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Oggi c’è il sole... per me
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E-book256 pagine3 ore

Oggi c’è il sole... per me

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Info su questo ebook

Gioele è alla continua ricerca di se stesso, vive delle sue sensazioni e nel ricordo del suo grande amore, Alice, alla quale pensa ogni giorno nonostante siano passati molti anni dall’ultima volta che si sono visti. Pur provando a cercare di vivere nuove relazioni, il ricordo di Alice è sempre presente, inducendolo a creare continui paragoni con le ragazze che incontra, ma nessuna gli fa battere il cuore come lei, tranne Giorgia, che però si rivela un amore impossibile da vivere a causa dell’amicizia che li lega. Quando sembra finalmente riuscire a voltare pagina, una sorpresa inaspettata riporta Gioele a riaprire il capitolo della sua vita dedicato ad Alice, un capitolo che resterà aperto per sempre perché il primo amore non si scorda mai...

Roberto Paglia è nato il 12 giugno 1978 a Castellamonte (TO). Ha vissuto ad Oglianico (TO) insieme ai genitori e la sorella maggiore fino ai 26 anni di età. È sposato, vive a Busano (TO), ha quattro figli, tanti animali e nella vita si occupa di programmazione di macchine utensili in una ditta meccanica in cui lavora da 20 anni. La sua vita è da sempre fatta di calcoli, trigonometria e meccanica, e la quiete in casa degli ultimi 13 anni è paragonabile a quella di un salone parrocchiale durante una festa di compleanno… ma nonostante il lavoro, gli hobby, gli impegni famigliari e gli studi in un Istituto Tecnico, ha sempre coltivato una passione per la scrittura e per la musica…
Scrivere è sempre stato per lui un modo di rompere le righe dal tran tran quotidiano, riscoprendo quei valori che aveva da bambino, quelle speranze, quell’amore senza limiti, quelle sfumature che solo nel silenzio della sera si riescono a cogliere… mentre il cane con la testa appoggiata sulle gambe ti guarda con gli occhi di chi vorrebbe un biscotto e il gatto si addormenta sul tavolo vicino al portatile aperto a illuminare idee e occhi assonnati…
Questo libro è la realizzazione di quel sogno nel cassetto che ogni volta che apri trovi lì, a guardarti con gli stessi occhi del cane e che si addormenta vicino a te come il gatto…
Qui c’è la storia di un ragazzo che cresce, perennemente confuso tra ciò che reputa giusto e sbagliato, in attesa delle risposte alle domande che la vita gli pone… il resto scopritelo voi…
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2021
ISBN9788830636972
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    Oggi c’è il sole... per me - Roberto Paglia

    paglia-piatto.jpg

    Roberto Paglia

    Oggi c’è il Sole…

    per me

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3223-3

    I edizione febbraio 2021

    Finito di stampare nel mese di febbraio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Oggi c’è il Sole… per me

    Ci sono dei momenti in cui uno vorrebbe dire talmente tante cose, che forse l’unico modo per dirle tutte è stare zitto…

    Leonardo Pieraccioni

    Ai miei genitori

    A mia sorella e la sua famiglia

    A mia moglie

    Ai miei figli

    Ai miei nonni

    A Mac

    Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    I

    Anche oggi ero in ritardo, nemmeno a farlo apposta.

    Mi ero perso in uno dei miei testi, bello, flippato, profondo, sentimentale, da rincoglioniti insomma.

    Era da tanto che non scrivevo, ma oggi, sarà stata quel po’ di foschia o le canzoni che trasmettevano alla radio, mi sentivo ispirato.

    Arrivai da Seba quasi venti minuti dopo l’orario stabilito. Francesco venne a darmi una mano a scaricare i vestiti puliti e stirati con ancora l’etichetta della lavanderia pinzata all’interno dei gilet e ai passanti dei pantaloni.

    A turno, portavamo i nostri quattro abiti a lavare e stavolta era toccato a me. Seba fumava nervosamente e Mac aveva già il motore della macchina acceso.

    Frà cercò di aprire la portiera dal lato passeggero, ma era chiusa. Mi allungai per tirare su il pirillo blocca porta e permettergli di aprirla.

    Prese i vestiti appesi alla maniglia reggimano, quella alta che usano sempre gli anziani.

    Mia nonna, per esempio, ci si attaccava sempre con forza e quando le chiedevo "Nonna, ma hai paura? Sto andando troppo forte?, lei rispondeva No, no senza distogliere lo sguardo dalla strada e, stringendo la presa ogni volta che la macchina davanti frenava, aggiungeva: è che mi riposo il braccio".

    Il braccio! Sempre quello destro!

    "Dovrei farmi prestare la macchina da Attilio pensavo. Così ogni tanto si riposa anche un po’ il sinistro".

    Attilio è un contadino che vive vicino a noi ed è l’unico ad avere una

    FIAT 131

    con la guida a destra.

    "Quando sono andato per comperarla, avevano questa qui e costava meno, e allora l’ho presa così" diceva sempre con le sue esse sibilanti.

    «Porca trota Gio» disse Francesco «Mai una volta che riesci ad essere puntuale. Mai! Ora chi lo sente Lucio.».

    Frà non diceva mai le parolacce, ma era un continuo cacchio, madrina, testa di quiz e robe così.

    Il suo "Porca trota Gio" confermava l’incazzatura muta che leggevo nei volti di Seba e Mac.

    «Scusate il ritardo, ho dovuto dare da mangiare ai cani e prendere la legna per la stufa di mia nonna» solite cose insomma.

    Le mie scuse erano sempre le stesse e mia nonna era la protagonista assoluta. Pensavo che mai nessuno sarebbe andato da lei a chiederle "Scusi, signora nonna, è vero che Gioele l’altro giorno è andato a prenderle la legna per la stufa?".

    Gioele sono io. Gioele Pane. Ho un nome strano, un cognome un po’ stupido, ho ventitré anni e abito in un paese così piccolo che sono l’unico Gioele nell’arco di chilometri, ma mi chiamano lo stesso tutti Gio.

    Ma stavo parlando del mio ritardo. Lo faccio spesso: inizio con un discorso e poi finisco sempre a parlare di altro.

    Era il 3 febbraio del 2001 e Francesco Testore, Sebastiano Latte, Marco Carignano ed io stavamo andando a un matrimonio in una villa aristocratica chiamata Il Castel.

    Non eravamo ospiti, ma quattro dei dodici camerieri del servizio catering di Lucio Marchesi. Lucio era abituato ai nostri ritardi, urlava per un quarto d’ora, poi si calmava e tornava ad essere uno dei tipi più tosti che avessi mai conosciuto.

    Era solo, aveva una figlia che viveva da qualche parte al mare con la madre, un cane di grossa taglia, lo sguardo da duro. Io lo stimavo, mi dava l’impressione di non aver paura di niente, di essere uno di quelli capaci di affrontare qualsiasi situazione. Fumava le Muratti e all’ultimo tiro ne faceva seguire subito un altro, aspirando con decisione e tirando fuori dal naso contemporaneamente. Poi, impartiva gli ordini e parlava per dieci secondi col fumo che gli usciva ancora dalla bocca.

    Con i nostri vestiti eleganti, dovevamo preparare la faccia e mantenere, per tutta la durata del pranzo, un sorriso plastico "Perché servire è un’arte… un bel quadro fa bella una parete, un bel servizio fa bello un matrimonio" diceva sempre.

    Era un lavoro così, in attesa di qualcosa di meglio, però si baccagliava e si guadagnava abbastanza da permettermi di essere autonomo e non chiedere soldi ai miei.

    Vivevo con mia madre Elisa e mio padre Silvano. Stefania, mia sorella, si era appena sposata con Luca ed erano già genitori di Mattia, mio figlioccio, per il quale non ero padrino ma "Palìnooo" con la stessa voce di Clemente il muratore quando chiamava i suoi operai. Avevo due cani maschi, un pastore tedesco di nome Mercuzio e un vecchio barboncino di nome Tebaldo, Cuz e Teb.

    Teb era stato il nostro primo cane. L’avevamo preso da una cucciolata di un’amica dei miei quando io avevo nove anni.

    Una sera, quando era piccolissimo, per gioco l’avevo messo sul tavolino fuori. Mi ero distratto un attimo e lui, spaventato, era saltato giù sbattendo forte il muso. Ricordo ancora il rumore di quello schiaffo e di lui che piangeva pigolando come un pulcino. Era un piccolo batuffolo di peli grigi. Ci rimasi così male che, prima di andare a letto, mi chiusi in bagno e, davanti allo specchio, mi presi a pugni sullo zigomo destro fino a quando il rumore non mi sembrò simile a quello del musetto di Tebaldo sul pavimento. Andai a dormire gonfio e soddisfatto. Il giorno dopo, io sembravo Rocky e Teb non si ricordava nemmeno più cosa fosse successo e correva avanti e indietro come un razzo.

    La casa era grande e divisa in due piani. Sopra stavamo noi e sotto mia nonna paterna Harley, cioè, ero io che la chiamavo così, il vero nome era Harlette.

    Era nata e vissuta in Francia, a Cagnes Sur Mer in Costa Azzurra. A diciassette anni aveva conosciuto Davide, di due anni più vecchio (Davidson per me. Harley-Davidson). "Il più bel carabiniere di Alba diceva sempre nel nominarlo con la sua erre moscia e gli occhi lucidi di ricordi. L’aveva incontrato d’estate, quando era venuta a fare la cameriera in Italia da alcuni suoi zii che avevano una locanda a Neive. Ora, a ottantatré anni, era ancora scoppiettante come una motocicletta, una madama" dalla cadenza franco-torinese, simpatica, aperta alla modernità di questo mondo, amante del teatro, dell’opera, della musica classica, con una carriera da cantante a cui aveva rinunciato per portare a casa qualche soldo con un lavoro più sicuro in una Francia che, come tante altre nazioni, stava ripartendo dalle devastazioni e dagli orrori lasciati dalla guerra.

    Non c’era volta in cui uscisse senza essere truccata, con le unghie sempre smaltate e i suoi tailleur dai colori accesi.

    Al contrario, mia nonna materna era la nonna di campagna per eccellenza, quella buona dei cartoni animati, ruvida in viso e bella così, con qualche chilo in più e le mani sempre rovinate e i suoi grembiuli che usava per far tutto, uno per cucinare, uno per andare nell’orto. Con un nome semplice e delicato che le stava a pennello, Margherita era una donna forte con una dolcezza infinita. Ci aveva abbandonato all’improvviso, troppo presto, perché molte volte sognavo ancora il suo semolino dolce e il suo amore materno, non che quello mi mancasse per carità, ma l’amore materno di mia nonna era tipo quello di una santa credo, come l’omonima mamma Margherita di Don Bosco o robe così. La conoscevano tutti come la maestra Marghe perché era stata l’insegnante del paese, ed era una santa e una maestra a sopportare Achille. Mio nonno. Muratore, fumatore, panettiere, saldatore, inventore, giocatore di scopa, di bocce, amante delle biciclette e bevitore accanito di Barbera. Una specie di mito per me, perché se con gli altri era permaloso e burbero, nei confronti miei e di mia sorella era premuroso ed era simpatico e rideva a tutte le battute che dicevo.

    Aspettavo sempre che bevesse o mangiasse qualcosa, poi, ne sparavo una e lui rimaneva lì, indeciso se trattenere o sputare tutto. Corrugava la fronte e metteva la bocca in una maniera strana con gli occhi che si riempivano di lacrime. Quando riusciva a deglutire, mi diceva: "Ma piantala lììì" e rideva.

    La domenica, lui, mia sorella, Luca e Mattia venivano a mangiare da noi e, quando esagerava col bere, mia madre gli diceva: "Guarda che il dottore ha detto che devi bere un bicchiere a pasto e lui rispondeva in dialetto: Appunto, se un bicchiere a pasto fa bene, tre o quattro fanno ancora meglio". Ce l’aveva col sindaco, con la proloco, con i politici.

    Ogni tanto, di nascosto, passavo da casa sua. D’estate aveva sempre la finestra aperta con la tapparella un po’ abbassata. Se non faceva i cruciverba, guardava la tv, gli piacevano le trasmissioni di Funari. Io stavo lì ad osservarlo senza farmi vedere e poi andavo via, quante volte l’ho fatto.

    Il suo essere sempre arrabbiato con tutti era diventato un modo per rimanere al mondo dopo che mia nonna era mancata. Abituato ad arrivare a casa e ad avere tutto, si era trovato costretto a rimboccarsi le maniche e imparare a farsi da mangiare, e pulire e lavare sempre le stesse stoviglie che usava a nastro. Mia mamma gli faceva le lavatrici e stirava la roba, ma per il resto non voleva dipendere da nessuno.

    Aveva una piccola officina che mio zio, l’idraulico Pietro, usava come magazzino e lui passava le ore là dentro a mettere a posto e a recuperare cose che, con ogni probabilità, sarebbero poi state buttate e sostituite con pezzi nuovi, cosa che lo faceva andare in bestia. "Sprechi tanta di quella roba puntualizzava in dialetto e Pietro, dotato di una pazienza infinita, lo assecondava e la prendeva a ridere perché conosceva quel personaggio tanto burbero quanto buffo, e spesso si mordeva la lingua per non rispondere, facendo andare il terribile Achille su tutte le furie; a volte, era successo mentre ero a casa dei nonni, e zio Pietro se ne andava lasciandolo lì a sbraitare e gesticolare, poi mi passava davanti, mi faceva l’occhiolino e mi diceva: Cantami o Diva del pelide Achille l’ira funesta.".

    Mio zio era un dritto, un tipo in gamba e simpatico che ti faceva ridere senza fare troppe parole. Aveva solo sette anni in più di me e due in più di mia sorella, infatti da piccoli sembravamo più fratelli che zio e nipoti. Aveva sposato Silvia, la sua segretaria, una dei tamburi della rievocazione storica e la migliore amica di mia sorella.

    Natale in casa Pane era un disastro, perché tutti i nonni venivano a mangiare da noi e, quando c’era ancora Davidson, non c’era occasione in cui lui e Achille non discutessero di politica e di leggi. Mia sorella, che era laureata in Giurisprudenza, aveva quindi il compito di dare spiegazioni plausibili senza dare ragione né a uno né all’altro perché nessuno dei due si offendesse, e non so come facesse, ma ci riusciva sempre.

    Anche Davide era simpatico, sguardo fiero da ex carabiniere, distinto, patriota, un signore nel modo di vestire e apparire, alto, elegante e con due occhi azzurri che sembravano fanali nella sua carnagione sempre abbronzata. Ogni giorno comprava

    LA STAMPA

    e la leggeva tutta, ma tutta tutta, poi commentava alcuni articoli ad alta voce imprecando di tanto in tanto contro il governo, dicendo che ai suoi tempi non era così eccetera eccetera.

    Aveva la fissa della gobba. Mi diceva sempre "Cammina dritto che ti viene la gobba oppure Tira su ste spalle che vieni tutto gobbo o Stai seduto bene su quella sedia". Ancora oggi, delle volte, quando cammino o leggo, mi si accende la lampadina della gobba e raddrizzo subito la schiena.

    Quando ero piccolo, mi cantava sempre la solita canzoncina "Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda i bersaglier. Poi la ricantava mettendoci una vocale e mantenendola per tutto il ritornello, intonando Garabalda fa farata oppure Ghiribildi fi firiti. Quando arrivava a Gurubuldu fu furutu", io ridevo sempre e non so se ero più stupido io a ridere, o lui a cantare in quel modo.

    Ogni tanto, con Davidson, andavo al circolo dei pescatori dove giocava a pinnacola con gli amici. Quando era ora di merenda, mi comprava sempre il ricoperto al cioccolato. Io non lo volevo mai, non perché il ricoperto non mi piacesse, ma perché quando mi sporcavo la bocca, lui me la puliva passandosi della saliva sul fazzoletto, bleah!

    Anche Margherita mangiava sempre il ricoperto. Lo chiamava il pinguino. Quando io e mia sorella d’estate eravamo da lei, mi dava 5000 lire e mi diceva "va a comprare i gelati, a me prendimi un pinguino". Io partivo in bicicletta e andavo al bar dove c’era Achille, che invece mi dava 2000 lire per comprargli le sigarette; così volavo con la bmx da Giovanni il tabaccaio, prendevo un pacchetto di Alfa senza filtro e lo portavo a mio nonno che mi diceva "Con il resto comprati il gelato". Mi mettevo in tasca quelle 500 lire, compravo i gelati con i 5000 della nonna e, quando tornavo, in base al resto che le restituivo, mi lasciava di mancia 500 o 1000 lire. Adesso sembra di parlare di spiccioli, ma allora per me erano soldoni. Arrivato a casa, li mettevo in una scatola sotto il letto e a San Feliciano avevo sempre più gettoni di tutti per andare sulle giostre. Povera nonna a pensarci, lei e il suo pinguino.

    Alice e Carlo oggi sposi. Eravamo arrivati.

    Ora avrei dovuto giustificarmi con Lucio, ma eravamo così in ritardo che ci fulminò solo con lo sguardo e, quando cercai di spiegare, con Seba, Mac e Frà pronti ad annuire ad ogni mia affermazione, Lucio disse: «Ora non c’è tempo, mi dirai più tardi» e, al "mi dirai più tardi", sembrava che la sua voce fosse roca e bitonale come quella della bambina dell’Esorcista.

    Riguardai il cartello. La sposa si chiamava Alice come la ragazza di cui ero follemente innamorato. Mi soffermai a ripensarla giusto il tempo di sentire la stessa voce gridare «

    MUOVERSIII

    ».

    Io e Mac eravamo allo stesso tavolo. La più giovane avrà avuto sessant’anni. Seba e Frà invece erano al tavolo delle Spice Girls. Quattro patatine, una più carina dell’altra, probabilmente cugine o parenti della sposa perché erano troppo giovani per essere sue amiche.

    A un certo punto, Seba mi venne incontro pallido, aveva un impellente bisogno di andare in bagno e mi chiese se io o Marco potevamo dividerci e dare una mano anche a Frà. A Mac non dissi niente perché, lupo com’era, si sarebbe precipitato. Quando mi vide passare col vassoio delle macedonie e dirigermi al tavolo delle Spice con un sorriso beffardo, fece un’espressione che diceva tutto.

    Cominciai a servirle inserendomi nei loro discorsi. Dalla faccia che fecero, non s’aspettavano che stessi andando proprio al loro tavolo, infatti, si zittirono e mi guardarono. Ci fu un attimo di imbarazzo. Le avevo cuccate in pieno parlare di Seba.

    «Non vi preoccupate» dissi.

    «Non lo dico al mio migliore-amico-Sebastiano che stavate parlando

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