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L’ultima rosa di aprile – II ed.: Simonetta Cattaneo Vespucci, la Venere del Botticelli
L’ultima rosa di aprile – II ed.: Simonetta Cattaneo Vespucci, la Venere del Botticelli
L’ultima rosa di aprile – II ed.: Simonetta Cattaneo Vespucci, la Venere del Botticelli
E-book194 pagine2 ore

L’ultima rosa di aprile – II ed.: Simonetta Cattaneo Vespucci, la Venere del Botticelli

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Info su questo ebook

Simonetta Cattaneo, Musa di Botticelli che la immortalò nella sua Venere, fu il simbolo della bellezza rinascimentale. Se però tutti conoscono, grazie al genio del pittore fiorentino, le sue sembianze, poche sono le fonti storiche a cui attingere per tratteggiarne il profilo.
Andò in sposa a sedici anni al nobile Marco Vespucci, che ben presto perse interesse verso di lei, segnò un’epoca e una corte, quella della prima signoria d’Italia: Firenze. La sua grazia, la sua volontà a ribellarsi a un matrimonio infelice, la sua natura anticonformista le conquistarono l’ammirazione di Lorenzo il Magnifico che la definì la sans par e l’amore di Giuliano de’ Medici, ma le attirarono anche l’antipatia delle dame fiorentine sì come la sua personalità inquieta incantò poeti e artisti. Fu al centro di intrighi, scandali, alleanze strategiche; oggetto e soggetto di passioni divoranti e di espressioni d’amore cortese. Morì giovanissima a soli ventitré anni forse per tisi o forse vittima di avvelenamento. Ed entrò nel mito, lei che in vita non aveva mai cercato la fama.
Simona Bertocchi, in perfetto equilibrio tra Storia e narrazione, ne traccia una sorta di biografia lirica dove misteri e colpi di scena si susseguono al ritmo di una danza rinascimentale in cui si muovono le tre anime del racconto: la splendida Simonetta, il giovane e colto Giuliano, il genio artistico di Botticelli.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2022
ISBN9791254570296
L’ultima rosa di aprile – II ed.: Simonetta Cattaneo Vespucci, la Venere del Botticelli

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    L’ultima rosa di aprile – II ed. - Simona Bertocchi

    Prologo

    Ero l’essenza della bellezza in un’epoca in cui la bellezza era l’essenza di tutto, ero il tormento dei Medici, l’ossessione di Botticelli, la gelosia delle nobildonne, lo sguardo gentile che illuminò la allora già splendente Firenze. Il mio volto compariva ovunque, ero icona di un’era, cantata dai poeti, Musa degli artisti, Venere ritrovata. Ero Simonetta Cattaneo Vespucci, la sans par , come mi definì il Magnifico.

    Sono morta giovane, troppo giovane, dicono per tisi o è stato il veleno a uccidermi?

    Un fiore reciso dal vento, strappato alla terra che lo nutrì per poco tempo.

    Poco si sa della mia vera storia e per questo le leggende sul mio conto sono proliferate.

    Su di me e sulla più grande signoria d’Italia.

    1

    L’Arno si tinse dei colori del tramonto in un’esplosione di rosso e di arancio, nelle sue acque possenti galleggiavano le tante storie mosse da un vento nuovo, il vento della Rinascita .

    Camminando con la solita lentezza, il poeta Agnolo Poliziano assorbì con lo sguardo quell’immagine, ne trattenne l’attimo: le grida delle donne chine a lavare i panni, i cavalli poco lontano ad abbeverarsi, i pastori con le loro pecore.

    La Firenze laurenziana stupiva per l’imponente architettura e il trionfo d’arte che la rendeva unica agli occhi di chi la osservava. Brunelleschi, Donatello, Masaccio furono tra gli artisti che avevano dato alla città il suo nuovo volto, quello che Poliziano ammirava nella sua passeggiata.

    L’aria tiepida di aprile e i colori radiosi di un’esplosa primavera avvolgevano le forme floride della città che tutti chiamavano la Dominante.

    Si andava incontro al periodo dei festeggiamenti per celebrare la bella stagione con continui banchetti nei grandiosi palazzi e relativo sfoggio di faraoniche scenografie. L’oligarchia fiorentina si sfidava per vincere in prestigio e ricchezza.

    Venezia era stata battuta, l’alleanza con il ducato di Milano, che da quando era subentrato Galeazzo Maria Sforza si era inasprita, sembrava ora migliorata, così come i legami con la Chiesa. Lorenzo di Piero de’ Medici, pur giovanissimo, fu abile a gestire con diplomazia e ordine i rapporti con gli altri stati, una dote che Cosimo il Vecchio, suo nonno, gli aveva trasmesso.

    Era decisamente un buon momento per Firenze, nonostante l’equilibrio instabile causato da guerre e armistizi, alleati e nemici che cambiavano volto continuamente, la città era ancora il simbolo della migliore signoria d’Italia e i Medici erano tornati dall’esilio più forti di prima.

    Gruppi di soldati a cavallo in scintillanti armature sfrecciavano sul Lungarno accanto ai mezzi che trasportavano i nobili o i cardinali e spesso tagliavano la strada con voluta arroganza agli artisti che camminavano carichi di progetti di carta sotto il braccio.

    La nuova città era preparata alla guerra ma impegnata a edificare la pace.

    Osservando col naso per aria, totalmente rapito dalla maestosità della Cupola, Poliziano si ritrovò a mormorare una frase dell’architetto e umanista Leon Battista Alberti: Structura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani.

    Quando giunse sul ponte Vecchio, il giovane poeta fu travolto dal vociare assordante e dal rumore degli zoccoli dei cavalli sul tracciato. I beccai, macellai rozzi e litigiosi, caricavano sulle spalle enormi pezzi di carne gocciolanti, li trasportavano, rossi in volto per lo sforzo, fino alle botteghe e poi gettavano gli scarti nella corrente del fiume. Quei grezzi mercanti di carne, che mandavano avanti un commercio redditizio, non facevano parte delle Arti Maggiori, eppure possedevano un consiglio di venticinque soci con norme e sanzioni molto rigide.

    Negli angoli più nascosti i giocatori d’azzardo sfogavano la loro personale arte; con mani velocissime facevano girare i dadi roteando lo sguardo e urlando scioglilingua incomprensibili ai malcapitati. Il gioco d’azzardo era proibito, le condanne erano esemplari, terribili punizioni avvenivano per molto meno: erano sufficienti alcuni libri, la lettura di opere censurate o una smodata vanità per finire male.

    I predicatori, col volto coperto da ampi cappucci, parlavano con tono grave e attiravano piccole folle con la loro mimica teatrale e la voce impostata; in pochi comprendevano i messaggi di redenzione sotto forma di lunghe prediche, i dialetti tra una regione e l’altra erano vere e proprie lingue straniere di difficile comprensione.

    Poliziano si fermò scettico ad ascoltare i monologhi dei moralizzatori mossi dal fanatismo tra il divino e il demoniaco, ne concluse profonde considerazioni e pensò che potevano essere nuovi argomenti per una discussione in uno dei salotti dei Medici ma era tardi… terribilmente tardi.

    Avrebbe voluto ordinare un bel pezzo di carne evitando altre spese, le sue finanze non gli permettevano di più, ma non vi fu tempo, non voleva certo far scoppiare l’ira del principe!

    Affrettò il passo diretto a Palazzo de’ Medici dove Lorenzo aveva chiesto di incontrarlo insieme ai suoi uomini di fiducia e al fratello Giuliano.

    Agnolo Poliziano, che tutti conoscevano come Agnolo da Montepulciano, era giunto a Firenze nel 1469 e in poco tempo era diventato una figura importante per i Medici. Con la protezione di Lorenzo, il giovane poeta si era dedicato totalmente agli studi umanisti evitando con attenzione l’impervio sentiero della politica. Adesso, a soli sedici anni, aveva iniziato la traduzione dell’ Iliade di Omero dal greco al latino. Lorenzo non se ne separava quasi mai e ne fece presto il suo segretario ammettendolo nella cancelleria privata.

    Al tramonto, con la luce velata d’oro, il palazzo di via della Larga, voluto da Cosimo il Vecchio, splendeva della potenza di una fortezza unita all’eleganza di una dimora signorile. Michelozzo l’aveva progettata proprio con l’intento di dare quell’effetto a chiunque vi si trovasse al cospetto.

    La facciata in bugnato, la pesante porta, gli elaborati cornicioni e lo stemma dei Medici infondevano timore e rispetto, eppure, all’interno il palazzo era accogliente, luminoso, vestito di oggetti lussuosi e opere d’arte inestimabili.

    L’umanista aveva quasi raggiunto il portone d’ingresso, quando si bloccò improvvisamente notando qualcuno uscire come un ladro da una porta secondaria. Era una persona di media statura avvolta da un ampio mantello color amaranto.

    Poliziano fece un passo indietro per nascondersi e dall’angolo cercò di mettere a fuoco l’estraneo. Non vi erano dubbi che fosse una donna: si intravedeva l’ampia gonna di seta. La sconosciuta si sistemò il bavero del mantello lasciando scivolare sulle spalle ciocche di riccioli biondi, poi si guardò intorno impaurita voltando più volte il viso arrossato e il poeta finalmente vide i suoi occhi grigi smarriti. La riconobbe.

    Perché mai Simonetta Cattaneo avrebbe dovuto comportarsi come una clandestina in quel palazzo dove era sempre entrata a testa alta?

    Perché recarvisi all’ora del vespro, coperta da un lungo mantello?

    La fanciulla alzò lo sguardo verso una finestra da dove apparve il volto dalla mandibola pronunciata e il naso affilato di Giuliano. Il principe, anch’egli rosso in faccia e con lo sguardo fisso su di lei, come se nient’altro vi fosse intorno, le mandò un bacio prima con lo sguardo e poi portandosi una mano alle labbra.

    Allora era vero quanto si diceva in città della liaison tra Giuliano de’ Medici e Simonetta Cattaneo Vespucci, pensò il Poliziano.

    Poliziano sperò di trovare il momento giusto per parlare da solo con il principe Giuliano e fargli confessare il suo amore per la bella Cattana.

    Giunta a Firenze un anno prima come novella sposa di Marco Vespucci, Simonetta Cattaneo emanava una struggente bellezza e infinita grazia, pura ispirazione per gli artisti e i poeti. I cittadini di Firenze erano curiosi di incontrarla, intrigati dalla fama che la precedeva, si diceva anche che eventi misteriosi si verificavano in sua presenza e ciò accresceva il suo fascino.

    I passi di Poliziano rimbombarono nel cortile circondato da file di colonne classiche, l’ultimo sole illuminò il candido marmo creando un affascinante gioco di bagliori. Salì al primo piano e attraversò lucidi pavimenti intarsiati, doveva affrettarsi ma non riuscì a tirare dritto senza soffermarsi davanti alla bellezza dell’affresco della cappella dei Magi: il capolavoro del fiorentino Benozzo Gozzoli allievo del Beato Angelico.

    La storia dei Medici, il loro potere, Firenze tutta con i suoi alleati e con i suoi nemici gli furono davanti. Le figure affrescate su tre pareti sembravano staccarsi dal muro, si muovevano nell’oro scintillante, tra i colori accesi e i decori bizantini, circondati dai fiori di arancio, in una flora rigogliosa con animali esotici.

    Cosimo, Piero e Lorenzo, forse troppo idealizzati dall’artista, lo osservavano fieri ed eleganti sui loro cavalli, affiancati da Galeazzo Maria Sforza e da Sigismondo Pandolfo Malatesta, a cui facevano seguito altri personaggi come i nemici Dietisalvi Neroni e Luca Pitti. Partecipavano al corteo di Papa Pio II Piccolomini i filosofi neoplatonici, uomini di scienza e umanisti come Marisilio Ficino, i fratelli Pulci e Leon Battista Alberti.

    Ai tempi di Cosimo la cappella non era ancora il capolavoro creato da Gozzoli, era solo una cappella privata decorosa e intima dove ogni giorno un ecclesiastico celebrava la messa; il nonno di Lorenzo era riuscito a ottenere dal Papa un privilegio raro: un altare consacrato in una dimora privata.

    Riflettendo con un sorriso che gli riempì tutta la faccia sulla lungimiranza di Cosimo il Vecchio, a cui i Medici dovevano la loro reputazione di prima signoria d’Italia, Poliziano entrò nel salone delle rappresentanze animato dal vociare dei consiglieri, li salutò con veemenza e prese posto accanto al superbo Marsilio Ficino.

    Il ruggito dei leoni nelle grandi gabbie in piazza della Signoria giunse fino al salone, quelle fiere rappresentavano i Medici, simbolo di forza e fedeltà e venivano liberate dalle loro prigioni in occasione delle parate o degli spettacoli più sanguinosi. Il verso feroce e inquietante dei felini aumentò la sensazione di tensione che già c’era: nessun servo o maestro di casa si aggirava nel palazzo, nessun nano, buffone o musicante allietava l’incontro, nessun dono fu consegnato agli invitati come erano soliti fare gli ospiti di casa. Gli uomini di Lorenzo si erano raccolti nella sala grande del primo piano lunga più di venti metri, il salone, fino a poco tempo prima, faceva parte dell’appartamento di Piero Medici. Il soffitto a cassettoni, i pannelli di legno intarsiato e gli innumerevoli quadri alle pareti di artisti come Antonio del Pollaiuolo e Piero del Castagno ne facevano uno dei luoghi della casa tra i più belli.

    Agnolo da Montepulciano capì che era difficile trovare un momento di intimità per chiacchierare amabilmente con Giuliano, la riunione si annunciò da subito molto più formale e severa degli ultimi incontri richiesti dal principe in cui, alle gravi decisioni da prendere, si insinuava un clima più leggero fatto di grasse risate e piacevoli conversazioni.

    Nel grande salone del palazzo si erano già accomodati i più stretti consiglieri, i partigiani del principe. Tommaso Soderini, zio di Lorenzo e principale consigliere; Francesco Sassetti, che dal 1463 aveva in mano gli affari dei Medici; Piero Vespucci, ambasciatore fiorentino alla corte aragonese; l’ambasciatore milanese Nicodemo Trachedini; il ricco mercante Gismondo Della Stufa; i cognati Guglielmo Pazzi e Bernardo Rucellai; un piccolo gruppo di umanisti e filosofi che da qualche tempo erano la sua ombra, e avevano risposto subito alla chiamata senza sapere cosa aspettarsi poiché ogni giorno vi erano provvedimenti e pene da decidere nel Consiglio de’ Cento. Molti di loro, per accorrere a Palazzo de’ Medici, avevano lasciato a metà tavole imbandite o letti sfatti dove giaceva qualche giovanissima cortigiana obbligata a soddisfare le loro voglie brutali con gli occhi sbarrati e l’anima sfregiata.

    Ho voluto incontrarvi perché il vostro sostegno è la mia forza per governare come mi ha insegnato mio nonno Cosimo, disse Lorenzo di Piero de’ Medici camminando per il salone con le mani incrociate dietro la schiena e il naso a tagliare l’aria. Aveva una voce roca e nasale ma sapeva usare le parole e lo dimostrava in ogni occasione, segno che il suo maestro di retorica aveva fatto un buon lavoro. Studiava sempre come cominciare i suoi discorsi e usava termini che esaltavano gli animi, anche le pause e gli atteggiamenti erano calcolati, esternava i pensieri più profondi a voce alta e passava da un argomento all’altro sottolineando i concetti con enfasi.

    I nemici dei Medici sono soprattutto tra le persone più insospettabili, da quando mio padre chiese indietro i debiti a lunga scadenza, già posti da Cosimo, molti cittadini ci hanno voltato le spalle, alcuni son passati dalla parte dei rivali e dopo il matrimonio con Clarice la mia posizione si è ulteriormente aggravata, disse saltando ogni preambolo, mi è stata data in moglie e non potevo redimermi, voi lo capite vero?

    Possibile che la questione di quella riunione fosse solo il matrimonio con Clarice Orsini, la forestiera? si chiese Poliziano.

    Firenze non la ama, non voleva per il suo signore una sposa che non fosse fiorentina, proprio ora che dopo anni di esilio i Medici sono tornati al potere, disse Luigi Pulci dal fondo della sala.

    Lo squattrinato poeta da anni frequentava la corte dei Medici, era sotto la protezione di Lucrezia Tornabuoni che lo aveva scoperto e aveva portato le sue opere sull’amor cortese e sulle avventure eroiche-cavalleresche nei salotti della Villa di Careggi. Pulci, per riconoscenza, dedicò alla madre di Lorenzo la sua opera Morgante, uno dei testi più letti nelle corti.

    Il Magnifico dovette proprio a Luigi Pulci la sua prima vocazione poetica e con slancio imitò lo stile e l’anima dei testi dell’amico. Da quando, però, la corte fiorentina era frequentata dal filosofo Marsilio Ficino e dal poeta Agnolo Poliziano, mentori della diffusione del neoplatonismo, Pulci non era più al centro della scena letteraria fiorentina e le discussioni con gli altri due umanisti divennero sempre più frequenti e violente.

    Donna Clarice fa parte di una delle più nobili famiglie, non solo romane, il nostro legame con lo Stato Pontificio deve essere solido, ricordiamoci che la nostra filiale medicea del Banco di Roma è la più redditizia, disse Giuliano con la sua solita pacata schiettezza. Migliorare i rapporti con la Chiesa, che con i Medici erano sempre stati tesi, era fondamentale per la sua carriera ecclesiastica. Era intenzionato a prendere la porpora cardinalizia nonostante la scarsa vocazione.

    Giove transita nella vostra casa, amato Lorenzo, riceverete presto l’energia per trovare il giusto percorso. La voce di Marsilio Ficino tuonò.

    Il suo ruolo ormai esercitava le più svariate dottrine, aveva un’alta preparazione filosofica e umanistica ma era anche l’astrologo dei Medici. Non vi era incontro sociale o

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