Panni stesi
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Negli indumenti che sventolano al sole e nell’aria ci sono i segreti di ogni famiglia. Brandelli di stoffa appesi al filo che sanno svelare emozioni. Gli studenti del Laboratorio di Scrittura hanno saputo cogliere paure e speranze attaccate a quelle mollette colorate, entrando nel privato di ogni abitazione con l’immaginazione e la forza evocativa del racconto.
Laboratorio di scrittura creativa Dipartimento Disucom
Università degli Studi della Tuscia
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Anteprima del libro
Panni stesi - a cura di Rossella Cravero
Rossella Cravero
Panni stesi
Laboratorio di scrittura DISUCOM
Università degli Studi della Tuscia
isbn: 978-88-7853-821-4
isbnebook: 978-88-7853-666-1
Sette Città
Via Mazzini 87 01100 Viterbo
t. 0761 303020 f. 0761 1760202
info@settecitta.eu www.settecitta.eu
Ebook realizzato da Magdalena Butnariu nell'ambito del progetto indetto dall'Università degli studi della Tuscia Tirocinio Disucom/Scienze della Comunicazione
, presso la casa editrice Sette Città.
ISBN: 978-88-7853-666-1
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Prefazione
Epigrafe
Ascolta
Gelosia
Aria di casa
Mi chiamo Carlo
Raffaele
La gabbia infernale
Pareti bianche
La maglietta rossa
I panni stesi
Uno squarcio nella quotidianità
Il giorno del bucato
Copa mundial
Malessere
Oltre l'apparenza
Perla e il mare dell'amore
Un francobollo dal passato
Brezza d'estate
Amarsi male
Messer Beltrevù
Analgesia
Il lauto pasto
Ringraziamenti
Alleanze virtuose
Prefazione
Il Laboratorio di Scrittura creativa dell’Università della Tuscia è arrivato alla sua quarta edizione. Ancora una volta il Dipartimento DISUCOM ha consentito che i suoi studenti potessero dar sfogo alla propria voglia di scrivere, raccontare e raccontarsi.
Un’occasione per mettersi in gioco, accettando la sfida della pagina bianca così come quella del rispetto delle regole ferree, che portano alla stesura di un testo.
Un Laboratorio che ha trovato la forza del suo esistere nella volontà del capo del Dipartimento professor Giovanni Fiorentino che ha sostenuto l’importanza di offrire agli iscritti la possibilità di cimentarsi in prima persona con la scrittura.
Il Laboratorio si è confermato un percorso formativo che offre ai ragazzi gli strumenti per addentrarsi nel dietro le quinte
della scrittura, partendo dalla teoria, per poi mettere in atto le competenze acquisite. E anche per quest’anno accademico l’editore Sette Città ha offerto la sua preziosa collaborazione, facendo diventare realtà quello che per gli amanti della scrittura è un sogno primario: la pubblicazione del proprio lavoro.
Dopo Quella Notte Dante ci tradì, Io e Te palombari in un bicchiere e Curami, arriva quest’anno la raccolta di racconti Panni Stesi. Questa volta la formula è cambiata: ogni studente ha firmato la propria creazione narrativa. Non più un unico testo nato dall’ispirazione collettiva con una scrittura corale, ma una raccolta di racconti individuali scaturiti però sempre da un lavoro che ha visto il gruppo costruire una rete di condivisione capace di accrescere le abilità di ciascuno.
A fare da tema ispiratore sono state alcune foto di panni stesi, scattate tra Viterbo e provincia. Negli indumenti che sventolano sulle mura di un palazzo ci sono i segreti di ogni famiglia. Brandelli di stoffa appesi al filo che sanno svelare emozioni. Gli studenti del Laboratorio di Scrittura hanno colto paure e speranze attaccate a quelle mollette colorate entrando nel privato di ogni abitazione con l’immaginazione e la forza evocativa del racconto.
Epigrafe
Il libro è un coltello, è un corpo, è un mare…
Massimo Recalcati
Se vogliamo conoscere il senso dell’esistenza, dobbiamo aprire un libro: là in fondo, nell’angolo più oscuro del capitolo, c’è una frase scritta apposta per noi
Pietro Citati
Ascolta
di Sara Belella
La vidi per la prima volta al supermercato. Aveva il carrello pieno di piantine di tutti i colori: chi va alla Conad per comprare solo piantine? Una fioraia? Una giardiniera? Camminava con una tale grazia che sembrava essere sospesa a pochi centimetri da terra. Una ballerina? Scompariva e ricompariva tra le corsie come se stesse cercando con urgenza qualcosa o qualcuno, magari il fidanzato oppure la madre, considerando la giovane età che dimostrava; probabilmente stava solo procacciando la cena. Finalmente prese un hamburger dal frigo. Incastrò la confezione tra un vaso e l’altro; fortunatamente non era vegana. Si avvicinò alle casse e si mise in fila; iniziò a battere il piede come se stesse tenendo il tempo: non mi ero accorto prima che aveva gli auricolari. Chissà che genere preferiva. Pop? Rock? Classica? Jazz? Il giacchetto di pelle nero e gli stivaletti mi fecero immaginare quella ragazza come la bassista di un gruppo rock.
«Tesoro, hai preso il latte?». Caterina mi fece tornare alla realtà.
«Ehm... no». Scossi la testa staccando per un attimo gli occhi da quell’angelo in fila alla cassa. «Una cosa dovevi fare. A cosa hai pensato sino ad ora?».
«Cercavo il latte», risposi distrattamente dando l’ennesima occhiata alla cassa numero cinque. Fu in quel momento che anche lei mi guardò: uno sguardo penetrante e gelido che mi catturò definitivamente.
«Sì, certo. Cercavi una preda». Caterina mise il cartone di latte di soia nel carrello, rassegnata, «chi fa da sé... ».
«Scusa, Cate». Mi girai verso di lei, rivolgendole un sorriso.
«Se non ci fossi io, Vale», sorrise anche lei. Uscendo nel parcheggio ritrovai il mio angelo: i capelli lunghi di un rosso così intenso che alla luce del tramonto, con il vento primaverile, sembravano la fiamma tremolante di un fuoco appena acceso. Caricò i fiori nel portabagagli di una Fiat 600 bianca poi partì. Non potevo lasciarla andare così, volevo sapere chi era, dove abitava, cosa faceva. Oh mio Dio, è così che ragiona uno stalker? Io non avevo di certo cattive intenzioni, volevo soltanto conoscerla. Nella disperazione riuscii a memorizzare la targa, io che non ricordo nemmeno il mio numero di telefono; se abitava a Viterbo lavrei ritrovata prima o poi, la città non è grande. Forse dovevo lasciar perdere, mi dovevo accontentare di quell’unico incontro e tenere il ricordo al sicuro nella mia mente.
Fu il caso a portarmi nuovamente da lei, qualche giorno dopo. Rividi la sua auto nella via in cui abitava un mio amico che quel giorno compiva gli anni. Avrei cercato il mio angelo in tutte le case del vicinato ma fortunatamente si fece trovare lei: apparve sul terrazzo, nello stabile accanto a quello in cui abitava il mio amico Tommy, per stendere il bucato. In realtà era un bucato alquanto inusuale, come la spesa che aveva fatto qualche giorno prima al Conad, poiché non aveva steso vestiti o lenzuola, ma sottosella, parastinchi e coperte per cavalli. Doveva essere un’insegnante in una scuola di equitazione. O semplicemente ne frequentava una. Speravo non si fosse accorta di me e del mio sguardo, fisso su di lei da alcuni minuti. In ogni caso non potevo più trattenermi dal conoscerla.
«Come si chiama il tuo destriero, principessa?». Come mi era venuta in mente una battuta simile? «Tommy», rise.
«Come il mio amico», risi anch’io.
«Che culo». Sussurrò quelle parole ma le capii facilmente dal labiale e non mi sarei aspettato altra risposta, sinceramente.
«E tu come ti chiami?».
«La principessa si chiama Silvia», rispose riprendendo il mio gioco stupido.
«Io sono Valerio. Quindi hai un cavallo?». Certo che ha un cavallo, deficiente.
«Più o meno. Tommy non è proprio mio: ce l’ho in affidamento».
«Comunque frequenti il maneggio?».
«Beh, chiaro».
«Insegnante di dressage?».
«Pulisco le stalle, per non dire altro».
«Comunque dignitoso».
«Mi prendi in giro?».
«No, assolutamente. Scusami, sono partito con il piede sbagliato. Ti posso offrire un aperitivo per farmi perdonare?».
«Nemmeno ti conosco».
«Ti ho invitato per un aperitivo, non ti ho mica chiesto di sposarmi». Anche se lo avrei fatto subito, improvvisando un anello saldando un qualsiasi pezzo di metallo che avessi trovato nella casa di Tommy.
«Diciamo che mi hai convinto». «Ho accettato più che altro per capire se sei un serial killer o solo un cretino», mi confessò quando ci mettemmo seduti ad un tavolo con i nostri Spritz.
«Più la seconda, fidati». Da vicino era ancora più bella, il suo sguardo era intenso, freddo ma allo stesso tempo dolce: aveva un occhio verde e uno marrone. Unica. «Oh mio Dio!», esclamò ad un certo punto, «io mi ricordo di te. Mi hai tenuta d’occhio per tutto il tempo che ho passato cercando l’hamburger al Conad».
«Oh, cavolo. Te ne sei accorta?».
«Certo. Mi rendo conto quando ho lo sguardo di qualcuno addosso, tu che dici?!», era un po’ alterata, «Tu sei fidanzato! E ci stai provando con me?».
«Cosa?». Quella frase mi lasciò spiazzato. Fidanzato io? Ero uno spirito libero che volava di fiore in fiore. Anche se lei sarebbe stata l’eccezione.
«Sì, cavolo! Stavi facendo spesa insieme ad una bellissima donna. Chi era fidanzata, amante, moglie?». Risi.
«Ridi?».
«Sì perché Caterina è mia sorella».
«Ah ecco». Si rabbuiò rendendosi conto della gaffe che aveva appena fatto, «ok, adesso sono al tuo stesso livello. Possiamo anche vederci per un vero appuntamento».
«Non raggiungerai mai il numero record delle mie figure di merda. Comunque, per me possono esserci anche tremila altri appuntamenti».
Rise e tutto d’un fiato mi gettò in faccia: «Tra una settimana parto per Los Angeles».
Avrei voluto spaccarmi il bicchiere in testa per passare da malato mentale e in questo modo giustificare tutto quello che avevo fatto fino a quel momento, «ah», abbassai lo sguardo, quasi del tutto arreso, «ti seguirei ovunque».
«Voglio diventare attrice e lì spero di avere più possibilità».
«A me piacciono i film».
«Ma pensa che coincidenza!». Aveva pienamente ragione a prendermi in giro.
«Non dico cose così cretine solitamente. Ma tu mi mandi fuori di testa», scossi il capo più frustrato e imbarazzato di prima, «ricomincio dall’inizio: ciao, sono Valerio, lavoro in banca, ho una fantastica sorella che si chiama Caterina, sono single, non sono un maniaco e quando ti ho vista al supermercato, mi sono subito innamorato di te». Alzò gli occhi al cielo. «A quanto pare non riesco a finire una frase senza dire qualcosa di cui vergognarmi».
«Va bene. Io sono Silvia, lavoro in un maneggio e vorrei diventare un’attrice. La prima volta che ti ho visto al supermercato ho pensato fossi un maniaco».
Risi; lei fece un risolino poi girò la testa dall’altra parte, appoggiando il mento sulla mano perfetta, piccola e candida. Guardando il sole che stava tramontando, le apparse un timido sorriso appena visibile: era serena.
«Silvia», la chiamai. Come suonava bene quel nome! Lo pronunciai piano per non rovinarlo, per non sgualcirlo o sprecarlo. Evidentemente lo avevo detto troppo piano, dato che non si era girata affatto, allora la chiamai di nuovo, stavolta un po’ più forte, ma niente: era talmente presa dal tramonto che nemmeno si accorgeva del mondo esterno, oppure mi ignorava di proposito. Come darle torto. A quel punto le appoggiai una mano sulla spalla delicatamente e lei sobbalzò impaurita. «Scusa, non volevo spaventarti. È che ti stavo chiamando da un po’, ma sembrava non