Il banchetto del Gattopardo
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Anteprima del libro
Il banchetto del Gattopardo - Elena Carcano
L’isola
Parafrasando Gesualdo Bufalino, scrittore ed affascinante affabulatore di storie siciliane, "bisogna essere intelligenti per venire in Sicilia".
Intelligenza intesa come qualità dell’anima, quella riferita non soltanto alla capacità di comprendere un paesaggio, ma anche un diverso sentire umano, una diversa cultura, una frontiera: l’accettazione dell’ineluttabile, la mescolanza, l’ambiguità, la contraddizione, la passionalità, la religiosità, in una parola il fascino dell’eccesso. Eccesso che è in effetti insito nel microcosmo siciliano, a cominciare dalle caratteristiche climatiche che si riverberano sul territorio, arso e pietroso nell’interno quanto rigoglioso e lucente sul litorale, capace di dolcezze odorose altrove inimmaginabili quando fioriscono la zagara o il gelsomino, come di asprezze severe nelle pietre dei muretti a secco che ricamano l’entroterra e stillano umana fatica.
Persino Garibaldi con i suoi Mille sembrò soggiacere a questa fascinazione, quando poche ore prima di prendere Palermo si affacciò dal passo di Gibilrossa sulla splendida conca d’oro
, come riporta uno stralcio della cronaca di uno storico inglese che rievocò l’impresa: "Fu un momento magico, che gettò il suo sortilegio su tutti. Il terreno era ancora fragrante degli ultimi fiori di primavera, e sotto di loro c’era lo spettacolo della pianura al tramonto, della città, del mare. (…) Ai piedi di Garibaldi, fra quel punto e la città, si stendeva un tappeto variegato di fogliame, con masse di grigio, di verde ulivo e di giallo-verde dei limoni, rotte da filari di aranci dalle foglie verde scuro. La Cattedrale e il Palazzo, il cuore della posizione nemica, svettavano nitidi sui tetti della città. (…) Ma come entrare? Palermo era come un pane, con la mollica morbida e la crosta dura".¹
In una terra dominata da tali contraddizioni l’uomo affina una sensibilità che sconfina nel trascendente: ogni siciliano, con malcelato orgoglio, dichiarerà di sentirsi superiore ai continentali – quindi, al resto del mondo.
Se ciò è vero per i siciliani oggi, possiamo senza timore affermare che lo fosse massimamente ieri, quando un mondo più di altri chiuso da confini naturali e mentali era refrattario ai cambiamenti, e l’orgoglio di appartenenza, ad ogni livello sociale, era un valore fondante della società.
Forse, date queste premesse, si può intuire qualcuno degli innumerevoli motivi che hanno decretato il successo di un romanzo fra i più rappresentativi della Sicilia, quel romanzo così dolorosamente evocativo da divenire universalmente comprensibile che è "Il Gattopardo".
¹ G. Trevelyan, "Garibaldi and the Thousand", Londra,1931.
Il Gattopardo
Il mirabile romanzo di Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa, venne concepito e redatto fra i primi mesi del 1955 e la primavera del 1957, pochi mesi prima della morte dell’autore. Egli era l’ultimo rappresentante di una antica e nobile famiglia palermitana che vantava grandi notabili del regno, santi e beati.
Come è riportato dalle parole del figlio adottivo nel suo "I luoghi del Gattopardo", l’idea di redigere un racconto sulle vicende del casato al momento dello sbarco dei Mille in Sicilia, covava in lui già da molto tempo. La vita del principe, nato nel 1896, era trascorsa a cavallo di un periodo storico che aveva visto i fasti della belle-époque dissolversi nella tragedia della prima guerra mondiale, preludio al completo disfacimento dell’assetto sociale europeo che si compirà con la fine del secondo conflitto. In particolare in Sicilia, l’aristocrazia, composta quasi esclusivamente di grande nobiltà terriera, si vide cancellata dalla società con l’estinguersi del latifondo e la conseguente impossibilità di mantenere le grandi case avite, ormai troppo onerose.
Lo straniamento doloroso del principe dovette riversarsi interamente nei ricordi, dal momento che i luoghi meravigliosi della sua infanzia e giovinezza erano irrimediabilmente perduti: abbandonati, caduti in rovina o peggio rasi al suolo dai bombardamenti come il fascinoso palazzo Lampedusa di Palermo nell’aprile del 1943. Dodici anni dopo quell’evento luttuoso, egli si dedicò alla stesura di quelle che immaginava essere "tre lunghe novelle collegate fra loro e che dovevano rievocare la grande epopea privata e al tempo stesso pubblica di un rappresentante dell’antica classe dominante, nei giorni della spedizione garibaldina in Sicilia. Dalle sue stesse parole apprendiamo che la figura del protagonista, il principe di Salina, (il Gattopardo, dalla figura del felino rampante dello stemma nobiliare) è l’avo dello scrittore:
È superfluo dirti che il principe di Salina è il principe di Lampedusa, Giulio Fabrizio mio bisnonno; ogni cosa è reale: la statura, la matematica, la falsa violenza, lo scetticismo, la moglie, la madre tedesca, il rifiuto di essere senatore".² Attraverso le parole del protagonista l’autore intende prospettare i motivi storici che porteranno, poco meno di un secolo dopo, alla fine dell’antico ordinamento sociale: la decadenza dei Gattopardi
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