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Parmigianino
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E-book596 pagine8 ore

Parmigianino

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Info su questo ebook

Con un’attenta ricostruzione storica, arricchita da una capacità narrativa fuori dal comune, Paola Brianti ci racconta l’affascinante vita di Francesco Mazzola, noto come “Il Parmigianino”, che si svolge in uno dei periodi più turbolenti del Cinquecento italiano. In un affresco suggestivo di un’Italia non ancora nazione, sferzata da lotte intestine, potere imperiale e papale, l’Arte del Parmigianino si fa portatrice di un messaggio di straordinaria bellezza ed unicità, capace di sopravvivere al tempo e alla distruzione umana.

Paola Brianti è nata a Fontanellato, in provincia di Parma. Giornalista professionista, si è occupata prevalentemente dei problemi del Medio ed Estremo Oriente. è vissuta a Pechino durante gli anni della Rivoluzione Culturale. Ha seguito le guerre del Libano, dell’Iran e dell’Iraq e intervistato alcuni tra i più importanti leader della politica orientale dell’ultima parte del Novecento. Ha pubblicato Volavano soltanto aquiloni, romanzo ambientato negli anni della Rivoluzione Culturale cinese (Gaffi Editore, 2005) e Fuori Stagione, storia di un insolito amore (Albatros, 2017). Vive e lavora a Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2018
ISBN9788856795677
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    Anteprima del libro

    Parmigianino - Paola Brianti

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-9567-7

    I edizione elettronica ottobre 2018

    Introduzione

    La breve vita di Francesco Mazzola, noto come Il Parmigianino si svolge in uno dei periodi più turbolenti del Cinquecento italiano.

    Nei suoi trentasette anni di vita, tra il gennaio 1503 e l’agosto 1540, mentre il Medio Evo si avviava al suo definitivo tramonto, al soglio di San Pietro, si avvicendavano cinque papi, epidemie e guerre continuavano a devastare l’Italia, si scatenava il terremoto della Riforma di Lutero seguito a pochi anni di distanza dallo scisma anglicano e dalla spietata reazione della Controriforma. Si verificava, soprattutto, la tragedia più atroce per tutto il mondo dell’arte e della cultura, il Sacco di Roma.

    Per gli artisti che alla corte di Clemente VII avevano creduto di poter raccogliere l’eredità di armonia e di bellezza lasciata da Raffaello, il Sacco fu una ferita mortale che li avrebbe segnati per sempre. E il Parmigianino, che pure ne uscì apparentemente indenne, fu tra quelli.

    Parmigianino il mistero di un genio non vuole, né potrebbe essere un saggio di storia o di critica dell’arte. è un romanzo sulla vita del più grande pittore di Parma e tra i più grandi del Rinascimento italiano. Le fonti alle quali i più hanno attinto per narrarne la tormentata vicenda umana, si riferiscono in maggior parte alle Vite di Giorgio Vasari il quale, a sua volta, raccoglie fedelmente la testimonianza del cugino del Parmigianino, Girolamo Bedoli.

    La convinzione che il Parmigianino si fosse perduto nei misteriosi meandri della magia alchemica, si è protratta nei secoli fino ai tempi nostri, nonostante, fra l’altro, la rigorosa ricerca storica e l’ampia documentazione pubblicata da Guido Sanfilippo che vanifica tutte le romantiche fantasie diffuse sull’ultima parte di vita del pittore e nonostante lo storico dell’Arte parmigiano Pier Paolo Mendogni in tutti i suoi saggi sul sommo artista della sua città, lamenti che l’accusa di alchimia contro il Parmigianino è dura a morire.

    Ho cercato di sfatare questa leggenda.

    Il romanzo Parmigianino Il mistero di un genio si basa su documenti d’archivio e ricerche storiche che si sono protratte per lunghi anni. Per la narrazione di vicende sentimentali o private, ho fatto necessariamente ricorso alla immaginazione, seppure mai avulsa da avvenimenti storicamente accertati.

    Tutte le opere del Parmigianino, meravigliose allo sguardo e di ingannevole semplicità, ad ogni attento esame rivelano sempre nuovi particolari, trasmettono nuovi messaggi, quasi in un gioco infinito di specchi, dilatando nel tempo il fascino dell’artista, perseguitato da sventure familiari, sconvolgimenti politici e religiosi, guerre e tradimenti, eppure sempre tenacemente innamorato dell’eterna bellezza.

    Ma fino a quando non verranno alla luce altri documenti, continuerà il mistero che da oltre cinquecento anni avvolge la vita di questo sommo artista italiano, apprezzato forse più all’estero che non nella sua patria e che Harold Acton nel suo The Last Medici giustamente definisce genio incompreso.

    La stanza del Parmigianino nella Rocca di Fontanellato

    Nel 1696, l’Accademico Carlo Giuseppe Fontana scriveva:

    Oltre alla prima scala già nominata, se ne trova una consimile in parte più lontana, restandone due piccole e segrete ne’ luoghi molto opportuni. E giacché per lo significato disordine delle stanze copiose, quasi in un intrigato Labirinto mi perdo, ne restrignerò la descrizione con una figura aritmetica, calcolandole in tutto in numero d’un centinaio. Fra quelle, nel corpo d’un basso Appartamento, si entra in un gentil Gabinetto in volta, dipinto dal rinomato Francesco Mazzola detto il Parmigianino, che nell’angustia di quello sito ha fatto campeggiare a meraviglia tutto lo sforzo del suo celebrato Pennello.

    In mezzo alla volta si mira sitto uno Specchio ritondo, ristretto in vaga cornice dorata, nel cui giro sta scritto: Respice finem. Detto che siccome uscì dalla bocca ad un Savio della Grecia, così dovrebbe senza mai uscirne, entrar in mente ad ognuno, che ha fior di senno. Intorno al medesimo Specchio s’apre un bel campo d’aria della tinta più dolce. Indi passa l’occhio a vagheggiar la deliziosa Scena d’un Giardino che fiorisce principalmente in una siepe di rose , parte bianche, parte vermiglie, disposta in figura ottagonale con dappiè un ordine ben folto di bassi mirti...

    Da "Fontana 1696 Ragguaglio della Rocca di Fontanellato e d’ogni altra sia circostanza" a cura di Mario Calidoni Associazione Culturale Iacopo Sanvitale, pubblicato in copia anastatica il 25 dicembre 2012.

    Il rapporto dell’Accademico dei Facoltosi di Milano, indirizzato al P.D. Girolamo Mazza, Segretario dell’Accademia nell’anno 1696, è il primo documento che testimonia la presenza degli affreschi del Parmigianino nella Rocca di Fontanellato.

    Non ne fa cenno il Vasari né nella edizione delle sue Vite del 1550, né in quella successiva del 1568.Girolamo Bedoli che pure nel parlargli dell’illustre cugino, non trascura di divulgarsi sulla sua presunta e mai dimostrata dedizione all’alchimia, evita di citare le pitture di Fontanellato delle quali non poteva non avere avuto notizia, considerato che negli anni in cui dipingeva in Rocca, il Parmigianino viveva nella sua stessa casa.

    Le lotte intestine tra le opposte fazioni in Parma, il controllo severo su ogni libera attività intellettuale, inasprito dopo l’elezione al soglio pontificio di Alessandro Farnese e il conseguente arrivo al potere della sua famiglia nel territorio parmense, determinarono uno sconvolgimento traumatico nella nobiltà di tutto il territorio, pagato anche con la condanna al patibolo e col sequestro dei beni dei ricchi signori feudali.

    La Rocca di Fontanellato col suo bene più prezioso, gli affreschi del Parmigianino, subì le traversie dei Sanvitale e dopo burrascose vicende, sarà alla fine riscattata dal conte Alessandro Sanvitale che ospiterà l’accademico Carlo Giuseppe Fontana, in occasione di un fastoso ricevimento allestito in onore della duchessa di Parma.

    Il Fontana, nella sua minuziosa descrizione delle pitture, non accenna alla finestra oggi visibile, ma che sarà aperta più tardi, danneggiando parte degli affreschi e dissacrando, in certo modo, quel luogo buio e segreto, costruito in stretta osservanza delle regole dettate da Pico della Mirandola. Ma ormai la stanza della favola di Atteone aveva esaurito la sua funzione misterica e oggi rimane a testimonianza del genio di un ragazzo che alla luce incerta delle torce, seppe dipingervi la primavera.

    Dal 1948, anno in cui il conte Giovanni, ultimo discendente dei Sanvitale, vendette la Rocca al Comune di Fontanellato, il maniero è divenuto bene pubblico e sede del Comune stesso. Oggi la stanza di Atteone non è più segreta e chiunque la può ammirare.

    Ma il visitatore che avesse la ventura di soffermarsi in silenzio davanti a quegli affreschi, non potrebbe evitare di sentire il soffio misterioso di una realtà invisibile che dalle pitture ancora spira e che continuerà ad affascinare lo spirito fino a quando la Rocca avrà vita.

    Prefazione

    Fontanellatese d’origine, Paola Brianti, giornalista e scrittrice emigrata a Roma, si è invaghita da ragazzina della misteriosa stanza segreta del castello Sanvitale in cui si intrecciano nell’incanto stupefatto del mito due bellissimi giovani, Paola Gonzaga, la castellana consorte del conte Galeazzo Sanvitale, e Francesco Mazzola detto il Parmigianino, che col suo pennello ha realizzato a vent’anni quel capolavoro immortale, che da secoli affascina e intriga, in cui compare anche la diciannovenne contessa sotto forma di una seducente Cerere dalla sensuale pudicizia.

    E l’affresco parmigianinesco ha continuato ad accompagnarla e solleticarne la curiosità durante tutta la sua lunga e proficua carriera professionale che l’ha vista seguire come giornalista per L’Europeo le complesse e traumatiche vicende della Rivoluzione culturale cinese e le guerre del Sud Est asiatico. Ha pure intervistato i protagonisti dello scenario mediorientale del secondo Novecento tra cui Khomeini, Saddam Hussein, Zhou en Lai, Gheddafi. Tornata a Roma, ha diretto la rivista di politica e cultura Enne Effe.

    Negli anni scorsi ha scritto due romanzi e ha iniziato ad approfondire gli argomenti storici e culturali del periodo in cui è vissuto il Parmigianino (1503-1540). Anni complessi dal punto di vista politico e religioso, di cui sono stati protagonisti molti committenti dell’artista e hanno coinvolto lui stesso che si è trovato a Roma proprio nel fatidico 1527, quando la città è stata invasa e profanata dai tedeschi, e Parmigianino – si racconta – si è salvato donando alcuni disegni ai soldati che avevano fatto irruzione nel suo studio.

    Un lavoro di ricerca meticolosa, il suo, per i numerosi personaggi con cui l’artista ha avuto contatti o che hanno interferito nel suo lavoro: i colti umanisti dediti a riti orfici per iniziati nel castello di Fontanellato, i cardinali e i principi romani con le loro lotte, lotte che avvenivano tra i nobili anche a Parma, dove Francesco è tornato dopo una parentesi a Bologna e di cui egli è rimasto vittima, così da dover fuggire a Casalmaggiore. Poco prima, nelle pareti del presbiterio della Steccata, aveva dipinto uno dei suoi massimi capolavori: sei raffinatissime fanciulle vergini dai capelli biondi, il collo sottile, le carni morbide e dorate, il corpo slanciato, che sfilano con distaccata eleganza e costituiranno un supremo modello per il manierismo europeo.

    Sulla base degli elementi raccolti, la scrittrice fa rivivere con immagini di straordinario spessore e vivacità d’accenti un mondo che scorre davanti ai nostri occhi come le sequenze di un film appassionante, anche perché la storia si trasforma nelle vicende umane in romanzo, caratterizzato da un ritmo incalzante e da accattivanti squarci poetici, come quando Francesco pensa che «Parma esisterà fino a quando la bellezza avrà vita. È la bellezza l’anima immortale degli uomini, della città». E i protagonisti ci coinvolgono nelle loro passioni, nelle loro difficoltà, nelle loro trame. Così la vita del Parmigianino è un susseguirsi di successi e di afflizioni dovute a vicende storiche ma anche a gelosie personali (tra cui i difficili rapporti con l’invidioso Gerolamo Bedoli, marito della cugina) fino alla sua prematura fine a 37 anni, su cui l’autrice proietta un’ombra oscura.

    Pier Paolo Mendogni

    PARTE PRIMA

    Le meraviglie del San Giovanni in Parma

    In Parma nel 1522, a pochi mesi dalla fine della guerra tra le forze di Leone X e l’esercito di Francesco I di Francia, la città sembrava rinascere in un fremito nuovo di rinnovamento, di allegra spensieratezza.

    I cantieri abbandonati nei lunghi mesi dell’assedio avevano ripreso a vivere, nelle chiese gli artisti erano tornati al lavoro interrotto. La città era governata con autorità e saggezza da Francesco Guicciardini e nessuno voleva più pensare alla fragilità della tregua, allo spettro della fame e della morte.

    I cannoni tacevano, la primavera era tornata.

    Sui ponteggi del San Giovanni di Parma, Francesco Maria Rondani fissò attentamente il San Pietro quasi terminato, il Giovanni Evangelista ancora incompiuto, accanto al medaglione centrale del sottarco; asciugò i pennelli, confrontò l’affresco con i disegni preparatori del maestro da Correggio, scosse un poco la testa, diede un’ultima occhiata alla grande volta del tempio e mormorò tra sé: Domani, domani il colore diventerà più vivo, poi scese a terra.

    Stava calando la sera e le volte silenziose della chiesa, ancora incompiuta, cominciavano a riempirsi di ombre, mentre il buio avanzava, inghiottendo lentamente l’ultima luce.

    In quell’ora, gli spazi sembravano più vasti, quasi infiniti, mentre il silenzio rendeva ancora più maestosa la vastità dell’abside.

    I passi del Rondani si perdevano con suono cupo nel vuoto del tempio, finché l’artista non decise di fermarsi e lanciare un’occhiata furtiva al lavoro del giovane pittore chiamato dai frati benedettini ad aiutare l’opera del maestro venuto da Correggio.

    Michelangelo Anselmi, il più famoso dei tre collaboratori di Antonio Allegri, era già uscito da qualche ora e al lavoro erano rimasti soltanto il Rondani e Francesco Mazzola, noto a tutti come il Parmigianino.

    «"Francesco! – chiamò il Rondani – Francesco – ripeté ancora più forte – Francesco, scendi, il sole è al tramonto, presto sarà buio e ogni passo diventerà pericoloso. Scendi e fai attenzione agli scalini della botola. Oh, guarda, sta entrando il maestro! Lo accompagna un signore, un signore in abito di velluto color cremisi sotto al mantello nero. Ecco, stanno entrando, vieni Francesco, vieni che li salutiamo».

    «Oh, guarda! Il gran signore è il cavaliere Gian Galeazzo Sanvitale, conte di Fontanellato, lo conosco bene. È certo un segno del destino che passi di qua proprio oggi, mentre tu stai completando l’affresco del suo santo protettore».

    Antonio Allegri da Correggio era ormai entrato nel tempio e apriva la strada a Gian Galeazzo Sanvitale, additandogli i lavori ancora incompiuti eppure già vivi e di straordinaria bellezza.

    Giovanissimi entrambi, non avevano ancora raggiunto i trent’anni, esprimevano ad ogni gesto, ad ogni parola, una straordinaria autorità, consapevole del suo genio l’Allegri, della nobiltà della sua famiglia e del potere delle sue ricchezze il Sanvitale.

    Il Parmigianino si avvicinò al Rondani.

    «Come sono adesso i rapporti del Sanvitale con i Rossi di San Secondo? Sono tornato da poco a Parma e ancora ignoro molti eventi della nostra terra».

    «In effetti, io non mi sono allontanato per lungo tempo e comunque non abbastanza per ignorare tutto il male che si è abbattuto su questa nostra terra, forse il peggiore di questi secoli spaventosi, con la popolazione allo sbando, affamata e massacrata prima dalla soldataglia francese, poi dalle bande spagnole e tedesche al soldo del papa. Quelli al comando del papa e di Carlo V erano venuti per liberare la città dai francesi e solo per questo furono scambiati dai parmigiani per liberatori. Ma fu inganno. La soldataglia si trovò la via libera per rapinare, massacrare, violentare. Fortunato te che non hai assistito a questi orrori! I mercenari alemanni si lanciarono come cani rabbiosi sul popolo per sbranare e azzannare chiunque fosse alla portata della loro spada. L’ospizio della città non ha più posti disponibili per accogliere le centinaia di bambini nati da queste violenze e che le madri non hanno potuto o voluto tenere con loro».

    I due pittori si tolsero le sopravvesti imbrattate di colori e le

    appesero alla traversa di un ponteggio. Vestiti all’ultima moda venuta da Venezia, sarebbero potuti sembrare due ragazzi eleganti dell’aristocrazia parmigiana che l’infamia delle guerre non era ancora riuscita ad abbruttire. Elegantissimo il Rondani, nel suo abito di seta damascata bianco, più disinvolto il Mazzola, nel suo farsetto di velluto azzurro che lasciava intravvedere i polsi della camicia di merletto bianco. Visto da vicino, i capelli accuratamente pettinati, i grandi occhi nocciola con fugaci sfumature di verde, la sua bellezza sembrava quasi irreale.

    «Ho saputo della tragica morte di Cristoforo Pallavicino- disse- lo avevo incontrato a Busseto, poco prima della mia partenza per Viadana».

    «Sì, i francesi lo accusarono di avere dato ospitalità ad alcuni soldati del papa. Lo arrestarono, lo torturarono brutalmente e alla fine lo uccisero. Speriamo che tutto questo orrore sia finito. Ma ecco, il maestro si sta dirigendo verso di noi col suo nobile ospite. Vieni, andiamo a salutarli. Ho sentito che il Bedoli ti ha accompagnato a Viadana durante la fase più dura della guerra» aggiunse il Rondani.

    «Sì, lo conosci? È apprendista nella bottega dei miei zii, abita nella nostra casa».

    «L’ho incontrato qualche volta ed ho avuto l’opportunità di scambiare con lui alcune parole, ma mi dicono che non sia dotato di grande talento».

    «Forse imparerà, è a una buona scuola».

    «Francesco, guardati da lui. I mediocri sono spesso molto pericolosi, stai attento. Ieri l’ho intravisto mente parlava al priore e gli mostrava alcuni disegni, spero di sbagliarmi, ma sento che l’uomo è infido. Ma adesso basta, avviciniamoci al maestro».

    Antonio Allegri, proprio in quel momento, stava illustrando all’ospite il lavoro da poco compiuto, anticipava le parti del progetto ancora invisibili allo sguardo e il Sanvitale taceva attonito, quasi rapito nella vertigine di quelle vette che parevano umanamente irraggiungibili, che nessuno mai prima del Correggio aveva osato immaginare e che nessun altro dopo di lui sarebbe più riuscito a realizzare.

    «Sta scendendo la sera – osservò il maestro – e l’ombra copre i colori. Ritornate quando sarà giorno, conte, la luce del sole è più propizia alla vista dei dipinti».

    «Tornerò – assicurò il Sanvitale – già ero stupito delle vostre pitture nella camera del San Paolo ed ero convinto che tanta perfezione non sarebbe stata mai superata. Oggi mi debbo ricredere e per un’opera creata dalla stessa mano». Si interruppe all’improvviso. «E quello?» esclamò additando la cupola «E quel fresco, cosa rappresenta?».

    «Oh, quello – rispose l’Allegri – quello è il passaggio di Giovanni dalla vita terrena al Cielo, dove il Cristo, dopo averlo a lungo atteso, finalmente lo aiuta a salire».

    «Il passaggio – osservò quasi tra sé il Sanvitale – il passaggio, non la morte, non la corruzione della carne, non l’addio alla vita, il passaggio che l’Apostolo attende pieno di speranza. La scarsa luce non mi permette di distinguere perfettamente i contorni del monocromo, eppure riesco a individuare il sacrificio dell’agnello. A chi è dedicata quell’ara?».

    «Al Dio che tutti gli uomini adorano, seppure sotto diverso nome» rispose il Correggio

    «Questo intendeva Pico principe della Mirandola, a questo si riferisce il Delfini nella sua critica al libro VI dell’Eneide».

    «Conte, vi prego, tornate con la luce del giorno – insistette il Correggio – ora l’ombra offusca i colori e copre le figure. Ma ecco, quasi nascosti nel buio della navata laterale, ecco due dei miei aiutanti. Francesco Maria Rondani, il perfetto esecutore dei miei disegni preparatori e Francesco Mazzola, al lavoro in San Giovanni per onorare gli impegni assunti dagli zii e autore, oltre al resto, del San Vitale che trattiene il cavallo, in alto, alla vostra sinistra e ancora visibile in tutta la sua nitidezza, nonostante la scarsa luce».

    Gian Galeazzo Sanvitale guardò il dipinto, salutò i due giovani artisti, chinò leggermente il capo verso il maestro e si avvolse nel suo grande mantello scuro. Il Correggio lo accompagnò alla porta e già stavano per varcarla insieme, quando il conte si voltò verso il Parmigianino.

    «Mi auguro di rivedervi, signore. La vostra giovane età a stento giustificherebbe tanta bravura, ma il maestro Allegri me ne dà convinta garanzia. Tornerò in San Giovanni».

    I quattro uomini uscirono e presero strade diverse. Il Sanvitale montò sul suo cavallo nero, rimasto fino a quel momento fermo sul sagrato del tempio e partì, subito seguito dalla scorta armata che lo aveva atteso senza scendere dalla sella dei cavalli lussuosamente bardati, con lo stemma del signore di Fontanellato bene in vista su ogni fiancale.

    Gian Galeazzo Sanvitale

    In breve il conte si lasciò il San Giovanni alle spalle e si diresse verso Porta di Santa Croce. Doveva affrettarsi, se non voleva trovare il ponte levatoio del suo castello irrimediabilmente alzato, come sempre accadeva al momento del tramonto.

    Un anno prima, aveva combattuto a fianco dei francesi contro la città, ma con la convinzione di usare la sua spada per salvarla, come il chirurgo che deve ignorare il grido di dolore del malato se vuole salvargli la vita.

    Erano stati giorni di angoscia e fu in un pomeriggio di sole che accadde quello che non sarebbe dovuto accadere.

    Forse dimenticherò – pensava – Forse arriverà anche per me la luce che cancella il ricordo della sofferenza.

    Alzò il capo e guardò oltre i muri bruciati delle case, i ragazzi seminudi che vagavano sperduti nelle strade deserte, i bambini che tendevano la mano chiedendo pane. Questa era l’eredità della violenza, il prezzo della guerra, morte e miseria, miseria e fame.

    Dopo un anno dalla fine dei combattimenti, i segni della devastazione aggredivano ancora ad ogni angolo di Parma, ne umiliavano l’orgoglio. Le case dei borghi che si stendevano oltre il fiume erano state fatte bruciare dallo Scudo, il fratello dello spietato Lautrech comandante dell’esercito francese, prima di ritirarsi dalla città e i resti delle mura annerite si spargevano lungo le strade fangose. Qui i parmigiani erano stati costretti ad ospitare nelle loro case i francesi, qui l’esercito di Francesco I aveva compiuto le violenze peggiori, i soprusi più violenti verso i più umili, gli indifesi. I soldati avevano violentato le donne, umiliato e schernito i più poveri e diseredati. E i parmigiani avevano ricambiato con l’unica arma di cui disponessero, l’odio. Un odio rabbioso, senza fine, la livida consolazione dei miseri.

    Erano sentimenti che il Sanvitale conosceva bene e che un giorno, quel giorno tremendo che avrebbe voluto dimenticare, egli stesso aveva sentito in tutta la loro violenza. Era consapevole dei pericoli che la sua dichiarata lealtà verso Francesco I comportava per la sua persona e la sua stessa famiglia, ma Paola Gonzaga, la moglie bellissima che aveva sposato sei anni prima, era anche la sua garanzia di salvezza. I signori di Mantova avevano assicurato il loro sostegno al papa, il fratello di Paola, Luigi detto il Rodomonte, militava nell’esercito imperiale e il marchese Ludovico era passato agli ordini di Leone X, dopo avere rinunciato all’Ordine di San Michele e averne restituito al re Francesco il collare e il segno distintivo.

    Non fosse stato per le diatribe tra il Prospero Colonna e il Marchese di Pescara, la sconfitta del mio amico Lautrech sarebbe stata ancora più fulminea – rifletteva tra sé il Sanvitale – ma era fatale che così accadesse e forse presto le rivalità tra i comandanti degli eserciti imperiali riporteranno Parma nelle mani dei francesi.

    A Parma era andato per incontrare il governatore Francesco Guicciardini, presentargli i suoi saluti e dichiarare il suo rispetto verso gli accordi di pace intercorsi fra i francesi e i capi dell’esercito di Carlo V. Nonostante le divergenze politiche, il Sanvitale apprezzava sinceramente il governatore toscano e la sua stima si era rafforzata nei giorni dell’assedio di Reggio quando il Guicciardini non aveva esitato a condurre sano e salvo il fratello di Lautrech oltre la porta della città, proteggendolo con la sua persona e salvandolo dall’ira della popolazione, a costo della sua stessa vita.

    Il Sanvitale si era sempre schierato a favore della Francia e la sua fedeltà non era mai mancata, neppure nei momenti più difficili. C’era stato, è vero, l’episodio del giuramento di fedeltà a Giulio II, il papa guerriero che era riuscito a conquistare Parma e Piacenza. Gian Galeazzo, appena sedicenne, gli aveva offerto la sua spada e aveva giurato la sua fede in nome del fratello maggiore Gian Francesco, fuggito in Francia dopo la vittoria della Lega.

    Pochi anni prima, con un semplice atto notarile e senza intaccare l’integrità delle mura, il padre aveva diviso la proprietà della Rocca di Fontanellato tra lui e il fratello e tutto sembrava procedere serenamente, fino a quando la sconfitta di Luigi XII non lasciò i seguaci del partito filo-francese abbandonati a se stessi.

    Ai Sanvitale, sotto la minaccia della confisca dei beni e dell’esilio, non rimaneva che piegarsi alla volontà del papa.

    Gian Galeazzo accettò il consiglio di recarsi a Roma accompagnato dai fidi Jacopo da Correggio, parente della madre e dal parmigiano Melchiorre Bergonzi, ma nella città eterna rimase pochi giorni soltanto, giusto il tempo di presentarsi alla Curia pontificia e consegnare il suo attestato di fede ai delegati del papa che non aveva voluto o non aveva avuto la possibilità di riceverlo di persona. Dopo un anno, la morte di Giulio II° lo sciolse dal suo forzato impegno.

    Quando raggiunse l’età di vent’anni, sposò Paola dei duchi Gonzaga di Sabbioneta, di due anni più giovane di lui e bella tra le belle. I Gonzaga erano filo-imperiali, ma Luigi, fratello di Paola, amava la Rocca di Fontanellato come una sua seconda casa e l’avrebbe difesa da ogni oltraggio.

    A questo pensava il signore di Fontanellato, mentre spronava il cavallo verso le sue terre. Non aveva incontrato il governatore, ma in compenso aveva goduto delle bellezze del San Giovanni e, soprattutto, aveva conosciuto quel giovane pittore tornato da Viadana di cui qualche amico, e Antonio Allegri in particolare, gli avevano tanto parlato.

    Oltrepassò la Porta di Santa Croce senza incontrare ostacoli e si diresse verso il Taro. I segni della devastazione della guerra e delle piene del fiume erano visibili ovunque, come se la violenza degli uomini e della natura si fosse accanita sulle sue rive, inutilmente rallegrate da qualche arbusto di biancospino.

    Nessuno aveva tentato di ricostruire l’ultimo ponte di legno e di pietra spazzato via come un fuscello dalla forza dell’acqua e forse per penuria di mezzi, forse per rassegnazione agli eventi, i monaci cistercensi di Fontevivo che ne avevano la giurisdizione, evitavano di prendersene cura.

    I barcaioli che aspettavano di traghettare i viaggiatori, videro da lontano i cavalieri che si avvicinavano e si spostarono per lasciare spazio alla grande barca rimasta in attesa del Sanvitale e della sua scorta. Il gruppo scese da cavallo, si avviò verso l’imbarcazione e in pochi istanti raggiunse la riva opposta.

    Fontanellato era oltre. Si doveva attraversare la grande pianura che dal fiume si stendeva quasi ininterrotta fino a Fontevivo, evitare i gruppi armati che pattugliavano la zona, dirigere il cavallo lungo gli stretti sentieri che costeggiavano i campi arati e in gran parte devastati dalle recenti battaglie e passare in fretta, il più in fretta possibile, per evitare gli agguati degli imperiali, dei briganti che spesso sbucavano all’improvviso dai filari dei pioppi e perfino degli stessi alleati francesi.

    In Rocca

    La servitù era stata avvertita del ritorno del conte e il suo cameriere personale lo aspettava nella sala che immetteva negli appartamenti privati.

    Gian Francesco, il primogenito dei Sanvitale che vantava diritti ereditari su metà della Rocca, si era allontanato da Fontanellato in maniera quasi definitiva e la sua era una presenza più teorica che reale, ma la moglie Laura Pallavicino, o Pelavicino, come molti amavano chiamarla, non tralasciava occasione per rivendicare i suoi diritti sulla Rocca. In compenso, il fratello minore Gian Ludovico e, soprattutto, il cugino Girolamo Sanvitale, signore di Sala, amavano fermarsi nel castello, godendo della splendida ospitalità della colta e affascinante moglie di Gian Galeazzo.

    Paola raggiunse il conte direttamente in camera da letto senza farsi annunciare, la confidenza tra i due sposi superava le regole dell’etichetta.

    «Preceduto di poche ore da mia sorella, è arrivato in Rocca Gerolamo con la moglie – disse quasi in un sussurro – ti sta aspettando dal primo pomeriggio e ormai tutti noi temevamo che qualche impegno ti impedisse il ritorno nella giornata di oggi. Era già tutto predisposto per la levata del ponte che, secondo i tuoi ordini, non avrebbe potuto riabbassarsi fino all’alba di domani e il viaggiatore straniero, giunto da poco in Rocca per vederti, stava fremendo di impazienza».

    «Uno straniero – si meravigliò Gian Galeazzo – mi auguro che la visita, quantunque inattesa, sia foriera di buone notizie. Già mi preoccupo per le iniziative di Gerolamo, anche se le condivido pienamente, e non ho certo bisogno di altri pensieri».

    «Penso che la visita ti sarà gradita. È un messo del re di Francia ed è giunto subito dopo la tua partenza per Parma. E’ latore di un messaggio del re, per questo ho fatto predisporre per lui la camera più confortevole della Rocca ed ho ordinato di serbargli a tavola il posto d’onore, se tu non hai nulla in contrario, naturalmente ».

    «Grazie – la rassicurò Gian Galeazzo – grazie, speriamo davvero che siano buone novelle quelle che mi deve comunicare. Sarà prudente che Gerolamo non faccia cenno delle nostre preoccupazioni né delle convinzioni dei nostri amici. La vicenda del Russelliano va gestita in privato e nella massima segretezza».

    «Ho già avvertito Gerolamo che condivide pienamente la tua prudenza. Non temere, saranno piacevoli conversari, i cuochi stanno lavorando da questa mattina ed un liutaio di Cannetolo, la cui fama mi era nota da tempo, ci sta attendendo nella sala da pranzo. Alla corte francese, deve essere riferito che il conte di Fontanellato non è secondo a nessuno in materia di raffinatezze e di savoir vivre».

    Mentre parlavano, Galeazzo si toglieva gli abiti da viaggio e cominciava ad indossare quelli per la cena, pronti accanto al letto, senza aiuto. Quando i signori erano soli in camera, per ordine della contessa, la servitù non aveva il permesso di entrare, a meno che non fosse espressamente chiamata.

    Galeazzo sorrise alla moglie. Era una perfetta dama di corte, educata secondo lo stile dei Gonzaga di Mantova addolcito dal culto per l’arte e dalla raffinatezza della madre Francesca Fieschi. Era inoltre di grande bellezza, come se le tare del ramo di Mantova fossero state annientate dai canti dei poeti e dei musici chiamati alla corte di Sabbioneta.

    Girolamo, fratello di Gian Galeazzo, stava discutendo animatamente con l’ambasciatore del re francese.

    Alle orecchie del conte e della moglie, le parole arrivavano smozzicate, ma abbastanza chiare da suscitare un lampo malizioso negli occhi di Paola che sorrideva divertita dalla strana situazione che si era venuta creando. Seduto a tavola, Girolamo parlava un francese concitato e quasi senza interruzioni all’inviato di Francesco I che, a sua volta, rispondeva in un italiano quasi perfetto, a parte il marcato accento parigino, intercalato da lunghe frasi in latino.

    Le signore presenti, la moglie di Girolamo, Caterina Pallavicino e la giovanissima sorella di Paola, Ippolita, osservavano in silenzio la scena, mentre Paola si avvicinava ai due ospiti immersi nella discussione, riuscendo finalmente a captare il senso delle loro parole.

    «Signori – intervenne – è evidente che l’arte della guerra si addice più agli uomini di spada che non ai diplomatici. Era forse inevitabile che Parma cadesse nelle mani degli imperiali, ma adesso è tempo di pensare alla joie de vivre. Il conte Sanvitale ha rischiato di passare la notte fuori dalla Rocca e quasi per miracolo è riuscito a raggiungerci. Propongo di unire i festeggiamenti per l’arrivo dell’inviato di Sua Maestà il re di Francia, del nostro amato cugino Conte di Sala e della consorte Caterina, nonché della mia cara sorella Ippolita, al fortunato ritorno a casa del mio consorte».

    L’ambasciatore francese si alzò con un leggero inchino, Gian Galeazzo si inchinò davanti alle dame presenti, abbassò rispettosamente il capo davanti al messo di Francesco I e infine abbracciò con calore il cugino.

    Alla fine del pranzò, l’ambasciatore di Francia si alzò e prese solennemente la parola:

    «Signore- disse rivolgendosi al conte – ho l’onore di porgervi il saluto del mio re e, ben conoscendo la fedeltà alla Casa di Francia del nobile Girolamo Sanvitale conte di Sala, alla presenza sua e delle gentili dame qua convenute, vi consegno l’alta onorificenza di Chevalier de l’Ordre de Saint Michel. Sua Maestà il re si riserva, come la tradizione esige, di cingere al vostro collo il collare dell’Ordine, cerimonia che ci auguriamo avvenga al più presto. Nel frattempo, vi consegno l’attestato scritto da Sua Maestà il re di suo pugno, chiuso col sigillo regale e la grande medaglia d’oro con il simbolo dell’Ordine, l’Arcangelo Gabriele che sconfigge il drago, inciso su un lato. Sarà vostro compito, signor conte, incidere l’altra faccia della medaglia con un simbolo di vostro gradimento, ma pur sempre conforme allo spirito dell’Ordine al quale, d’ora in avanti, la signoria vostra avrà l’onore di appartenere».

    Gian Galeazzo sorrise e si inchinò nuovamente davanti all’inviato del re di Francia.

    «Signor Ambasciatore – rispose in francese – mai sorpresa potrebbe essere più gradita e per di più offerta alla presenza delle persone che più amo. Nonostante io sia soldato e uomo aduso alla rudezza delle armi, riesco a stento a dominare la mia commozione. Conosco le regole dell’Ordine al quale già mio padre il Conte Jacopo Antonio ebbe l’onore di appartenere. Cercherò di esserne degno in ossequio al re e con la stessa fedeltà agli ideali che da sempre hanno guidato le scelte della mia famiglia. Questa sera stessa scriverò una lettera di ringraziamento a Sua Maestà il re di Francia che voi stesso, ambasciatore, avrete la cortesia di fargli pervenire».

    «Grazie, conte, ma considerate che nella mattinata di domani dovrò recarmi a Parma, poi proseguirò per Parigi, dopo una breve sosta a Milano. Sua Maestà il re mi ha consegnato un messaggio per il governatore che debbo trasmettergli al più presto. Forse voi conosce personalmente il signor capitano Guicciardini?».

    «Sì, ambasciatore, ho questo privilegio. Oggi ero appunto andato a Parma per salutarlo, ma il governatore si era dovuto assentare all’improvviso. Spero che voi abbiate maggiore fortuna».

    «Dicono sia un gran signore» riprese il francese, lisciandosi i lunghi baffi neri arricciati con cura.

    «Lo è, infatti, e forse non avrete dimenticato la lealtà e il coraggio dimostrati nella città di Reggio, quando salvò la vita al signor Scudo, fratello del Conte de Lautrec Odet de Foix, comandante dell’esercito francese».

    «Il maresciallo di Francia che voi, conte, aveste il coraggio di ospitare a Fontanellato dopo l’esecuzione di Manfredo Pallavicino, n’est-ce pas?».

    «Lo ritenni mio dovere. Vous comprenez, monsieur, dopo che aveva fatto squartare in pubblico il marchese Pallavicino, la vita del signor maresciallo in queste terre non era più molto sicura».

    L’ambasciatore preferì ignorare la crudezza delle parole del Sanvitale.

    Borgo delle Asse

    Il Parmigianino guardò sorridendo il cavallo irrequieto del Santo Vitale.

    Era primavera, tutto rifioriva, anche il sorriso in quella sua città così fiera e così devastata dalla avidità insaziabile dei potenti che volevano toglierle tutto senza darle niente in cambio.

    Ma Parma risorgeva sempre.

    Parma esisterà fino a quando la bellezza avrà vita. È la bellezza, l’anima immortale degli uomini e delle città pensava il Parmigianino, invaso dalla gioia indomabile della nuova stagione. Gli succedeva sempre così, a lui nato d’inverno, ogni volta che l’inverno finiva.

    Il San Giovanni distava pochi passi dal Borgo delle Asse, attiguo al maestoso Convento di San Paolo, il geloso custode delle meravigliose pitture del maestro da Correggio e della bellezza della badessa Giovanna.

    La bellezza non dovrebbe essere venire nascosta mai – meditava Francesco – La bellezza è dono di Dio e se la bellezza è peccato, allora il primo peccatore è il Signor nostro che l’ha creata.

    Ma il cadavere del frate Savonarola, distruttore dell’arte, era stato bruciato in Firenze soltanto ventiquattro anni prima e adesso l’olandese Florenz, divenuto papa da poco, si scagliava contro ogni espressione di bellezza, confortato dalle idee del suo connazionale Erasmo.

    «Francesco!» la voce squillante gli arrivò improvvisa dal portone attiguo alla sua casa e lo colse di sorpresa. Immerso nelle sue meditazioni, non si era accorto di essere già arrivato alla meta.

    «Laura! – sorrise il Parmigianino – Laura, quale gioia grandissima rivederti!».

    «Francesco – continuò la ragazza – sai che ti sto aspettando da oltre un’ora?».

    «Sono rimasto in San Giovanni, ho dipinto la luce della primavera».

    «Infatti, è primavera e tu dovresti dipingere me».

    «Sì – promise il pittore – sì, un giorno dipingerò anche il tuo volto».

    «Tornerai in San Giovanni anche domani?».

    «Certamente. Debbo ancora finire di saldare il mio debito con lo zio Pier Ilario che prestò a mio fratello Giovanni e a me i soldi per la dote di nostra sorella Ginevra. Debbo lavorare, è vero, ma dipingere è anche la mia vita, davvero non potrei vivere senza i miei pennelli».

    «Adesso vai, corri in casa, prendi il tuo liuto, stasera dobbiamo cantare e ballare. Altri amici verranno nel cortile della Pelota, corri, questa sera ti voglio tutto per me».

    Francesco la strinse a sé e sentì che il suo corpo fremeva, come scosso dal vento della sera.

    «Quanta fretta, non mi dai il tempo di cenare?».

    «Sì, ma affrettati. E, Francesco...».

    «Sì?».

    «Guardati da quel Gerolamo, quel Bedoli che ti segue sempre. Non mi piace».

    «È solo un apprendista pittore, lavora nella bottega dei miei zii. Cosa non ti piace di lui?».

    Che strano – pensò – strano davvero che per la seconda volta in una sola giornata, mi si metta in guardia da Gerolamo.

    Salì in casa di corsa, vide la grande tavola apparecchiata, gli zii ed i cugini festosi. Sembrava una serata di festa per i nuovi incarichi che in famiglia stavano arrivando da ogni parte e tutto induceva alla gioia. La cena era pronta.

    «Francesco, finalmente! Temevamo di dover cominciare a pranzare senza di te» esclamò lo zio Michele con un sospiro di sollievo. Fra tutti, era quello che più Francesco amava, quello che gli faceva dimenticare la sua condizione di orfano, rimasto senza genitori all’età di due anni e, da allora, aggrappato ad una sola certezza, la sua vocazione alla bellezza, la sua arte.

    Era bello tornare a casa, tra quelle mura che amava da sempre, che lo proteggevano dalle angosce improvvise, dalla solitudine sempre in agguato. La sua parte era stata ipotecata a garanzia del prestito accordato da Pier Ilario, ma presto avrebbe saldato tutto e forse avrebbe potuto sposare Laura e dividere con lei il calore della sua casa.

    «Ieri è venuto il conte Sanvitale di Fontanellato ad ammirare gli affreschi dell’Allegri. Ne sembrava molto colpito. Lo accompagnava il maestro che gli illustrava ogni pittura. Mi è parso commosso, cosa strana per un uomo di spada. Si è soffermato anche davanti al mio San Vitale, mi ha promesso di tornare» annunciò con orgoglio.

    «Il conte Sanvitale, il signore di Fontanellato?».

    Gerolamo Bedoli, rimasto fino a quel momento in silenzio, alzò la testa dal piatto e fissò Francesco con aria sorpresa.

    «Sì, tu lo conosci?» chiese Francesco.

    «Soltanto di fama, soltanto di fama. Corre voce che abbia una moglie bellissima».

    «Sì – intervenne lo zio Michele – Paola Gonzaga dei duchi di Sabbioneta».

    «Ho sentito strane voci su una disgrazia accaduta lo scorso anno nella Rocca di Fontanellato» continuò Girolamo.

    «Una disgrazia?» si incuriosì Francesco

    Il rumore del battente sul portone di casa interruppe la conversazione.

    «È Laura – sorrise Francesco – le ho promesso di suonare il liuto nel cortile della Pelota. Debbo andare, vuoi venire con noi, Gerolamo?».

    «No – rispose corrucciato il Bedoli – domani debbo alzarmi presto. Buona notte».

    Francesco entrò nella sua camera, prese il suo liuto e corse a precipizio sulla strada. Laura lo stava aspettando impaziente. Si presero per mano e raggiunsero di corsa la grande piazza dove i ragazzi di Parma erano soliti giocare e danzare nelle sere di primavera.

    «È arrivato Francesco – gridarono in coro non appena lo ebbero scorto – È arrivato Francesco col suo liuto! Finalmente potremo danzare».

    «Cosa stai suonando?» chiese Laura interrompendo la danza e ancora tutta accaldata.

    «Una ballata, l’ho inventata questa sera per te».

    «È bellissima! Adesso voglio danzare con te alla sua musica».

    «È impossibile, soltanto io posso suonarla».

    «E per me è impossibile danzare senza di te, torniamo a casa».

    Si avviarono verso Borgo delle Asse in silenzio, ma non appena ebbero superato i cancelli del San Paolo, Francesco si fermò.

    «Sei troppo bella, Laura. Non posso lasciarti andare via così, non potrei dormire».

    Accanto al portone sempre chiuso che immetteva nell’immenso giardino delle monache, c’era una lieve rientranza, completamente nascosta dalle foglie degli alberi che si alzavano all’interno e dall’edera che si estendeva fino a sfiorare la casa dei Mazzola. E lì, in quella che sembrava una nicchia, Francesco spinse delicatamente Laura, appoggiò il suo liuto contro il muro del convento, sollevò le gonne leggere della ragazza e in silenzio fecero l’amore.

    In San Giovanni

    Francesco entrò in San Giovanni quando il sole era già alto e si mise al lavoro.

    Aveva bisogno di danaro, doveva sanare l’ultima parte del debito con lo zio per cancellare definitivamente l’ipoteca sulla casa, voleva sposare Laura al più presto, farsi una famiglia ed essere felice, come il maestro Antonio Lieto, Allegri di nome e di fatto.

    Guardò la cupola con la morte dell’Evangelista così solenne e così lieta e che tanto aveva colpito il Sanvitale e pensò che in nessuna altra chiesa gli era capitato ancora di vedere dipinti come quelli, dove la vita e la morte si immedesimavano tra di loro, quasi a confondersi l’una con l’altra, ma dove alla fine la morte diventava vita.

    Mentre pensava, dipingeva, dava gli ultimi tocchi a quella parte del sottarco che gli era stata affidata, lieto di quel soffio di vita che sembrava uscire dal suo pennello.

    Al primo calare del sole, scese a terra ed esaminò con occhio critico il suo Martirio di Sant’Agata, il San Nicola da Bari, poi ritornò a quel piccolo coniglio bianco che sporgeva il musetto curioso da un cesto fiorito, così morbido che ogni tentazione di accarezzarlo sarebbe stata invincibile, se mai fosse stato dipinto più in basso, a portata di mano dei fedeli del San Giovanni.

    Quella sera, Francesco era allegro e pieno d’amore.

    Superò di corsa il tratto di strada che unisce il San Giovanni al Duomo, si arrestò in contemplazione della luce del tramonto sui marmi rosa del Battistero, sulla facciata superba del Duomo, orgoglio della sua città, come faceva ogni sera e in ogni stagione, poi riprese la sua corsa attraverso i vicoli stretti tra le case, fino ai muri severi del monastero, fino alla sua casa. E sempre di corsa salì per le scale, mangiò nella sala da pranzo con gli zii, la piccola Caterina, Gerolamo che ormai aveva deciso di vivere con loro, poi salutò tutti e si alzò da tavola.

    «Dove vai così di fretta?» chiese Gerolamo pur senza averne il diritto, riservato da sempre ai membri più anziani della famiglia, ma che il cugino in certo modo rivendicava per avere accompagnato il Parmigianino a Viadana e salvandolo dalla guerra.

    Francesco non gli rispose.

    «Dove va?» chiese lo zio Michele a Girolamo

    «E chi lo sa? – rispose con aria maliziosa il cugino – Sono forse il custode di Francesco?».

    Sono forse il custode di mio fratello? La citazione biblica attraversò per un attimo la mente di Francesco. Vicino al portone, quasi nascosta nel buio, Laura lo aspettava.

    La prese per mano, si avviarono in silenzio verso il loro anfratto nel muro di cinta del monastero e si amarono.

    Erano passati pochi minuti, quando sentirono scricchiolare dei passi sulle assi che attraversavano la strada, sistemate una accanto all’altra, vicino al grande canale che costeggiava un lato del borgo. C’era qualcuno che andava avanti e indietro sul lato opposto all’angolo del muro del convento, arrivava fino all’angolo del caseggiato poi ritornava, con meticolosa pazienza, senza fermarsi.

    «Francesco!» dalla figura scura, avvolta in un mantello nero, uscì ripetutamente il richiamo, a voce bassa prima, poi più alta, più distinta. Francesco riconobbe la voce del cugino. Chiuse con la mano la bocca di Laura che stava per dire qualcosa e tutti e due rimasero ammutoliti, protetti dal fogliame e dalla notte.

    Finalmente Gerolamo desistette, lanciò un’occhiata furtiva verso il vicolo e ritornò a casa.

    Soltanto quando sentirono il secco rumore del portone che si rinchiudeva alle spalle del cugino, Francesco tolse la mano dalla bocca di Laura.

    «Cosa voleva?» chiese alla fine Laura.

    «Non so, da qualche giorno mi segue ovunque, perfino in San Giovanni. Il Rondani lo ha visto parlottare con un superiore degli agostiniani e mi ha consigliato di guardarmi da lui, non capisco bene il perché. Durante la guerra dello scorso anno, gli zii gli chiesero di accompagnarmi a Sarzana. Fu in quel periodo che dipinsi il San Francesco che riceve le stimmate e lo Sposalizio di Santa Caterina».

    «Lo so – lo interruppe Laura – sono andata a vedere i dipinti con mio fratello. Mi sembra che santa Caterina rassomigli un poco a tua sorella Ginevra».

    «Sì, infatti era a lei che pensavo. Hai viso come il piccolo Gesù è attratto dalla santa?».

    «Sì, vuoi dire che la sposa è più importante della madre?».

    «Non so, non saprei. Mia madre è morta prima che io potessi conoscerla e una moglie, sai, non l’ho ancora avuta».

    Laura gli strinse la mano

    «Debbo tornare a casa – disse – io ho una madre piuttosto severa».

    Si allontanarono l’uno dall’altra, con la tristezza che accompagna sempre ogni separazione, pur breve che sia.

    Francesco salì silenziosamente le scale, tentò di raggiungere la sua camera senza farsi notare e finse di ignorare la lanterna ancora accesa nella grande sala da pranzo dove tutta la famiglia era solita riunirsi ogni giorno.

    «Francesco!» la voce dello zio Pier Ilario gli arrivò

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