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Le curiosità di Napoli
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Le curiosità di Napoli
E-book418 pagine5 ore

Le curiosità di Napoli

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Info su questo ebook

Luoghi, personaggi e avvenimenti impressi nella memoria e nel costume dei partenopei

Una Napoli riservata, misteriosa, affascinante dischiude i suoi intimi segreti. Come una donna dalla seducente bellezza, ci viene incontro ora severa, ora ammiccante, ci sussurra confidenze, ci racconta avventure di gioventù, amori passati, virtù violate, glorie raggiunte e successi conquistati. La città, così ricca di memorie storiche e di cronache intriganti, ci viene raccontata nei suoi aspetti più nascosti, dove protagonisti e comparse recitano la colorita commedia della loro vita. Sono nobili e popolani, artisti e dilettanti, uomini eccellenti e modesti, donne sante e amanti sfrenate, figure emblematiche che hanno fatto la storia di Napoli e ne hanno interpretato l’animo. Da Pasquariello a ’O Zingariello, da Enrico Caruso a Ferdinando Russo, da Matilde Serao a Maria Borsa (la cantante che inventò la “mossa”), da Enrico De Nicola a don Rafele Buttigliere, da Giuseppe Moscati a Monzù Arena. Tante le scene esilaranti, come quella che vede la calata dei futuristi innovatori e stravaganti, nemici dei maccheroni ma mangiatori di spaghetti, che si susseguono in un carosello variopinto e divertente. Camillo Albanese ricostruisce ogni luogo, personaggio e avvenimento fin nei particolari, perché l’insieme risulti il più vivo possibile; il testo è inoltre arricchito da foto, incisioni e disegni, spesso inediti.

Nobili e popolani, artisti e dilettanti, donne sante e amanti sfrenate, che hanno fatto la storia di Napoli e ne hanno interpretato l’animo

La casa di San Gennaro Petrarca a Napoli
La cappella della discordia
La torre delle prostitute
La taverna Florio
La vita musicale nella Napoli vicereale
I tre dispiaceri di Giambattista Vico
Il teatro San Carlo
Via Toledo
La prima ferrovia d’Italia
Storia insolita del Quarantotto
Donne e balconi nella Napoli di sempre
’O Zingariello
Giuseppe Verdi e la censura borbonica
Il napoletano d’America
Benedetto Croce nei ricordi
La tomba di Virgilio
Napoli tra malocchio e superstizione

e tanti altri aneddoti e curiosità dalla ricchissima storia di Napoli
Camillo Albanese
giornalista, è studioso della storia del Mezzogiorno e in particolare del Settecento e dell’Ottocento napoletano. Consigliere Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, collabora a vari quotidiani e periodici. È autore di numerose opere, tra cui Un regno perduto, Nessuno nasce imparato, Tanto pe’ pazzià, Cronache di una rivoluzione, Le più belle del reame, Un uomo di nome Benedetto (biografia di B. Croce), A proposito degli spropositi, La Chiesa che perdona e non comprende… i preti sposati e La Principessa Beduina (biografia di Elena d’Aosta). Con la Newton Compton ha pubblicato Storie della città di Napoli e Le curiosità di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2015
ISBN9788854187290
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    Anteprima del libro

    Le curiosità di Napoli - Camillo Albanese

    Marianna ’a Capa ’e Napole

    E così, come si vuole che chi abbia visto

    uno spettro non possa più ritrovare l’allegria,

    si potrebbe dire all’opposto che mio padre

    non poté mai essere del tutto infelice,

    perché il suo pensiero tornava sempre a Napoli.

    J. W. Goethe¹

    Una misteriosa testa di donna poggiata su un basamento di piperno è collocata in palazzo San Giacomo, nell’atrio, tra le due rampe che portano al piano superiore.

    Palazzo San Giacomo è oggi la sede del municipio e sorge nell’omonima piazza, che si allunga vasta, lievemente digradante verso il mare dove con giustificata arroganza si mostra altero il caratteristico cono del Vesuvio. Alle spalle il palazzo ha per sfondo la mirabile collina di San Martino con la bianca certosa e il Castel Sant’Elmo.

    Un tempo (1816) in quest’edificio Ferdinando IV di Borbone riunì le reali segreterie di stato e i diversi ministeri sparsi per la città, ma prima ancora in quel luogo sorgeva un ospedale, dedicato all’apostolo san Giacomo, che don Pedro de Toledo volle per curare gli infermi e i poveri che venivano dalla Spagna.

    La grande testa di marmo, che il popolo ha soprannominato "donna Marianna ’a Capa ’e Napole", si vuole che fosse la statua della sirena Partenope, la mitica fondatrice di Neapolis, che si trovava sulla collina denominata appunto Caponapoli dove c’era il sepolcro della Sirena; altri dicono che si trattasse dei resti della statua di Cibele (Rea), madre di Zeus.

    Le sue fattezze e in particolare l’acconciatura dei capelli hanno fatto dire agli esperti che si tratta di una statua greca eretta dov’è ora la chiesa di San Lorenzo Maggiore. Ci riferisce il Summonte² che un certo Alessandro di Miele trovò la statua abbandonata poco distante dalla sua abitazione, la fece mettere su una base di piperno e la collocò nei pressi della chiesa del Carmine, in piazza Mercato, di fronte alla chiesa di Sant’Eligio, in modo che dalla sua casa potesse vederla.

    01

    La testa di donna Marianna.

    Da quel privilegiato punto di osservazione, donna Marianna è stata testimone e partecipe dei più importanti avvenimenti storici della nostra città. Si è detto partecipe perché ogni evento rivoluzionario ha lasciato su di essa le tracce della violenza e del vandalismo. Di solito la povera Marianna perdeva il naso che, sedati i tumulti, veniva puntualmente rifatto, spesso da mani inesperte che davano a quel volto un aspetto ridicolo. In più gli improvvisati restauratori verniciavano la statua con soluzioni biancastre che cancellavano la patina del tempo, l’unica bellezza che essa potesse vantare.

    Alla fine dell’Ottocento la statua rimase ancora senza naso e gliene fu rifatto uno nuovo, che dovrebbe essere quello visibile oggi. Non è un capolavoro, ma tutto sommato può passare.

    Mi raccontava il vecchio giornalista Giovanni Artieri che un pomeriggio di settembre del 1954 si era recato in piazza Mercato insieme con Amedeo Maiuri e Augusto Cesareo per vedere quello che la guerra aveva lasciato. Fu per questi tre amici uno spettacolo desolante: dopo dieci anni dalla fine della guerra ancora macerie, ancora polvere avvolgevano l’arco di Sant’Eligio e la facciata gotica di San Giovanni a Mare. Poco distante, nel luogo in cui prima era collocata Marianna a Capa ’e Napole, restava solo il piedistallo, al quale era appoggiata una donna dalla bellezza selvaggia, due occhi neri fiammeggianti, una bocca dalla sensualità insaziabile, un corpo stupendo che ondeggiò lievemente alla vista dei tre uomini. Poi sbottò: «A chi cercate, a donna Marianna? Nun ce sta cchiù; s’a so’purtata stammatina. Mo ce sto io» (Chi cercate, donna Marianna? Non c’è più; l’hanno portata via stamattina. Ora ci sono io). La donna era consapevole di quanto stretta fosse la sua parentela con la dea trasferita quel giorno nell’atrio del municipio.

    1. Anche il padre di J. W. Goethe, Johann Kaspar, visitò Napoli e raccomandò al figlio di vedere prima altri paesi e poi l’Italia e Napoli, perché «una volta vista Napoli non si gode alcun altro luogo».

    2. G. A. Summonte, Historia della Città e Regno di Napoli, Napoli 1603-1648, p. 5.

    I napoletani e l’arte della guerra

    Ci si è spesso domandati se Napoli fosse stata celebrata più per le lettere o per le armi. Lasciamo sospeso l’interrogativo e occupiamoci del valore delle armi napoletane, a volte messo in dubbio e talora beffeggiato.

    Da Tito Livio a Svetonio, da Velleio Patercolo a Strabone, da Diodoro Siculo a Carlo Sigonio, da Polibio a Renato Flavio Vegezio, da Petrarca a Boccaccio, moltissimi autori ci testimoniano quanto grandi fossero il coraggio e la capacità di combattere dei napoletani.

    I giovani napoletani fin da fanciulli venivano educati all’esercizio fisico; anche quelli dei luoghi vicini venivano a Napoli per cimentarsi nell’arte della guerra. Assai celebrati furono in Napoli fin dal IV secolo a.C. «i giuochi Ginnici, Atletici e Gladiatori, gli Agoni, le Lotte e le Palestre, gli Efebi, Pancrazi ed altri»¹. La tradizione proseguì nella Napoli romana: i Ludi dedicati ad Augusto, come risulta da una epigrafe ritrovata presso Olimpia, prevedevano tre gare: ginniche, ippiche e musicali. Gli atleti, provenienti da tutto il Mediteraneo, venivano premiati con corone di spighe e con denari. Nerone stesso si recava a Napoli per assistere ai giochi di armi. Anche Boccaccio conferma che i nobili giovanetti venivano «da oltremontane regioni» ad imparare a Napoli l’arte della guerra; Petrarca ci ricorda i giochi galadiatori che, durante il regno di re Roberto e di suo figlio Carlo III d’Angiò, si tenevano in piazza Carbonara, «luogo di convegno degli uomini d’arme più famosi per valentia e coraggio». In quel luogo le sfide dei duellanti erano spinte fino all’ultimo sangue. Per poter comodamente assistere alle giostre e ai tornei, Carlo I d’Angiò si fece edificare un palazzo che fu poi donato da suo nipote Roberto a Landolfo Caracciolo, principe di Santobuono, per i servigi resi alla corona².

    I napoletani erano anche esperti navigatori e imbattibili guerrieri di mare. Ci racconta Polibio che furono i napoletani ad insegnare ai Romani «l’arte del navigare pria che combattuto avessero sul mare co’ Cartaginesi»³.

    Nel IV secolo Genserico, re dei Vandali, dopo aver preso Roma, Capua e parte della Campania tentò di conquistare Napoli, ma fu costretto a rinunciare all’impresa per l’eroica resistenza che incontrò. La stessa cosa accadde un secolo dopo ad Alboino, re dei Longobardi, che aveva occupato il Veneto e la Lombardia, ma non riuscì ad espugnare Napoli. I Saraceni, nel 788, mossero alla conquista di Napoli, allora governata dal duca Teofilatto, con un numeroso esercito. Dopo un’ostinata battaglia navale furono travolti. Il nemico perse 40.000 uomini e più di 50 delle loro navi furono bruciate.

    Nell’845 una flotta saracena, partita dall’Africa, giunse nelle acque di Miseno. Gli abitanti, presi di sorpresa, non riuscirono ad evitare la distruzione della loro città. Di lì gli invasori proseguirono per Roma, dove si dettero a devastare chiese e monasteri. Il duca di Napoli, Sergio, inviò allora un suo esercito, comandato da Guido di Spoleto, che mise in fuga i Saraceni fino a Gaeta. Qui l’intervento della flotta napoletana, guidata dal figlio del duca, Cesario, fu determinante per la vittoria. Tre anni dopo, i Saraceni ritornarono ad invadere Roma. I napoletani, guidati da Cesario, andarono in soccorso del papa Leone IV. La battaglia cruciale si svolse ad Ostia e fu definita «la più insigne vittoria dei Cristiani sui Musulmani prima di Lepanto»⁴. I tanti Saraceni, fatti prigionieri da Cesario, furono consegnati al papa, che utilizzò il prezzo del loro riscatto per riparare i danni che essi avevano arrecato alla città. L’evento fu di tale rilevanza che Raffaello volle raffigurarlo su una parete del Vaticano.

    E fu ancora l’esercito napoletano a mettere in scacco il potente Arrigo di Germania nel 1191: già vittorioso su fortissime città italiane, egli trovò solo in Napoli una resistenza tale da indurlo a rinunciare all’impresa.

    Si potrebbe continuare fino alla eroica resistenza di Gaeta tra il gennaio del 1860 al febbraio del ’61: erano rimasti ormai poco più di 12.000 uomini, privi di cibo e di acqua e con scarse munizioni; avevano visto morire i loro compagni e da ciò traevano forza per continuare a combattere e a morire.

    Il popolo napoletano è un popolo strano, l’iperbole gli è congeniale. Di fronte al nemico non si pone alternative: la vittoria è d’obbligo e la morte non lo ha mai spaventato. Il suo coraggio ed eroismo è stato così sintetizzato dal Celano: il popolo napoletano è fatto di uomini «robusti di corpo e vigorosi d’animo, ebbero fama di guerrieri eccellenti, gloriosi ed invitti»⁵.

    1. Straberne, libro 5, richiamato da C. Celano - G. B. Chiarini, Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli 1858 (ristampa anastatica, Napoli 2000), vol. II, tomo II, p. 477.

    2. Il palazzo fu abitato dal duca di Guisa durante la rivoluzione di Masaniello e poi dal generale francese Championet durante la Repubblica napoletana del 1799.

    3. Polibio, Storie, libro I, richiamato in Celano - Chiarini, Notizie del bello, cit., p. 479.

    4. M. Schipa, Storia del ducato napolitano, Napoli 1895, p. 73.

    5. Celano - Chiarini, Notizie del bello, cit., p. 477.

    La casa di san Gennaro

    Via San Gregorio Armeno¹, nel cuore della vecchia Neapolis greco-romana: tra i due decumani, al numero 41, sarebbe nato san Gennaro nel 272, dai nobili Stefano e Teonoria Amato.

    I genitori del nostro santo patrono si sarebbero trasferiti a Napoli, in via San Gregorio, non solo perché qui la cultura e le leggi erano più favorevoli ai patrizi, ma anche perché i cristiani erano meno perseguitati.

    Cosa esisteva in quell’epoca nel sito contrassegnato dal numero 41 non è dato sapere: vi è ancora una cripta dove sarebbe nato il santo, ma è certo che il palazzo non esisteva ancora e che fu costruito nel 1610 e divenne poi di proprietà della Accademia Ercolanense. Il fabbricato, che ora è vincolato dalla Soprintendenza ai Monumenti per il suo pregevole portale, conserva nel suo atrio una lapide commemorativa, fatta apporre dal barone Ruggiero Sancio di Sanseverino nel 1949.

    In questo luogo furono costruite da san Nostrano, quindicesimo vescovo di Napoli, delle terme ad esclusivo uso del popolo. Il vescovo sant’Agnello (chiamato dai napoletani Sant’Aniello) nel 680 qui eresse il primo ospedale cittadino e lo destinò ai malati più poveri.

    Di fronte al palazzo con il numero 41 c’è una piccola chiesa, che in origine era un tempio pagano costruito in onore di Augusto. Anche questa cappella è legata al santo patrono e detiene un primato: fu la prima chiesa eretta in onore di san Gennaro.

    La chiesa, che risente dell’incuria e degli oltraggi del tempo, fu ceduta alla Fondazione dei librai Gimbattista Vico e ora è in stato di abbandono. Sulla facciata esterna restano tracce di due bassorilievi che riproducono la liquefazione del sangue e una lapide in latino dettata nel 1908 da monsignor Gennaro Aspreno Galante. Poco più in basso nella piazzetta c’è un’altra piccola chiesa in onore del santo patrono, che alcuni dicono edificata per volere di Costantino. In origine si chiamava San Gennaro ad Diaconiam, perché era una di quelle chiese dove, nel III e nel IV secolo, i diaconi venivano inviati per svolgere la loro opera in soccorso dei poveri. Si chiamò poi San Gennaro all’Olmo perché davanti a quel tempio vi era un olmo sul quale i vincitori dei giochi gladiatori² andavano ad appendere le loro corone di alloro. In questa chiesa avrebbero trovato sepoltura i resti mortali di san Nostrano, che fu vescovo di Napoli dal 441 al 461. La circostanza non è da tutti condivisa: c’è chi afferma che il corpo del santo sia rimasto fino al IX secolo nelle catacombe di San Gaudioso alla Sanità, mentre il cranio sarebbe stato conservato fino al 945 nella chiesa di San Michele a piazza Dante per poi essere traslato nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo. Se e quando i resti del corpo di san Nostrano siano tornati nella chiesa di San Gennaro all’Olmo non è possibile affermare con certezza.

    1. Un tempo detta Augustale perché collegava la Curia Basilicae Augustinianae con il decumano inferiore e poi chiamata Nostriana dal vescovo di Napoli Nostriano.

    2. Giochi che si tenevano nella contrada Carbonara.

    ’O cap’ ’e casa

    Una volta il buon vecchio padre di famiglia a Napoli si chiamava "’o cap’e casa", un personaggio illustre e venerabile al quale si dovevano rispetto e obbedienza. Il termine venerabile può indurci a pensare che il rapporto con lui fosse distaccato, e invece no! Esso era confidenziale: a lui si ricorreva per consiglio, per risolvere le questioni più piccole come le più importanti, tra lui e ogni componente la famiglia c’era una relazione di complicità e di amicizia.

    Così era ed è considerato dai napoletani il loro santo patrono, san Gennaro, così lo chiamano in maniera affettuosa e bonaria. Quel bisogno, di cui parla Matilde Serao, quel bisogno ingenuo, tenero, profondo dei popoli cristiani di avere un amico nel cielo nelle cui mani mettere le sorti della propria città, a cui rivolgersi in caso di necessità e a cui spetta l’ultima parola in fatto di gradimento di nuovi governanti, è la massima espressione del sentimento religioso dei napoletani.

    Re, prìncipi e generali che sono entrati in Napoli, nel corso dei secoli, dopo aver vinto con la forza delle armi dovevano superare la prova più difficile, l’approvazione di san Gennaro. Senza di questa a nulla sarebbero valsi i mesi di assedio e le cruenti battaglie: a Napoli non avrebbero governato.

    Entrare nella casa di san Gennaro in via Duomo¹, passare in rassegna i principali omaggi resi a lui significa anche sbirciare nei grandi avvenimenti della storia della città e del reame e, dunque, appagare qualche curiosità.

    Ruggiero II il Normanno, fondatore del Regno, entrò a Napoli nel settembre del 1140 e la prima cosa che fece fu quella di presentarsi a san Gennaro. Le cronache non ci dicono se in quella occasione il santo fece il miracolo della liquefazione del sangue, ma a considerare le manifestazioni di giubilo che il popolo gli tributò all’uscita della cattedrale si deve presumere che il patrono avesse dato l’assenso.

    Nel 1305 Carlo II d’Angiò ordinò ai suoi orafi di corte Etienne Godefroy, Milet d’Auxerre, Guillaume de Verdelay di rivestire il busto di san Gennaro con una patina d’argento e di racchiudervi le reliquie del suo cranio². Il busto reliquiario è custodito nella cappella del santo e viene esposto in occasione del miracolo.

    Con il mantello di broccato, la corona sul capo e le insegne reali tra le mani, il 2 giugno 1442 Alfonso d’Aragona si presentò davanti all’altare maggiore del duomo dove erano esposte le ampolle contenenti il sangue di san Gennaro. Si inginocchiò davanti alle sacre reliquie e, poiché era cominciato il sacco della città, proclamò solennemente che «alla pena della vita non fosse nesciuno che dovesse più sacchizzare»³.

    Alonso II, succeduto al padre Ferrante l’8 maggio del 1494, nella basilica gremita di baroni, dignitari e gentiluomini, ascoltò la messa solennemente cantata dal cardinale Monreale⁴, indossò le vesti di diacono e si fece incoronare re di Napoli.

    Il 12 maggio 1495, re Carlo VIII di Francia, scortato da uno stuolo di cavalieri in armi, si recò dritto alla chiesa del duomo; qui sotto un pallio, di fronte al sangue di san Gennaro, giurò di osservare i privilegi e i diritti della città e dell’intero reame.

    Un altro famoso giuramento fu quello di Carlo V, che entrò in duomo il 25 novembre 1535. Dopo il Te Deum di ringraziamento, l’eletto del popolo Gregorio Rosso, con in mano il libro dei capitoli della città, e l’eletto di Portanuova, col messale, si presentarono al re e lo invitarono a giurare su quei sacri testi l’inviolabilità di ogni diritto. Solo allora don Giovanni Francesco Carafa del seggio del Nido gli consegnò le chiavi della città.

    Un giorno di settembre del 1630, preceduta da grandi ufficiali, circondata da nobili cavalieri e seguita da una schiera di arcieri, entrava nel duomo una donna deliziosa dai capelli biondissimi e gli occhi celesti, appoggiandosi a un piccolo paggio. La donna era la principessa Maria d’Austria sposa del re d’Ungheria; la sua bellezza contrastava con quella di un uomo arcigno, basso e panciuto che, ammantato degli abiti cardinalizi, incedeva con superba alterigia. Era costui il cardinale Guzmàn arcivescovo di Siviglia.

    Osservato il magnifico scanno pontificale dell’arcivescovo di Napoli, alla principessa sembrò offensivo quel seggio al confronto del trono della regina, che era di marmo. Si rivolse al cardinale Guzman e gliene ordinò la immediata distruzione. Gli arcieri eseguirono l’ordine nonostante l’opposizione dei canonici, che dopo qualche giorno fecero ricostruire il trono.

    Il 27 settembre la principessa tornò nel duomo e, ritrovando il trono al suo posto, lo fece demolire di nuovo da un plotone di alabardieri comandati dal conte di Tarsia. Completarono l’opera di distruzione gli arcieri del cardinale di Siviglia. Tutto ciò produsse sommo scandalo e scompiglio nei cittadini presenti, che si placarono solo alla vista della principessa prostrata in preghiera ai piedi di san Gennaro.

    Un mese dopo, il nipote del cardinale Guzman moriva a Napoli e tre mesi più tardi cessava di vivere lo stesso cardinale. Il popolo decretò che san Gennaro si era vendicato.

    Ancora un giuramento davanti a san Gennaro. Questa volta era il viceré duca d’Arcos, che giurò di rispettare i capitoli richiesti dal popolo napoletano per porre fine alla rivolta, passata alla storia come quella di Masaniello. Analogo giuramento fu ripetuto dal successore del duca d’Arcos, il viceré Juan d’Austria. Né si sottrasse a questa incombenza il re di Spagna Filippo V, che dopo aver fatto il suo trionfale ingresso in Napoli si recò nel duomo e pronunciò la rituale formula.

    Il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone⁵ entrò a Napoli accolto da un popolo esultante che vedeva finalmente, dopo due secoli, la città ritornare capitale del regno. La nobiltà andò incontro al nuovo re e sotto l’arco di Porta Capuana gli rese omaggio. Si formò, quindi, il corteo preceduto da uno squadrone di cavalieri che montavano cavalli ornati da ricche gualdrappe. Seguiva Carlo, avendo ai lati il conte Santo Stefano e il principe Bartolomeo Corsini; chiudevano la sfilata altri cavalieri che gettavano denaro al popolo. Il re attraverso via Tribunali si diresse nel duomo. Davanti alla chiesa trovò a riceverlo il cardinale Pignatelli e insieme andarono a pregare il santo patrono, che manifestò la sua benevolenza operando il miracolo fuori tempo.

    In segno di ringraziamento e devozione il nuovo re offrì a san Gennaro una collana tempestata di diamanti e rubini. Quindi pronunciò le famose parole: «Yo, por lo que el rey tiene determinado, recibo en mi propio nombre vuestra obediencia; y juro vuestros privilegios, y que los observaré» (In quanto re decido che sul mio nome vi sia resa ubbidienza e giuro che i vostri privilegi saranno rispettati).

    Carlo fu un vero devoto di san Gennaro: quando ritornò vittorioso dalla battaglia di Velletri, combattuta contro le armate di Maria Teresa d’Austria che insidiava l’indipendenza del regno, depose ai piedi del patrono le bandiere sottratte al nemico.

    Nel 1759 Carlo⁶ ereditò la corona di Spagna e prima di partire da Napoli andò a salutare san Gennaro e volle portare con sé una parte del prezioso sangue. Il sangue di una delle due ampolline è tuttora in Spagna e ogni anno, quando il miracolo avviene a Napoli, esso si verifica anche nella cattedrale di Madrid.

    Alla morte di Carlo III, questi lasciò in dono a san Gennaro il suo manto regale, da cui fu tratta una pianeta che si conserva nel succorpo della basilica.

    Quando giovedì 24 gennaio 1799 entrò a Napoli, il generale francese Champione si recò subito da san Gennaro e ordinò con pubblico avviso il Te Deum per il giorno successivo; ma poiché quel giorno un temporale violento si abbatté sulla città, la cerimonia fu rimandata alla domenica. In questo giorno Championet, circondato dai suoi ufficiali e scortato da un corpo di cavalleria, si inginocchiò nella cappella del Tesoro e rimase in preghiera fin quando il sangue non si sciolse. La storiografia successiva parlò di un miracolo niente affatto spontaneo, dato che avvenne in seguito a minacce nei confronti del vescovo. Il popolo presente, meno attento degli storici, rimase sbalordito che il loro patrono avesse aperto le braccia al repubblicano Championet, un nemico del re e della sua fede, credette che san Gennaro avesse tradito la causa del trono e gridò: «Pure san Gennaro s’è fatto giacobino». Pare che il popolo ne decretasse non solo la destituzione dalla carica di patrono, ma la rimozione da capitano dell’armata napoletana, sostituendolo con sant’Antonio abate⁷.

    Il generale francese, prima di lasciare la cappella, depose ai piedi del santo una mitra ricca d’oro e tempestata di gemme⁸.

    Il 16 febbraio del 1806 Giuseppe Bonaparte, entrato trionfalmente in Napoli, andò ad adorare il sangue di san Gennaro, assistette alla cerimonia religiosa, celebrata dal cardinale Ruffo, e donò al santo una croce di diamanti e smeraldi.

    Lo stesso fece re Francesco I di Borbone alla morte del padre Ferdinando IV (1825). Prima dell’investitura ufficiale, si presentò a san Gennaro con tutta la famiglia reale e lasciò in omaggio un fermaglio d’oro con diamanti. Allo stesso modo, suo figlio Ferdinando II iniziò il governo del regno (1830) donando al santo una pisside d’oro adorna di diamanti.

    Si potrebbe continuare: qui, nella cappella del Tesoro, vennero Gioacchino Murat, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, Umberto e Margherita di Savoia... «Chi non si è prostrato nella cappella del Tesoro innanzi alle reliquie e non ha, dopo la fervida preghiera di penitenza o di speranza, chi non ha offerto un dono, in memoria, a san Gennaro?»⁹.

    Qui verranno altri a rendere onore al padrone di casa; verranno fin quando esisterà Napoli, perché questa città nella sua religiosità pagana, tra mille superstizioni, non potrà fare a meno del suo santo e dei suoi miracoli.

    1. Nel 1860 fu aperta via Duomo, che va da via Foria a via Marina Nuova; in quel luogo c’erano una serie di strade e stradine che si intersecavano, e tra queste si ricorda il vico del Tari per il suo curioso toponimo.

    2. F. Strazzullo, San Gennaro tra fede, arte e mito, Napoli 1997.

    3. Notar Giacomo, Cronaca di Napoli, Napoli 1845.

    4. Legato del papa Alessandro VI.

    5. Figlio di Filippo Ve di Elisabetta Farnese.

    6. Divenne allora Carlo III di Spagna.

    7. Benedetto Croce non conferma questa degradazione.

    8. Secondo il diarista C. De Nicola i doni furono una collana e un anello (C. De Nicola, Diario napoletano, 1798-1825, Napoli 1906, vol. II,p. 41).

    9. M. Serao, San Gennaro, Città di Castello, s.d., p. 63.

    Petrarca a Napoli

    Una canzone di Landulfo de Lamberto del 1385 (ricordata da Benedetto Croce) celebra la pace e l’abbondanza che si godevano a Napoli, le buone leggi, le feste, i giochi, i tornei, le musiche e i canti d’amore. Il poeta non indagò sulle condizioni del popolo, che sebbene vedesse sorgere nuove case e nuovi rioni, e sentisse che il livello di vita andava crescendo, era schiacciato dalle tasse e doveva trovare in sé i mezzi per sopravvivere, doveva da sé inventare mille, umili mestieri che gli consentissero di condurre una misera esistenza.

    In quell’epoca regnava a Napoli Roberto d’Angiò, un re pieno di contraddizioni: religioso senza rispettare i princìpi morali, saggio tanto da essere detto il Savio, mentre sperperava le finanze dello Stato per imprese quasi sempre perdenti. Fu amante delle lettere, e questa passione lo indusse a raccogliere numerosi manoscritti e codici che andarono a formare una importante biblioteca; gli piaceva conoscere e valutare la capacità e la grandezza degli uomini «dediti alle umane lettere».

    Nel 1338 ricevette Francesco Petrarca e dopo averlo ascoltato lo giudicò degno dell’alloro poetico. Il poeta, scrivendo poi a Guido Sette, arcivescovo di Genova, dirà di Napoli: «Ivi regnava Roberto re di Sicilia, anzi d’Italia, anzi re dei re, che fece vivendo felice, morendo immerse il regno nella miseria... Orbene, dopo altri quattro anni... per comando del papa Clemente VI, tornato là... rividi le mura, le case, le piazze e le circostanti colline e più da lungi il Falerno e il Vesuvio sparsi di vigneti, e battute dai flutti Procida, Ischia, Capri e Baia fiammeggianti nel cuore dell’inverno; ma Napoli mia io più non vidi».

    Francesco Petrarca era venuto a Napoli nel 1340 una seconda volta investito di una duplice missione diplomatica, per conto del papa Clemente VI e per conto del cardinale Giovanni Colonna. Con la prima presentava le lagnanze del pontefice perché, alla morte di re Roberto (gennaio 1343), era stato nominato un Consiglio di Reggenza senza il consenso papale. Il papa infatti, essendo feudatario del regno, doveva essere consultato per tale provvedimento.

    Ritratto di Francesco Petrarca (Biblioteca Nazionale di Parigi).

    Il secondo e più delicato mandato riguardava la scarcerazione dei fratelli Giovanni, Pietro e Ludovico Pipino, che erano rinchiusi nelle segrete di Castelcapuano.

    Era assai strano che questi tre cavalieri, il cui casato era da due generazioni legato ai re d’Angiò e da questi largamente ricompensato con infeudazioni varie per i servigi resi, ora fossero tenuti in catene proprio da un sovrano di quella dinastia.

    I fratelli Pipino erano i nipoti di Giovanni Pipino di Barletta¹, cavaliere e maestro generale della Curia, che fu dal re Carlo II d’Angiò nominato capitano generale con l’incarico di combattere i Saraceni di Lucera; missione che egli compì con grande zelo. In seguito alla vittoria di Lucera fu ricompensato con molti territori in terra di Bari. Il figlio di Nicolò primo conte di Minervino sposò Giovannella d’Altamura; questa, alla morte del marito, divise tra i figli i numerosi possedimenti, che furono subito oggetto di sanguinose contese.

    Reginoro del Balzo, erede di Raimondo del Balzo, pretendeva la restituzione del castello di Minervino, che per un breve periodo era stato di proprietà di Raimondo. La vertenza assunse toni drammatici e Reginoro ci rimise la vita per mano di Giovanni Pipino, titolare della contea pugliese. Da qui le due famiglie, quella dei del Balzo e dei Pipino, dettero luogo a una serie di scontri violenti che assunsero la dimensione di una guerra per l’intervento di altre famiglie a fianco dei contendenti.

    Re Roberto d’Angiò, non potendo permettere che nel suo regno si combattesse una guerra da lui non voluta, convocò a corte i Pipino perché rispondessero del loro operato. Questi, disobbedendo al re, si arroccarono nel castello di Minervino in attesa dell’assalto da parte dell’esercito reale. Dopo i primi infruttuosi attacchi, il castello fu assediato. Non passò molto tempo che le scorte di viveri e munizioni cominciarono a scarseggiare e i Pipino chiesero una tregua per consegnarsi al re e fare atto di sottomissione. La richiesta fu accolta e i Pipino si presentarono a corte. Qui giunti il re, dopo aver ascoltato la loro difesa, li ritenne colpevoli e li condannò alla prigione perpetua nel Castelcapuano. I loro beni furono tutti confiscati e passarono di proprietà ai del Balzo.

    Giunto a Napoli per trattare la liberazione dei Pipino, Petrarca vi rimase alcuni mesi, durante i quali fu testimone di due eventi che dovettero segnarlo parecchio, se egli stesso sentì il bisogno di raccontarli in alcune lettere² indirizzate al cardinale Colonna.

    A Napoli il poeta andò ad alloggiare nel monastero dei frati francescani di San Lorenzo in via Capuana, oggi via Tribunali. La notte del 26 novembre 1343 era nella sua cella quando scoppiò un temporale così forte che le massicce mura del convento cominciarono a tremare; ma a tremare di più fu il buon Petrarca, quando vide spegnersi il lume della cella, mentre tutt’intorno si scatenava la fine del mondo. Si ricordò allora che il vescovo d’Ischia, un uomo che era dedito agli studi di astronomia, aveva predetto un violentissimo temporale che avrebbe prodotto ingenti danni e causato molte vittime. La previsione non fu ritenuta veritiera perché si sarebbe dovuta verificare la notte prima. Dunque, passata quella, si ritenne scongiurato ogni pericolo. La bufera si era presentata con ventiquattr’ore di ritardo, e con un’intensità pari a quella del presagio.

    Vedendosi calato nel buio, Petrarca ritenne giunta la sua ora e non gli restò che urlare aiuto. Accorsero i frati, anch’essi terrorizzati, armati di croci e di reliquie («crucibusque ac sanctorum reliquiis armati») e irruppero nella cella del poeta implorando la misericordia del Signore. Poi si riunirono tutti nella chiesa e qui passarono la notte in preghiera, mentre il temporale con la sua furia devastatrice si abbatteva su Napoli.

    Come Dio volle arrivò il mattino e con esso gli elementi della natura sembrarono quietarsi. Petrarca, ringraziando il Signore, uscì dalla chiesa, montò a cavallo e si diresse verso la marina. Non dovette avvicinarsi molto per sentire provenire lungo il litorale grida strazianti; si inoltrò in quella direzione e quando fu sul posto rabbrividì al tragico spettacolo: case distrutte dalle fondamenta e uomini che si erano schiantati con le loro barche contro gli scogli al pari di fragili uova («tenera ova»). Tra la folla accorsa sulla spiaggia vi erano più di mille cavalieri «convenuti come alle esequie della loro patria». Ad un tratto un fuggi-fuggi generale e urla disumane gettarono il poeta in una nuova situazione di panico:

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