fecero blu e nere. Rivedeva ancora le sue palpebre abbassarsi. Un otturatore non si era mai chiuso così lentamente. Il buio non era mai stato così assoluto. Un volto non era mai stato così indeterminato.

    Immagino che l’incoraggiamento di una donna nera non sia mai abbastanza, replicò lei e la chiuse lì. Lui smise di respirare. Il suo cuore smise di battere.

    Forse era la sciarpa rossa o l’oscura profondità di quegli occhi, quando li riaprì, iniettati di un sangue che irrorava gli occhi di una ragazzina che continuava a sperare in un futuro migliore. Un nero infinito, ripensò dopo, nero come i segnali neri nei cantieri che indicano dove iniziare a scavare, nero come un buco nero nelle profondità dell’universo, dove non esistono materia, luce e tempo, ma solo eternità, nero così nero che poteva toccarlo, come i capelli di Meredith sotto le sue dita, come la sua testa poggiata in grembo, tanto tempo fa, quando i suoi sogni si erano scontrati violentemente contro la realtà a cui è condannata una donna nera.

    Probabilmente ti dispiace che io non sia un uomo, disse lei. Un uomo nero. Sì, uno di quelli con le dita rosa, come dicevi tu. Se fossi un uomo, potresti riempirmi di botte. Ma sono solo una donna e l’unica cosa che puoi fare è colpirmi forte. O sbaglio?

    La mano la sorprese dritta sullo zigomo, nello stesso modo in cui una carezza l’avrebbe sorpresa appena una settimana prima. No, questo no, disse, la sua mano cercava di trattenere l’intrattenibile. Appiattita contro il muro, respirava a fatica. Questo no, ripeteva.

    Carter rivedeva ancora la sua faccia riflessa nello specchio dietro Meredith. La testa fra le mani. Seduto. Le mani sulle ginocchia. L’espressione vuota. Piangeva. Vedeva solo l’ombra dell’uomo che era stato un tempo.

    Quel fantasma, quello spettro in lacrime lo perseguitò per anni.

    Per la mia gente, la vergogna è come lo smalto sulle unghie dei piedi, anche se è del colore sbagliato, una volta che ce l’hai addosso è difficile da togliere.

    Ora era lui a indossare lo smalto. Gli rivestiva la cavità cranica, l’aveva sotto le unghie e in profondità che nemmeno sapeva di avere.

    Lasciò il Paese. L’amava per due, per se stesso e per chiunque altro si fosse chiesto cosa lei avesse significato.

    «Meredith non è soltanto amante, moglie, madre, migliore amica – avrebbe scritto in un diario che teneva per sua figlia – Meredith è il sole, i pianeti e la pioggia, le nuvole e la foresta, luce e ombra, è parte di me, è in ogni parte di me, è bella, affettuosa e corretta, Meredith nasconde doti incredibili in angoli impensabili di se stessa, riesce a farmi ridere nel cuore della notte, lei è ciò che i francesi chiamano mon cadeau du ciel. Ed è un’ottima cuoca. Sì, pure quello.»

    Carter divenne ciò che era sempre stato, uno scrittore di viaggio, un osservatore. Camminava, pregava, trafficava, camminava ancora, si sentiva a casa ovunque ma nessun posto era davvero casa. Il tempo gli rimboccava le coperte la sera e lo svegliava all’alba. Le ore erano cuscini su cui dormiva come poteva. Cercava donne che lo facessero sentire in quel modo, ma non sapeva dire cosa fosse quel modo.

    Gli ci vollero anni per scolorare la sua vergogna. Dovette grattare forsennatamente i sogni, scorticare la pelle e le cicatrici. Era come se avesse cotto della frutta in una pentola. Una pentola che però non era fatta per cuocerci della frutta. Le incrostazioni nella sua scatola cranica erano come smalto. Restavano delle tracce. In seguito, per molto tempo si sarebbe svegliato sentendo le mani intrappolate nella testa che spingevano contro pareti che nemmeno il tempo avrebbe mai pulito.

    Suo padre era stato un commediografo di discreto successo e sua madre una professoressa. Erano entrambi persone molto lucide che non avrebbero mai permesso ai sentimenti di intralciare il filo dei pensieri. Sentiva di vivere nell’ombra di sua moglie, lei pensava che fosse perché era nera e, bastardo che era, voleva liberarlo. Sapeva che non era vero perché l’amava sinceramente, Carter lo sapeva, così come sapeva che l’ombra che proiettava non aveva nulla a che fare con il colore della pelle, quanto piuttosto con il suo potere, il potere di una donna. E sentiva che non sarebbe mai stato in grado di provarglielo finché non avesse proiettato anche lui la sua ombra. L’ombra di un uomo. E finché non avesse dimostrato di non temere la sua stessa ombra.

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